di Lorenzo Mnf (da L’Ospite Ingrato)
AA. VV., La rivista Primo Maggio (1973-1989), a cura di Cesare Bermani, Derive Approdi, Roma, 2010, pp. 224, € 20,00.
Divagazioni prima della recensione e per la recensione.Se dico che in molti di voi non ci aspettavate, capite a che generazione appartengo.
Siamo una razza nuova, noi. Abbiamo studiato e vaghiamo randagi per l’Europa, ma abbiamo contingenze e urgenze simili a certi operai.
In molti casi, di quei certi operai, siamo i famosi “figli dottori”. Mentre studiavamo si formava un mondo in cui studiare non era più un atto di liberazione. Ed eccoci di nuovo a lottare.
Siamo studenti o lavoratori della conoscenza, alta o bassa che sia, in un sistema che la conoscenza la vuole schiava. Il proletario non aveva che le braccia, noi non abbiamo che la testa. Non è la stessa cosa, ma lo sfruttamento è sempre tale, e, malgrado il restyling permanente, tale è lo sfruttatore.
Ecco perché a noi nessun novello Pasolini (povero Pasolini) può venirci a dire che abbiamo torto ad invadere le strade, magari perché non siamo figli del popolo.
Perché, fatta eccezione per i migranti e altri perseguitati nella notte, c’è oggi in Italia miseria sociale più grande che essere giovane? E, allargando lo sguardo, c’è oggi in Europa un soggetto più credibile dei giovani che affrontano il presente in nome del futuro? C’è oggi pensiero più utile di quello che demolisce con gioia i nuovi dogmi ideologici?
E’ dura capirlo per gli intellettuali classici e per tutti quei nuovi benpensanti che mai ammettono di esserlo: la nostra non è una questione di stile, non è una scelta ideale, tantomeno è un’imitazione. La nostra è una ribellione morale in quanto materiale, la nostra è rabbia con un’origine e con un fine. E’ qualcosa di ben più profondo di quanto si possa risolvere in un moribondo talk show televisivo o su qualche giornaletto assolutamente democratico. Ancora ci provano certi mestieranti a “parlare di giovani”, come se i “giovani” avessero bisogno di loro, come se noi ci aspettassimo che chi rappresenta il problema ora discuta della soluzione.
Noi siamo i soggetti di una rivolta non più figlia del benessere: la nostra è autodeterminazione interessata e immediata. Si comprende che in molti possano averne paura: i reazionari per la risata con cui guardiamo alla loro decadente violenza post-fascistoide, i sedicenti oppositori perché vedono chiaramente che il loro stanco e nevrotico protagonismo è oramai roba da museo. Ci temono e ci guardano, non sopportando, prima di tutto, l’idea che noi non si voglia svendere a pacchetto completo la nostra intelligenza.
In questi giorni, infatti, di fronte alla protesta giovanile, nessuno ha posto abbastanza attenzione al sentimento dell’invidia, che muove le reazioni di repressori e paternalisti. L’invidia per una giovinezza che può porsi domande radicali senza aver paura di perdere qualcosa, proprio perché libera da fardelli partitici, sindacali, baronali e lobbistici in genere. L’invidia per noi che possiamo essere ancora liberi da compromessi irrimediabilmente mutilanti, compromessi come quelli accettati negli anni passati da specifiche élites intellettuali, compromessi che non hanno mai avuto qualcosa in comune con una sana apertura mentale, anzi, che hanno sancito per gran parte del mondo culturale italiano (e europeo) l’auto soffocamento.
