di Luca Baiada (da Il Ponte, XLVI, nn. 7-8, luglio-agosto 2010)
[Pubblichiamo l’articolo senza le note, che potranno essere reperite sul numero de Il Ponte indicato.]
Molti anni fa un autorevole statista ha detto:
«Sono qui perché mi interessa. Sono qui perché i bambini dappertutto soffrono, e perché 40.000 persone ogni giorno muoiono di fame. Sono qui perché queste persone sono soprattutto bambini. Dobbiamo capire che i poveri sono attorno a noi, mentre noi li ignoriamo. Dobbiamo capire che queste morti sono evitabili. Dobbiamo capire che le persone nel Terzo mondo pensano e sentono e piangono, proprio come noi. Dobbiamo capire che loro sono noi, e noi siamo loro.»
Sono propositi che possono scontrarsi con brutti ostacoli.
Nelle prime ore del 31 maggio 2010, forze armate di Israele, aeree e navali, attaccano la Gaza Freedom Flotilla.
L’iniziativa di questo convoglio di imbarcazioni, promossa da organismi europei ed extraeuropei di diversi orientamenti, ha impegnato circa 700 attivisti (fra cui alcuni italiani) a portare ai palestinesi di Gaza medicine, altri beni e solidarietà politica. Si è trattato di navi salpate da porti diversi, col progetto di raggiungere Gaza senza attraversare le vere e proprie acque territoriali israeliane.
I dettagli dell’aggressione non sono accessibili, e faticheranno ad emergere, specialmente se l’inchiesta sarà affidata solo a Israele, o comunque a una struttura sotto il suo controllo. Di certo, Israele ha attaccato le navi, e con particolare violenza la Mavi Marmara, in acque internazionali. Le persone a bordo hanno tentato una difesa, legittima perché l’abbordaggio in alto mare è illecito. Di certo, Israele ha usato armi da fuoco, che gli attivisti della Freedom Flotilla non avevano. Sul punto, alcune delle versioni fornite in favore di Israele si contraddicono da sole. Sostengono che gli attivisti fossero armati, ma se questo fosse vero andrebbero apprezzati per la loro misura, nell’essersi difesi. Ad armi pari, abbordare una nave in alto mare è impossibile senza gravi perdite anche per l’attaccante. Più concretamente, da un lato Israele aveva elicotteri, navi, gommoni, armi da fuoco leggere e pesanti, armi offensive non letali e un vasto apparato tecnologico. Dall’altro, si segnala l’immagine di un mediorientale, grassoccio e furibondo, che brandisce un pugnale ad uso di un gruppo di fotografi. La ripropone «Informazione corretta», quello che Piergiorgio Odifreddi chiama «sito parafascista».
L’esito finale vede morti solo fra gli attivisti. La quantità, in un primo momento oscillante, si attesta per un po’ su 19 (per semplice coincidenza, è la stessa dei morti italiani a Nassiriya). Ma presto si ferma a 9 (il più giovane, di 19 anni), oltre ai feriti. Sono tutti turchi, uno è anche cittadino Usa.
L’autopsia rivela cose importanti. Nessun proiettile ha raggiunto le vittime di rimbalzo, e molti sono stati sparati da vicino, sino a 20 centimetri. Le vittime sono state colpite complessivamente da trenta proiettili, parecchi nella parte alta del corpo. Delle cinque persone colpite alla testa, ben tre sono state attinte nella sua parte posteriore (così, anche il ragazzo di 19 anni). Sono caratteristiche incompatibili con una semplice difesa.
Israele ha preso possesso della flottiglia, dirottandola nelle sue acque territoriali e ormeggiandola in un suo porto.
Oltre che con armi da fuoco, molti attivisti sono stati colpiti anche con scosse elettriche. Dopo il sequestro, sono stati incarcerati, e alcuni ancora picchiati. È stato loro sottratto il materiale fotografico e documentario, oltre ai telefoni. L’associazione della stampa estera in Israele ha denunciato che il materiale video è stato in seguito selezionato dalle autorità israeliane per confezionare la loro versione dei fatti. Se in futuro qualcosa sarà restituito, il tempo trascorso avrà consentito manipolazioni.
Israele ha inizialmente impedito le comunicazioni fra i sequestrati e i loro familiari e avvocati, e ha differenziato le loro posizioni a seconda della collocazione sociale e nazionale. Per questo, fra i primi liberati ci sono alcuni parlamentari tedeschi .
