di Franco Ricciardiello
È uscito a febbraio per Einaudi “Vizio di forma” (collana Stile Libero, 470 pagg. € 20,00), traduzione italiana dell’ultimo romanzo di Thofumas Pynchon, “Inherent vice”, apparso negli Stati Uniti nell’agosto 2009. I critici non hanno mancato di notare una frattura con i precedenti, sensibilmente più lunghi (“Contro il giorno”¸ 1100 pagine; “Mason & Dixon”, 740 pagine; “L’arcobaleno della gravità”, 976 pagine). Lo stile colto, eccessivo, ricco di divagazioni e citazioni lascia il posto a una scrittura tranquilla; la trama complessa, involuta, curva come una geometria non euclidea si trasforma in un’indagine poliziesca lineare; le paradossali incursioni nel fantastico che crivellavano la trama rimangono limitate a pochi, sporadici episodi. Cosa rimane di Pynchon dopo questa mutilazione estetica? Un hard boiled alla Raymond Chandler, ma ambientato nella California dei ruggenti anni Sessanta, dove le droghe scorrono a fiumi.
I colleghi americani di Pynchon hanno naturalmente esultato; c’è chi ne ha approfittato per sentenziare che il giallo d’indagine è il genere letterario dei nostri tempi: il più adatto a rappresentare l’ambiguità del reale, il relativismo, il principio di indeterminazione. Il giallista Michael Connelly si è fatto portavoce di un affrettato “benvenuto tra noi”: «Io sono felice e orgoglioso che Pynchon si unisca a noi. Quando uno scrittore scopre quello che noi giallisti abbiamo capito da tempo – e cioè che il crimine racconta l’America meglio di tanti altri generi, compresa la cosiddetta “fiction letteraria” – io sono davvero felice.»
Pynchon dunque che abbandona il postmoderno, requiescat in pace, e abbraccia la crime fiction? Il regista Paul T. Anderson (“Magnolia”, 1999) sta persino lavorando alla versione cinematografica di “Inherent vice”, protagonista Robert Downey Jr. Fino a oggi sarebbe stato quantomeno presuntuoso ridurre per Hollywood qualsiasi cosa di suo; l’unico precedente è infatti un tentativo di parziale trasposizione di alcuni episodi de “L’arcobaleno della gravità” da parte del regista tedesco Robert Bramkamp (il film è intitolato “Prüfstand VI”).
Il Pynchon postmoderno è morto, dunque? Nulla di più falso. Pensare che l’autore di “L’arcobaleno della gravità” possa convertirsi al giallo è pura ingenuità, se non malafede. Senz’altro “Vizio di forma” ha la struttura della crime fiction, ma un secondo livello di lettura, probabilmente sfuggito a Connelly & c., rivela qualche sorpresa.
Il titolo, innanzitutto. “Inherent vice” è stato tradotto con la locuzione giuridica “Vizio di forma”: un difetto proprio degli atti formali, che in assenza di determinati elementi essenziali appaiono “viziati”, quindi non validi. Ma il titolo originale inglese ha come minimo due altre accezioni: la prima è un richiamo al peccato originale, il vizio intrinseco che secondo la dottrina cristiana è in tutti noi (anche il protagonista Doc Sportello equivoca quando sente parlare di “vizio di forma” all’inizio del cap. 20: “È come un peccato originale?” domanda [p. 448]). La seconda accezione richiama esplicitamente il soggetto di “Vineland”, il precedente romanzo di Pynchon dedicato alla California degli anni Sessanta: è possibile che la rivoluzione dei Sixties sia fallita per colpa di qualche difetto intrinseco alla natura umana? Cos’è andato male? Com’è possibile che ci sia chi si sente attratto dal fascismo?
Vale la pena citare anche un celebre passo di Winston Churchill: «The inherent vice of capitalism is the unequal sharing of blessings; the inherent virtue of socialism is the equal sharing of miseries.» Di solito l’aforisma viene tradotto in italiano con la formula “Il capitalismo è un’ingiusta ripartizione della ricchezza; il comunismo è una giusta distribuzione della miseria”, anche se una traduzione più corretta sarebbe “Il vizio intrinseco del capitalismo è la distribuzione diseguale della prosperità; l’intrinseca virtù del comunismo è l’equa distribuzione della miseria.”