Non credo infatti che sia eccessivo cercare di riconoscere nel mondo intellettuale ufficiale (e ufficioso) uno dei maggiori responsabili, se non altro per omissione di soccorso, dei disastri sociali che stiamo vivendo. Proprio la natura stessa di un capitalismo cognitivo avrebbe dovuto far capire che, almeno da un po’, le azioni culturali devono interrogarsi sulle loro dirette implicazioni sociali e che, se non lo fanno, sono destinate ad essere arte sublime (caso auspicabile ma raro), implicita legittimazione dello status quo (caso diffuso) o semplice aria fritta (caso altrettanto diffuso) . Proprio il ruolo del pensiero come valore avrebbe dovuto suggerire che la critica e la conoscenza di questo valore non erano passatempi sterili, ma scelte necessarie. E’ quasi un mistero vedere, invece, come realtà intellettuali che furono un tempo enormemente evolute nelle capacità critiche siano riuscite, nell’ultimo ventennio, ad inchinarsi al più becero utilitarismo per i più effimeri interessi di casta, e che lo abbiano fatto spesso perché mosse da un decadente, tacito, quasi isterico, nichilismo.
Non è invece un mistero perché oggi, di fronte al prepotente riemergere di alcune congiunture storiche, le stesse realtà intellettuali balbettino lingue impotenti, in molti non hanno più un bel niente da dire.
Insomma: per gran parte del ceto culturale la nostra voce è dura da accettare, e si può anche capire perché. Non c’è quindi da pretendere o elemosinare sostegni di cui non si ha bisogno. Non c’è da ascoltare troppi consigli.
Ma forse fanno ancora eccezione quegli intellettuali che da sempre hanno provato ad interrogarsi radicalmente su loro stessi, sul senso di quello che facevano, su come ciò che facevano interveniva realmente e concretamente nelle dinamiche sociali. Quelli intellettuali che nel recente passato si sono gettati nel corso della storia senza pretendere di osservarla solo da fuori e che, pur cogliendo la tragicità della storia stessa, non hanno ceduto al nichilismo e all’utilitarismo beota. Quegli intellettuali che hanno provato a prestare forme di soccorso sociale e, per questo, sono oggi ufficialmente sconfitti (per ora). Quegli intellettuali che hanno oggi l’onore di non farci paternali, ma riescono ancora a darci suggerimenti. Quegli intellettuali che in qualche modo ci somigliano, per ciò che fecero un tempo e per ciò che non si rimangiarono dopo.
Questa vuole essere una recensione. Ed è allora di questi intellettuali e della loro storia (tanto la loro quanto quella che hanno scritto) che vorrei in verità trattare. Ma prima di poterlo fare devo ancora affrontare la questione del passato dal punto di vista della mia generazione. A oggi non voglio prescindere da uno sguardo del genere, perché tutto il resto sarebbe soltanto una ripetizione, e allora non avrebbe neanche senso scrivere.
Il passato è per noi una questione non subito evidente, ma ugualmente carsica, fondamentale. E’ una terra, più o meno straniera, in cui siamo spesso aggrediti in maniera quasi assurda. Sono sempre dei novelli Pasolini, instancabili banalizzatori del Pasolini assassinato, che contro l’urgenza di certe nostre rivendicazioni contemporanee usano il passato come arma ideologica. Tirano fuori un passato ben modificato, ben ristrutturato, costruito da anni di propaganda permanente e deprimente. E allora eccoli, i finti Pasolini, eccoli che, ad ogni nostro movimento non educato e disciplinato, esclamano all’unanimità: “Oh giovani attenti! L’importante è che non facciate gli errori del passato”.
Attenti al passato, spiegano i padroncini del passato.
Già, ma di quale passato stiamo parlando? Davvero possiamo ancora considerare nostro il passato ufficiale tanto amato da chi ci reprime e da chi ci invidia?
Perché se il passato ufficiale ci ha portato all’ingiustizia di oggi, alla rassegnazione di oggi, alla silenziosa violenza di oggi…Se il passato ufficiale permette a chiunque non ne ha il titolo intellettuale o morale di farci una noiosissima paternale. Se il passato ufficiale è fatto per farci fare la vita degli scemi, che ce ne facciamo di questo passato?
