di Alessandra Daniele
Nel novembre 2010, ho pubblicato su Carmilla il saggio di Julián Díez Secessione, la provocatoria richiesta di divorzio fra le due principali anime della fantascienza, sempre più in conflitto, e sempre meno gemelle. Pur concordando sia con la richiesta, che con l’analisi a monte, sono in disaccordo sull’assegnazione del termine ”fantascienza”: credo infatti che spetti di diritto all’anima in grado di esprimere e realizzare meglio le vere potenzialità della SF.
Per l’altra anima propongo un nome dalle prestigiose origini che la definisca in modo compiuto e inequivoco: Balle Spaziali.
Il genere Space Balls è sicuramente il preferito dalle case di produzione cinematografiche e televisive la cui idea della fantascienza è ferma non agli anni ’50 (che fu il grande decennio fra Golden Age e New Wave) e nemmeno al secolo scorso, bensì a due secoli fa, al 1897 de La Guerra dei Mondi.
L’ossessione hollywoodiana (e molto occidentale) dell’Invasione Permanente ha prodotto anche quest’anno almeno una decina delle ormai migliaia di pessime ribolliture de La Guerra dei Mondi, tutte con le stesse avvilenti caratteristiche: grottesca mostrificazione degli alieni, ammorbante retorica patriottico-familista, pedestre riciclaggio di personaggi e situazioni stereotipate al limite della macchietta. Cascanti Balle Spaziali, i cui unici intenti allegorico-sociologici hanno lo spessore d’una prima pagina di Libero.
È fuorviante che stronzate come Falling Skies debbano continuare a essere rubricate nella stessa categoria di serie come Fringe. Per tutta la terza stagione, sia attraverso il season arc, che i singoli casi della settimana, Fringe ha indagato il complesso rapporto fra identità individuale e realtà condivisa, sempre soggettive, precarie, e frammentate. La terza stagione di Fringe merita la definizione di fantascienza. Falling Skies merita solo un calcio in culo per spedirla fuori dal palinsesto.