All’apparenza, la trama del romanzo è rettilinea: l’investigatore privato Doc Sportello viene incaricato di alcuni casi di persone scomparse, legati fra loro. Sportello si muove in un ambiente in cui ha dimestichezza, la scena hippy di Los Angeles anni Sessanta: oltre a conoscere personalmente alcuni dei soggetti coinvolti, è un abituale consumatore di stupefacenti. La trama è costruita su situazioni tipiche del genere hard boiled, con il protagonista sorpreso sulla scena di più omicidi, manovrato da ambigui agenti di polizia, intrappolato dai gangster cui ha pestato i piedi. Sarà naturalmente lui a sciogliere l’enigma, ma il secondo livello dell’indagine viene appena sfiorato: ed è proprio qui che mette radici la paranoia di Pynchon.
Appena uscito il romanzo, gli esegeti si sono messi all’opera sul testo. Tim Ware, il curatore del documentato e attendibile pynchonwiki, ha provato a ricostruire la linea temporale del romanzo, arrivando a una scoperta sorprendente che dovrebbe fare riflettere i sostenitori di un Pynchon “normalizzato”. L’unico elemento che permette di situare la vicenda nel tempo reale sarebbero i playoff di basket della NBA, più volte citati nel testo; in questo modo si può determinare che “Vizio di forma” inizia martedì 24 marzo 1970, tre giorni prima del venerdì santo, e termina l’8 maggio dello stesso anno, un giorno dopo la festa dell’Ascensione. La maggior parte della vicenda narrata si svolge perciò durante i giorni che Gesù Cristo trascorse sulla terra dopo la resurrezione, periodo sul quale i vangeli sono insolitamente reticenti. Coincidenza? Tim Ware parla di “un romanzo di redenzione e resurrezione”.
Ancora: la cronologia di “Vizio di forma” appare quantomeno terremotata, ci sono eventi reali che mancano e giorni fittizi che crescono. Non sono minimamente citati due avvenimenti di primaria importanza: l’invasione della Cambogia da parte degli U.S.A., il 1 maggio 1970, e i fatti alla Kent State University, dove il 4 maggio la Guardia nazionale dell’Ohio apre il fuoco su una manifestazione di protesta contro la guerra, uccidendo a freddo quattro studenti. Non basta: in questa rigorosa scansione temporale sono presenti due incrinature; Pynchon inserisce un’intera giornata di narrazione fra il 4 e il 5 maggio: questa inizia a pag. 358 dell’edizione italiana, con le parole «L’indomani era, come si dice, un altro giorno» e continua fino alla fine del cap. 17 a pag. 401. Durante questo giorno “spurio”, il più lungo della narrazione, al protagonista Doc Sportello capitano cose quantomeno singolari: rinviene nella sua collezione di vinili dischi che non sapeva di possedere; nota un orologio a muro con le lancette ferme, forse perché la giornata si situa fuori dal flusso del tempo; guarda in tv una partita di basket tra Los Angeles Lakers e New York Knicks [in realtà la quinta partita dei playoff si tenne lunedì 4 ata si situa maggio (vinta dai Knicks 107 a 100) e la sesta mercoledì 6 maggio (vinta dai Lakers 135 a 113).]
Non basta: nella trama c’è una seconda, smisurata manipolazione segreta della linea cronologica: esattamente a metà della narrazione (pag. 232), dopo l’interruzione di una riga di testo, il paragrafo successivo inizia con le parole «La situazione fu assurda per qualche giorno, con la Dart a Beverly Hills». In realtà, computando lo svolgimento reale della vicenda come già si è detto, ci sono tredici giorni ininterrotti di narrazione dall’inizio fino a pag. 232 (dal 24 marzo al 5 aprile) e quindici giorni ininterrotti da qui al termine del romanzo (dal 25 aprile all’8 maggio, più il “giorno spurio”). Ciò significa che in questo punto a pag. 232 mancano completamente tre settimane, dal 6 al 24 aprile, che non possono essere riassunte in quella frase, “La situazione fu assurda per qualche giorno”, perché significherebbe non solo che la Dart (l’auto di Doc Sportello) è rimasta in officina per un tempo sproporzionato, ma anche che Sportello ha interrotto le indagini per lo stesso periodo di tempo, cosa evidentemente ingiustificabile.