Perché non esigere un passato meno soffocato dai compromessi e dalle colpe, cioè libero da quei compromessi che non abbiamo stretto e da quelle colpe che non ci appartengono? Perché, ad esempio, non esigere almeno il passato così come è stato studiato da tante menti oneste e capaci che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di pensare tra le macerie di questo Paese? Perché non ripartire da qui per costruire percorsi di conoscenza autonomi che ci appartengano direttamente?
Un passato meno scemo? La strumentale narrazione ufficiale della storia recente del Movimento operaio e studentesco è stata largamente utilizzata come arma repressiva contro l’attuale protesta delle giovani generazioni italiane, vale a dire contro una delle proteste più cruciali e potenzialmente efficaci che abbia mai conosciuto la storia repubblicana degli ultimi anni.
La fin troppo nota riduzione della Contestazione italiana degli anni ’60-’70 alla sola categoria del piombo è stata scaricata sulla protesta studentesca e sociale e, quindi, sulla già svuotata democrazia italiana, con una velocità ed una furia tali da tradirne la reale matrice ideologica, mistificatrice ed, infine, repressiva.
Un passato mistificato ad arte per reprimere ad arte il presente.
Non solo. La strumentalizzazione del passato sotto il finto imperativo dell’imparzialità avvenuta in questi anni, e su cui la narrazione ufficiale si basa, si sarebbe potuta smascherare punto per punto proprio con un approccio più critico allo studio del passato stesso. Ma tra le vittime della strumentalizzazione del passato sono rimasti anche quei modi di fare storia invisi al pensiero dominante fintamente imparziale.
Non c’è che dire: è un cane che si morde la coda.
Ma oggi è tempo di non passare più per scemi, si diceva, e allora il cane va reso randagio: a questo passato fasullo che ci condanna senza colpa bisogna rispondere con intelligenza.
Il loro potere non è il nostro, perché dovrebbe esserlo il loro passato?
Primo Maggio, per esempio. Ecco che leggere oggi una rivista di quel vecchio Movimento che fu, direttamente, senza filtri, può essere una buona idea. Leggere oggi una rivista come fu Primo Maggio, che uscì tra il 1973 e il 1988, per esempio, potrebbe essere un’operazione utile.
In Primo Maggio hanno scritto un bel po’ di quegli intellettuali forse capaci, oggi, di digerire la nostra ribellione, un po’ di quegli intellettuali capaci di gettarsi nella storia senza pretendere di osservarla e senza convertirsi al nichilismo, un po’ di teste capaci di donarci sapere concreto senza però venirci a dire quello che dobbiamo fare delle nostre vite.
Dedicato alla rivista Primo Maggio è uscito, quasi un anno fa, un libro della DeriveApprodi, curato da Cesare Bermani e con diversi saggi di autori abbastanza eterogenei (nel volume compaiono interventi di: Cesare Bermani, Sergio Bologna, Riccardo Borgogno, Bruno Cartosio, Alberto De Lorenzis, Valerio Evangelisti, Stefano Lucarelli, Santo Peli, Karl Heinz Roth).
Ma quello che forse conta ancora di più, è che questa raccolta di saggi accompagna un’eccezionale digitalizzazione su Cd-rom di tutti i numeri della rivista Primo Maggio, consegnando alla riproduzione informatica un patrimonio fino ad ora disperso in copie volanti di collezioni private o di Movimento. Quella di DeriveApprodi è una scelta editoriale che ne segue altre simili e di cui non c’è che da essere contenti. Ancora oggi leggere Primo Maggio è tempo usato bene, molto bene. Per tutti, anche per noi che nemmeno abbiamo trent’anni.
Leggendo oggi la rivista si può provare a capire, senza filtri strumentali di alcun tipo, cosa si scriveva negli anni della tanto demonizzata Contestazione. Di questa Contestazione si potrebbero iniziare a fare mappature cronologiche e distinzioni politico-culturali approfondite, capaci di sgretolare le misere semplificazioni oggi in voga sul Movimento di allora. Leggendo quegli anni su fonti dirette, senza le rimozioni, le criminalizzazioni e le abiure di chi da sempre si è arrogato il diritto d’ufficio di narrarli, si potrebbero fare realmente, concretamente e pacificamente, i conti con le considerevoli differenze tra le diverse proteste di allora e quelle nascenti di oggi (altrettanto multiformi?).