Mentre scrivo, le navi non risultano restituite. Neppure i beni degli attivisti, sono stati restituiti. Ann Wright, già colonnello e diplomatica Usa, ha dichiarato poco dopo il suo rilascio: «Spero che i nostri amici in Israele facciano un giro al mercato nero, a vedere dov’è la nostra roba». Nei giorni successivi, con le carte di credito degli attivisti sono state fatte spese in Israele. C’è anche voglia di trofei: allo scrittore svedese Henning Mankell sono stati rubati persino i calzini.
Quanto alle persone, va segnalata una particolarità. Israele prospetta una sorte diversa, per gli attivisti che sottoscrivono o respingono uno scritto, con cui il firmatario accetta l’espulsione e si impegna a non tornare. Chi firma è subito espulso, gli altri sono trattenuti e processati. Imponendo una resipiscenza, che sottintende un’accusa politica (l’aiuto ai palestinesi) e una giuridica (l’ingresso illegale, che in realtà non c’è perché Israele ha preso il controllo delle navi fuori delle acque nazionali), questo meccanismo mezzo giuridico e mezzo religioso costruisce una figura nuova, il pentimento dell’attivista. Si dà per scontato che l’attivista sia colpevole. Lo è davvero, e di cosa? Non importa, se firma accetta l’ostracismo, si dichiara reietto, la sua colpa è cancellata. Chi non firma dà prova di orgoglio, di incontrollabilità, e deve essere punito. In concreto, molti sono stati espulsi anche senza aver firmato, probabilmente perché qualcosa ha sconsigliato alle autorità di insistere. Resta però questo tentativo di induzione a una quasi abiura. Israele non vuole sulla vicenda l’approfondimento, neppure in vista di una pena legale, preferisce il pentimento. Non c’è dunque solo la religione cattolica, come retroterra culturale del pentitismo. Anche quella ebraica, può fare da sfondo a forzature irrazionali, sacrificali e penitenziali che intorbidano la giustizia. Niente favole, non ci son giudici a Berlino. E ci sono confessionali anche a Tel Aviv. Naturalmente non tutti soffrono, a dichiararsi colpevoli sentendosi innocenti. Così, questo sistema è approvato da un ministro degli esteri che non frequenta lo specchio introspettivo. Poco dopo il sequestro, Franco Frattini dichiara imperturbabile: «Avrei voluto molto che i nostri connazionali avessero deciso, come moltissimi hanno fatto, di andarsene subito. Non hanno voluto, sono ancora lì».
E le tonnellate di materiali? Una fotografia nel porto israeliano di arrivo mostra uno scatolone di giocattoli, con un addetto al controllo che ride. Israele ha fatto sapere che i beni saranno consegnati a Gaza, a eccezione di quanto è sottoposto a blocco. Ma i modi della selezione e della consegna, mentre scrivo sono oscuri.
C’è da chiedersi perché l’attacco, e perché con queste modalità. Eventuali ragioni strettamente militari non dovrebbero essere determinanti, per un paese con forze armate versatili. Ma forse si è temuto di non riuscire a impedire, lasciando avvicinare la nave alla costa, che imbarcazioni palestinesi salpassero in suo aiuto. Questo, potrebbe aver indotto all’azione in acque internazionali. Resta anche l’ipotesi di una scelta violenta, per i suoi effetti laceranti. Di sicuro, c’era un intento dissuasivo nei confronti di altre iniziative simili. Non ha funzionato: dopo la strage la nave Rachel Corrie ha continuato la navigazione, prima di essere a sua volta sequestrata, e attivisti e organizzazioni hanno sùbito promesso altri tentativi. È un fatto, che proprio nei giorni precedenti l’attacco alcuni mezzi di comunicazione abbiano affrontato la vicenda delle trattative, negli anni Settanta, per la vendita di armi atomiche da Israele al Sudafrica. A questo tema, la strage ha fatto una comoda ombra.
Nell’insieme, però, non è possibile ricostruire gli intenti politici del durissimo comportamento di Israele, specialmente contro i turchi, e neppure escludere che si tratti di un atteggiamento scomposto, senza una scelta razionale. Sul punto, commentatori a volte improvvisati hanno offerto certezze, mentre è necessaria prudenza, e occorrerà del tempo perché si chiariscano alcune dinamiche geopolitiche.