Non mi sembra plausibile che Pynchon si curi solo fino a un certo punto del rapporto tra la narrazione e il tempo reale; è evidente che il testo nasconde una sotto-struttura segreta. Di conseguenza, sostenere che ha abbracciato la crime novel è una lettura molto superficiale, forse interessata. Una storia come “Vizio di forma” ridotta al solo plot giallo non avrebbe significato nella bibliografia della maggior parte degli scrittori. La possibilità di descrivere un mondo al quale è molto legato (nel 1970 Pynchon viveva a Manhattan Beach, località a sud di Los Angeles che ricorda molto la fittizia Gordita Beach del romanzo) è probabilmente un valido stimolo, ma come sempre entrano in gioco anche meccanismi di “ricompensa estetica” che permettono all’autore di sublimare la propria paranoia.
Infatti il punto è esattamente qui: la luce migliore per illuminare la scena di Thomas Pynchon è la Paranoia, specialmente nei tre romanzi “californiani”: “L’incanto del lotto 49” (1966), “Vineland” (1990) e appunto “Vizio di forma”. Jim Hall, un suo conoscente al tempo in cui viveva a Manhattan Beach, sostiene che essere paranoici non era inusuale nel contesto di quegli anni: «Tutti avevano a che fare con la droga. Al tempo, se la polizia ti fermava e non avevi con te la cartolina precetto, ti arrestavano su due piedi, e potevano anche picchiarti. Tutti eravamo paranoici.» Di fatto, la mania di persecuzione è non soltanto nella personalità dei protagonisti di “Vizio di forma”, ma anche alla base del metodo d’indagine di Doc Sportello (e di conseguenza del lettore), quasi una attualizzazione dell’automatismo psichico di Dalí: il delirio paranoico-critico che ha fatto di Pynchon l’autore più rappresentativo di una letteratura nata dopo la morte del Romanzo. Questa estetica della diffidenza è anche la base di una volontaria segregazione dalle scene. È risaputo che la vita di Pynchon è una pagina bianca: non esistono foto successive al college, evita le apparizioni pubbliche, è persino riuscito a ottenere che la CNN non trasmettesse il filmato di una troupe televisiva che lo ha “stanato”. In realtà, Pynchon vive senza nascondersi a New York City, dell’Upper West Side di Manhattan, insieme alla moglie Melanie Jackson (che è anche il suo agente letterario) e al figlio nato nel 1991. Nessun mistero: la metropoli è il luogo ideale per chi sia intenzionato a difendere la propria vita privata.
Sono già assunti allo status di Leggende Metropolitane alcuni aneddoti: nel 1976 Soho News affermò che Pynchon non esiste, in realtà sarebbe uno pseudonimo di J.D.Salinger, l’autore de “Il giovane Holden”; più tardi si ipotizzo che Pynchon fosse Unabomber, l’anonimo dinamitardo che dal Montana inviava pacchi-bomba per protestare contro uno sviluppo tecnologico incontrollato. Un’altra leggenda, più letteraria che metropolitana, racconta che dopo il successo di “V.” (1963), la rivista “Time” (secondo un’altra versione, la casa editrice che voleva un ritratto per la quarta di copertina) inviò un fotografo al suo solo indirizzo conosciuto, un albergo di Città del Messico; un giovane aprì la porta della camera e disse che Mr. Pynchon sarebbe stato di ritorno entro un’ora; ma quando il fotoreporter tornò la stanza era vuota, e il suo ospite fu visto allontanasi in tutta fretta verso le montagne su un autobus. Ma l’aneddoto più rivelatore è quello che vede un bene informato Norman Mailer, assolutamente intenzionato a conoscere Pynchon, bussare sdegnato alla porta del suo domicilio rintracciato a seguito di indagini, mentre i vicini notano il proprietario calarsi fuori dalla finestra sul retro e allontanarsi alla chetichella.