Allo stesso tempo, visto che il metodo stesso di guardare al passato che ci è stato consegnato dal pensiero ufficiale si è rivelato parte della fregatura, ecco l’occasione di guardare ad un modo diverso di fare storia, nato allora, poi sconfitto e, quindi, anch’esso rimosso. Perché proprio Primo Maggio fu la testimonianza più viva, coinvolta e determinata di un modo differente di guardare al passato, un modo militante, ma non per questo meno capace, meno profondo, meno efficace.
E ancora, la scelta per un sapere militante non si limitò in Primo Maggio alla storiografia, ma si avventurò in numerosi altri campi, apportando innovazioni e aprendo prospettive che possono costituire per noi, oggi, preziosi stimoli intellettuali. Non è quello che ci serve?
La rivista. Primo Maggio nacque nel 1973 e visse per 16 anni, raggiungendo complessivamente 29 numeri e alcune edizioni speciali. Fondatori furono ricercatori di formazione operaista come Sergio Bologna, ma anche giovani studiosi come Bruno Cartosio. Da un punto di vista pratico, e non solo, fu fondamentale l’appoggio di una figura poliedrica come Primo Moroni.
La rivista contò su varie collaborazioni tra cui quelle di Cesare Bermani, Valerio Marchetti, Peppino Ortoleva, Marco Revelli, Lapo Berti, Franco Gori, Christian Marazzi, Marcello Messori e Giancarlo Buonfino (creatore della allora modernissima grafica della rivista).
Di cosa si occupava Primo Maggio?
Viene in mente Bertolt Brecht. La voce che levò Primo Maggio tra le riviste della sinistra radicale di allora fu quella brechtiana del 1935: “Compagni, parliamo di rapporti di produzione!”.
Primo Maggio portava il segno operaista dei Quaderni Rossi e di Classe operaia, un segno forte e concreto, che cercava di unire la lotta del sapere con la lotta del lavoro, partendo da quest’ultimo. In Primo Maggio, come in molte altre esperienze di quegli anni, si definì come centrale un’azione di conoscenza che stesse dalla parte del lavoro e delle sue urgenze e in lotta contro la logica dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della conoscenza stessa. Se si provasse, quindi, a leggere Primo Maggio senza tener conto che, allora, lo sforzo era quasi interamente rivolto al mutamento dei rapporti economici e sociali, si finirebbe per non capire niente dello spirito di quelle pagine.
Nessuna posata equidistanza, Primo Maggio stava da una parte sola. Piaccia o meno, questa fu la sua forza.
Si trattò della ricerca di un sapere militante, perché volontariamente parziale e schierato in quella dicotomia irrinunciabile che veniva riconosciuta nel conflitto tra capitale e lavoro.
E nascendo come rivista di storia, cosa significava allora fare una “storia militante”? Significava fare una ricerca storica della classe lavoratrice, “per una storia di classe” si può leggere oggi su ciascuna delle ventinove copertine. Una ricerca storica che però aveva poco a che fare con la storiografia di sinistra fino ad allora esistente e che voleva guardare al passato della classe lavoratrice non limitandosi alla storia etico-politica delle organizzazioni partitiche o sindacali convenzionalmente rappresentanti la classe lavoratrice. In questo senso il progetto di Primo Maggio portava a termine alcune prospettive aperte dieci anni prima da Coldagelli e De Caro che, primi tra tutti, sul numero 3 dei Quaderni Rossi, con il loro Alcune ipotesi di ricerca marxista sulla storia contemporanea, invitavano a fare una storia materiale del lavoro e dei movimenti operai, senza cadere nel tranello di fare, comunque e sempre, una storia integrativa della storia del capitale. Una storia di classe, appunto.