Malgrado le prese di posizione in tutto il mondo, e malgrado l’illecito internazionale, non c’è da illudersi che all’accaduto segua giustizia, ed anzi è facile prevedere distorsioni. In passato avvenimenti simili sono rimasti sostanzialmente impuniti, anche quando hanno colpito cittadini di paesi che si credono alleati di Israele, e persino cittadini della superpotenza politicamente più filoisraeliana. Vediamo alcuni episodi.
Non è la prima volta, che Israele attacca una nave. Nel 1967, 34 militari Usa imbarcati sulla U.S.S. Liberty sono uccisi da Israele in acque internazionali.
Non è la prima volta, che Israele colpisce cittadini italiani. Nel 2010 ne sequestra, maltratta e deruba alcuni, ma nel 2002 uccide il fotoreporter Raffaele Ciriello. Un crimine impunito. Del resto, dopo la strage della Freedom Flotilla la reazione italiana è fiacca, e il ministro degli esteri Frattini dirama una nota vaga. A questo proposito, va ricordato che da molto tempo l’Italia è permeabile all’aggressività politica e spionistica di Israele. Un’arrendevolezza che spiega perché nel 1986, per rapire Mordechai Vanunu che si trova a Londra, Israele prima lo attira con uno stratagemma a Roma. Allora, Vanunu prigioniero rivela il rapimento con un messaggio scritto su una mano, premuta contro il vetro del veicolo in cui è chiuso: un’immagine diffusa in tutto il mondo. Adesso, degli attivisti della Freedom Flotilla c’è una fotografia simile.
E non è la prima volta, che Israele uccide attivisti filopalestinesi. Nel 2003 Rachel Corrie, statunitense di 23 anni, è uccisa a Gaza con un Caterpillar per il movimento terra e per le demolizioni, mentre protesta appunto contro la demolizione di case. Proprio a lei è intitolata una delle navi della Freedom Flotilla, giunta dopo la strage e anch’essa sequestrata. Lei all’età di dieci anni, e non uno statista, ha detto le parole che ho posto all’inizio di questo scritto. Ascoltando questa bimba, con lo sguardo sveglio e la lingua che inciampa nei dentini, ci si stupisce della sua lucidità e dei suoi propositi. C’è chi mantiene la parola.
Riassumendo, si notano nella vicenda alcuni tratti.
Primo. Vi sono distinzioni di ruolo sociale, come quelle fra militari e civili, e fra operatori professionali e volontari, che si stanno assottigliando. Gli attivisti della Freedom Flotilla sono civili con diversi mestieri, ma sono trattati come belligeranti e come criminali. L’attivista è di fatto — ma con radicali differenze economiche — un positivo contrappeso politico al mercenario (una figura che sotto il nome di contractor ha così dilagato, che solo i mercenari pagati dagli Usa in Afghanistan sono 50.000, più dei militari). Contro gli attivisti, Israele usa un potere che fa contemporaneamente da forze armate, da polizia, da pirateria statale e persino da autorità a sfondo religioso, tanto che prima uccide, e poi non trattiene chi dichiara un pentimento.
Secondo. Le distinzioni territoriali prendono una piega pericolosa, con ripercussioni geopolitiche. Dopo la strage della Freedom Flotilla, si sono letti riepiloghi e distinguo sullo stato giuridico dei territori palestinesi occupati, di Gaza, del mare sino a 12 miglia, sino a 24 miglia, sino ad altre distanze. Ma la questione è più complessa. Per tratteggiarla, può essere utile la dichiarazione resa da un militare di Israele, proprio su una nave. Un attivista gli faceva osservare che erano in acque internazionali, e lui ha risposto: «siamo in acque internazionali israeliane». Qui non interessa se costui abbia creduto di accompagnare con dell’umorismo un crimine. L’umorismo ha molte facce, se sùbito dopo la strage è stato realizzato in Israele un video musicale beffardo, su questa vicenda. L’ossimoro che il militare ha offerto corrisponde a un atteggiamento condiviso purtroppo da alcuni giuristi: ritenere che si debba prendere atto dei rapporti di forza, e solo dopo mettere ordine catalogando i risultati nelle forme del diritto internazionale. Un critico irriducibile di queste fumisterie, Danilo Zolo, parodiando una frase di un giurista Usa, le ha riassunte con la formula «il diritto seguirà». Più in generale, l’estensione della violenza statuale oltre ogni limite territoriale è oggi una tendenza inquietante, e c’è un nesso fra la Nato che di fatto considera le condotte di idrocarburi come parte del suo territorio, ovunque si trovino, e Israele che uccide ovunque, mirando o senza prendere la mira. Naturalmente, però, gli stati più forti vogliono per sé l’inviolabilità, e per questo Elie Wiesel è contrario a un’indagine indipendente, «perché Israele è una nazione sovrana e tutti sanno che il suo sistema giudiziario è un faro per tutto il Medio Oriente».