Ma perché i lavoratori e il Movimento avrebbero avuto bisogno direttamente di una storia propria, soltanto loro, in nessun modo legata a quella padronale?
I lavoratori avevano bisogno di una storia propria non certo per contemplarla con un gusto per l’antico e non certo solo per riconoscere le lacune della storia ufficiale raccontata dal padrone. I lavoratori avevano bisogno di una storia propria per l’azione, vale a dire per la loro lotta.
Altrimenti la storia, suggeriscono molti passi di Primo Maggio, a che servirebbe? Una domanda che gli storici non dovrebbero mai smettere di farsi.
Nella domanda di senso attivo per l’attività intellettuale coglie perfettamente il segno l’analisi condotta da Alberto De Lorenzis: lo spirito della storia militante fu, infine, molto nietzschiano: la storia, se serve, serve per l’azione (non solo Nietzsche ma anche Jünger hanno infatti in qualche modo animato l’operaismo…spregiudicato metodo quello operaista: prendere pezzi di pensiero conservatore e rimodellarlo per la lotta di classe…una specie di détournement debordiano?).
Il passato serve allora per l’azione, va quindi letto con la lente del presente e serve per agire sul presente. Il passato in funzione del presente, poiché Gramsci aveva avvertito: ogni storia è storia contemporanea, e Primo Maggio aveva concluso: tanto vale non fingere che non sia così.
Un’impostazione che farebbe inorridire i sacerdoti dell’immobile imparzialità odierna e che già solo per questo sarebbe da rileggersi nel 2011. Non per fare gli stessi errori, ma per coglierne stimoli vitali, per smuovere l’immobile sterilità accademica, da anni ricaduta su se stessa (e solo oggi disperatamente cosciente di fronte alla propria liquidazione finale).
Sia chiaro, oggi non è difficile notare alcuni limiti epistemologici e di metodo di un’interpretazione storiografica come quella militante, evidentemente eccessivamente concentrato sugli aspetti prettamente economici dell’analisi del reale, spinta a forza nella polarizzazione tra capitale e lavoro e, appunto, piegata a volte spudoratamente alle esigenze del presente. Ma bisogna assolutamente tenere conto del fatto che quando Primo Maggio lanciò la sua sfida andava a rompere barriere epistemologiche molto più ottuse. Si può dire che fino ad allora tutta la storiografia italiana era stata, sempre e comunque, storia delle élites, che fossero di destra o di sinistra, padronali o ufficialmente operaie. Fino a quel punto la storia era sempre stata storia del potere, dei poteri, o, al massimo, storia della rappresentanza delle classi subalterne.
L’idea di Primo Maggio mandò quindi all’aria trent’anni di idealismo crociano e una certo Gramsci ufficiale tanto amato dal Pci (non certo quello di Americanismo e fordismo, per intenderci). Cogliendo il vento di importanti avanguardie storiografiche internazionali (francesi e americane su tutte), Primo Maggio tentò di proporre una storiografia radicale. Radicale nel senso che andasse alla radice delle cose. Primo Maggio, strumentalmente o meno, volle puntare al cuore dei rapporti sociali del passato e del presente, con un atto di rottura fino ad allora sconosciuto nella storiografia italiana, e non solo in quella.
La storia militante. Per chi rilegge oggi la rivista ci sarà, quindi, l’occasione di trovare articoli pionieristici su realtà marginali del movimento operaio, quali l’anarcosindacalismo, l’anarchismo, il consiliarismo, altre forme di spontaneismo e democrazia operaia, che vennero riscoperte con la dichiarata volontà di trarre spunto per il Movimento extraparlamentare italiano di allora.
Ma soprattutto chi legge oggi Primo Maggio scoprirà con i propri occhi che il vero pionierismo fu nel campo della storia internazionale, qualcosa che la storiografia italiana amava allora poco. Su tutte la storiografia americana, che arrivò in Italia proprio con Primo Maggio. La storia operaia americana, dimenticata a sinistra per impostazione ideologica filosovietica, spuntò d’un tratto grazie ad autori come Cartosio ed Ortoleva e dimostrò, a chi volesse scoprirlo, che gli americani non erano tutti imperialisti e che alcuni di loro, ad esempio gli IWW, avevano una visione meno idealistica e più materialistica della storia di tanti marxisti europei (cosa che già Mario Tronti aveva sancito nel suo Marx a Detroit).
Tra l’altro, andando oltreoceano in fuga dal marxismo ortodosso, si aprirono anche prospettive di storia delle emigrazioni che oggi, per una ottusa damnatio memoriae, non sono riconosciute a Primo Maggio, ma che furono contributi fondamentali alla storiografia contemporanea dello specifico settore.
Ma non ci furono solo gli Stati Uniti, Primo Maggio portò in Italia anche la storia tedesca, grazie ai legami che allora l’operaismo italiano aveva con ricercatori come Karl Heinz Roth. Il gruppo di Roth con un solo libro, un po’sgangherato ma con un titolo già vincente come L’altro movimento operaio, fu capace di sbattere in faccia alla pacificata socialdemocrazia tedesca la continuità del potere repressivo nelle fabbriche prima, durante e dopo il nazionalsocialismo. E lo fece seguendo la storia che si svolgeva nel cuore della produzione industriale, secondo lezione operaista e secondo esortazione brechtiana.
E non si può fingere di non notare come, quando Roth stesso rimase coinvolto nel conflitto sociale dei suoi giorni, si concretizzò forse l’aspetto più tragico del sapere militante: non guardare la storia dalla riva, ma nuotando in essa. In molti negli anni di Primo Maggio accetteranno le conseguenze di una simile scelta che, giusta o sbagliata che fosse, ci rivela una forma di integrità alla propria proposta intellettuale che l’attuale mercantilizzazione dei saperi non riesce più a codificare.
E poi, ancora, la storia orale: forse il più radicale dei percorsi storiografici proposti da Primo Maggio. Si trattò infatti di un metodo pronto ad andare a fare una storia dei subalterni non più scavando nel materiale già esistente, ma con fonti specifiche, pezzi di storia che altrimenti non sarebbero mai esistiti. Fu questo il lavoro rivoluzionario di Cesare Bermani, tra l’altro curatore del volume qui trattato, che portò a compimento una tradizione di storia popolare sviluppatasi, ad esempio, attorno all’Istituto De Martino. Quel Cesare Bermani che dovrà poi lottare per non permettere che, a partire dagli anni Ottanta, anche la storia orale diventasse una disciplina qualsiasi, normalizzata e sterilizzata, vale a dire privata della sua energia principale: il suo essere euristica perché nata all’interno di un rapporto di militanza che legava ricercatore e testimone.
Per essere un metodo debilitato dalla parzialità la storia militante sembra, quindi, averci lasciato un bel po’ di gemme, c’è un certo bisogno che qualcuno ne riesca a fare, oggi, di nuovo qualcosa di buono.
Il sapere militante. Ma Primo Maggio non fu solo una rivista di storia, non è solo utile leggerla come rivista di storiografia militante, ma anche come testimonianza diretta della propria di storia. Primo Maggio è al tempo stesso proposta storiografica e fonte storica: in essa si ritrova anche un’osservazione radicale, di nuovo parziale, ma quasi sempre lucida, del tempo in cui furono enormemente coinvolti i suoi autori. Quella che per essi era attualità strettissima, per noi, a distanza di trent’anni, diventa di nuovo materiale di ricerca storica.
E allora eccoci di fronte ad una fonte che ci parla visceralmente degli anni Settanta, a partire proprio da quel mutamento del sistema produttivo di cui ancora oggi siamo una determinazione (come solidamente sostiene oggi lo stesso Karl Heinz Roth nel volume di presentazione).
Ecco la rivista Primo Maggio testimone “in diretta” della presa di coscienza dell’evoluzione del modello fordista. Certi predicatori del novello verbo produttivista dovrebbero andare ancora adesso a scuola da quei ragazzi un po’ esaltati, magari quelli della redazione torinese di Primo Maggio, che guardando la Fiat e andando davanti ai cancelli ad annusare l’aria che tirava, vedevano prima di altri una fabbrica che cambiava, che si scioglieva nella società, mutandola e venendone mutata. Chi oggi parla di lavoratori dovrebbe provare ad imparare da quella che fu la capacità di allora di creare contatti diretti con la realtà del lavoro, apportando conoscenza teorica ma assorbendo anche tantissima conoscenza pratica e tacita dagli interlocutori operai (penso ad esempio ai lavori di collaborazione di Primo Maggio con il Collettivo Operaio Portuale di Genova, ma non solo, ci furono tante altre esperienze simili).
Dalla presa di coscienza del processo di superamento della vecchia fabbrica si svilupparono, poi, ulteriori avanguardie di ricerca, su tutte l’intuizione che la nascente saldatura tra produzione e circolazione richiedeva una nuova attenzione al settore dei trasporti. Anche in questo campo si aprirono ricerche incredibilmente intuitive che, come si può leggere nel volume di presentazione, ancora oggi Sergio Bologna considera uno dei risultati migliori della rivista.
In questo contesto di perenne laboratorio intellettuale, si era intanto fin dall’inizio fatta strada la consapevolezza della necessità di una nuova multidisciplinarietà, capace di abbattere gli steccati classicamente accademici legati ad un mondo sociale e produttivo in via di superamento.
Ecco allora che, fin dai primi numeri di Primo Maggio, si possono leggere articoli preveggenti su fenomeni oggi noti a tutti: la finanziarizzazione dell’economia e l’internazionalizzazione dei mercati. Di questo trattano i saggi “sulla moneta” di Bologna stesso, di Lapo Berti, di Franco Gori, di Christian Marazzi. Anche qui abbozzi, ipotesi, avanguardie quasi disperse, ma quale lucidità!
E quando, infine, nei primi anni Ottanta, la vivacità operaia che tanto aveva dato nutrimento e committenza alla ricerca militante subì sconfitte quasi mortali, ancora una volta la capacità di resistenza del progetto di Primo Maggio rimase notevole, ancora una volta la presa di coscienza dei mutamenti lasciò sforzi preziosi. Basta sfogliare i numeri di allora per trovare, assieme a notevoli forme di rivendicazione della propria sconfitta, l’analisi concreta di fenomeni sociali emergenti quali il lavoro informatizzato, la persistente questione della tecnologia, la questione ambientale. A questi andrebbero aggiunte tante altre cose: prospettive internazionali meno note, sofferti confronti con il tema della violenza, campagne in favore dell’editoria alternativa e tante altre proposte, spesso solo ipotizzate, ma sempre lanciate in avanti, spregiudicatamente. Non si può poi dimenticare che nei numeri di Primo Maggio degli anni Ottanta si ritrova anche la percezione della galoppante ptroletarizzazione del lavoro intellettuale tramite la precarizzazione del lavoro e all’interno di un’epocale ristrutturazione capitalistica, vale a dire qualcosa che riguarda la nostra generazione, qualcosa che torna diritti al nostro presente, al nostro 2011 da cui anche in queste righe eravamo partiti.
Sentieri interrotti. Ecco allora come stanno le cose: tra gli anni Settanta e Ottanta, Primo Maggio, in mezzo ad enormi difficoltà, lacerazioni teoriche, disgrazie economiche, accanimenti giudiziari ed eterogenei vissuti personali, fu capace di vedere e scrivere cose che, dieci o venti anni dopo, gli intellettuali dello star system hanno presentato come fossero la scoperta dell’America.
Ovviamente si potrebbero oggi scrivere pagine intere anche su quanto in Primo Maggio fu eccessivo, miope o semplicemente sbagliato. Su quanto alcune impostazioni non seppero svincolarsi dall’ideologia e su quanto alcune sedimentazioni culturali non furono mai superate (due su tutte, enormi: l’incapacità di cogliere l’emergere della società di massa e le sue nuove forme di dominio su corpi e menti e la scarsa capacità di accogliere la critica di genere).
Eppure resta innegabile che ciò che si espresse, in maniera eterogenea, sulle pagine di Primo Maggio, fu un’ostinata applicazione dell’intelligenza e un coraggioso utilizzo della stessa come strumento attivo nel, per (e contro) il lavoro. In questo senso credo che abbia colto nel segno il saggio di Valerio Evangelisti, quando conclude dicendo a proposito di chi scriveva sulla rivista: “They were warriors”, riconoscendo così a certi intellettuali una predisposizione non comune a superare le comodità della contemplazione e, appunto, a nuotare nella storia, comunque vada.
Tornando al punto di partenza: in quanto a noi, che fare? Certo non si tratta di scimmiottare il passato, le nostalgie non servono a niente, soprattutto quando non appartengono. Non siamo qui per rifare Primo Maggio, proprio no. Si tratta solo di cogliere i numerosi frammenti di quelle intelligenze liberamente al lavoro e vedere se, e come, ci servono oggi.
Che succederebbe, ad esempio, se domani mattina si levasse una voce brechtiana che ci dicesse: “Parliamo di rapporti di produzione!” Noi sapremmo da dove cominciare? Non è il momento di farlo proprio tenendo conto del ruolo della conoscenza di cui molti di noi sono soggetti attivi? Non è questo un imperativo ancora valido che fa piazza pulita di quel getto continuo di pensiero superficiale e spettacolare mai capace di aggredire la contingenza?
E ancora:
Quanto servirebbe leggere oggi Primo Maggio a noi che siamo costretti ad ingoiare un passato ufficiale incapace di spiegarci come siamo arrivati alla nostra realtà attuale? Quanto ci servirebbe Primo Maggio piuttosto che certe idiote narrazioni storico-televisive che hanno ormai contaminato anche i corsi universitari?
Quanto avrebbero da dirci quelle pagine a proposito di quel passato recente che viene ossessivamente usato ogni giorno per terrorizzarci, sedarci, spaventarci ogni volta che, giustamente, alziamo la voce per le nostre vite?
Quanto sono più vicine a noi pagine come quelle di Primo Maggio sulla precarietà nascente rispetto a certe retoriche accademiche che non sanno nemmeno più distinguere il Risorgimento dalla Resistenza? Quanto possono essere utili certe prese di coscienza sullo sviluppo storico di una Costituzione materiale che ha, già da tempo, fatto a pezzi la Costituzione giuridica, la stessa che tanti onesti credono ancora di poter difendere sulla carta?
Andiamo avanti: in un momento storico dove l’attacco ai diritti sociali conquistati nell’ultimo cinquantennio è portato avanti con tale determinazione, quanto potrebbe servire a noi, che quell’attacco subiamo, leggere come realmente furono conquistati quei diritti, a prezzo di quali sacrifici e di quali rischi, con quali metodi e con quali aspettative?
Oppure: in un contesto politico dove la massima espressione della sinistra è un nuova ideologia lavorista monodimensionale, quanto può essere vitale riconnettersi ad atteggiamenti che il lavoro non avevano paura di criticarlo, anche fino in fondo?
Quanto avrebbero da dirci quei percorsi intellettuali di allora, che si ponevano domande sul senso del lavoro scientifico, sulle sue dinamiche sociali, sul rischio della sua addomesticazione? Quanto può servirci oggi la prova concreta che esistano uno e più modi differenti di fare un uso attivo del proprio sapere?
Quanto potrebbe servirci intuire, tra una riga e un’altra di Primo Maggio, una qualche forma di gioia, scaturita dall’autodeterminazione e dal rifiuto della servitù?
[Sullo stesso libro Carmilla è già intervenuta. Vedi qui.]