Terzo. Malgrado sofisticate tecnologie, l’informazione è insoddisfacente. Ci sono voluti giorni per avere notizie un po’ più attendibili. Anche in rete, i fatti sono stati sommersi dai commenti, un difetto che può essere tollerato in un articolo di un mensile, ma non in mezzi informatici. Questi, vantando il cd. tempo reale, spesso offrono il tempo senza tempo, cioè un guazzabuglio in cui è difficile mettere ordine, perché l’adesso soffoca il prima e il dopo, e in cui galleggiano dati senza alcuna collocazione temporale. Persino a strage compiuta, e mentre la nave Rachel Corrie si avvicinava alla Palestina, si temeva nuova violenza ma le notizie erano confuse. Ci sono state però eccezioni, tra cui il sito del Free Gaza Movement, e l’impegno di Amy Goodman su «Democracy Now!». Per altri aspetti, la rete e la telefonia mobile si sono dimostrate poco utili, perché la tecnologia militare può fermarle. Eppure, in un discorso pronunciato a Washington nel gennaio 2010, il segretario di Stato Hillary Clinton ha rivendicato la funzione di Internet nell’ambito dei diritti umani. Chissà se sarebbe dello stesso parere, dopo il blocco delle comunicazioni tra la Freedom Flotilla e la rete. Comunque, della fase dell’attacco sono circolate poche immagini nitide, oltre a quelle che Israele ha diffuso a sostegno della sua versione, in parte sforbiciandole dal materiale sottratto agli attivisti. Dopo, molto è stato inghiottito, tritato e rivomitato dall’ingranaggio poliziesco e militare, e dalle sue propaggini mediatiche.
Quarto. Lo spostamento di persone nella globalizzazione comprende anche rischiose iniziative, come la Freedom Flotilla. Questa volta, hanno partecipato anche Mairead Maguire, premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex assistente del segretario generale dell’Onu, insieme ad altre persone già appartenenti ad alti ranghi, anche militari. Gli attivisti dall’Italia erano pochissimi, e a conferma del suo orientamento conservatore, nessuno proveniva dal ceto dirigente italiano. Ancora sulla globalizzazione, è un segno atroce, ma forse anche istruttivo, che il più giovane dei morti sia cittadino di due paesi molto lontani.
Comunque, in genere questi viaggi accomunano le persone più disparate. Ho conosciuto di persona alcuni di coloro che periodicamente vanno in Palestina, in Africa, nell’America del Sud, quasi sempre a spese loro, per portare solidarietà in contesti diversissimi. Provengono da mondi religiosi o di tenace identità politica o sindacale, con cultura in media elevata, e con vivace presenza femminile. I loro modi sono caldi e spigolosi come le loro storie, la loro compagnia è curiosa e irritante. A volte persone sole, sovente scosse da un brivido interiore che le rende entusiaste e allo stesso tempo fragili, affrontano situazioni picaresche in cui il pregio politico degli scopi si mischia alle difficoltà e ai compromessi.
Nel caso della Freedom Flotilla, alcuni attivisti prima di partire hanno registrato videomessaggi, in cui avvertono che se la registrazione è stata posta in rete, significa che è accaduto qualcosa e che hanno un immenso bisogno di aiuto. Scorrendo questi messaggi in bottiglia, si ignora cosa sia accaduto a chi vi compare, e si pensa: questa persona forse non è più. Si sa, invece, che i naufraghi che parlano sono partiti sapendo di affrontare un pericolo, e di farlo per gli altri. Somigliano a quelli che vedemmo a Genova, nel luglio del 2001. Anche loro, più per gli altri che per sé, venuti da tutti i continenti ma soprattutto dall’Europa, con l’urgenza di un altro mondo possibile. Avevano ragione: dopo luglio, ecco l’11 settembre. Eppure ottennero solo bastonate, arresti, torture, e infine parole di circostanza sui giornali padronali. Per loro non valgono certo le dure critiche che Hans Magnus Enzensberger serba al «turismo della rivoluzione». Loro sono altro. E a chi deride le loro spedizioni, e quando cadono dice che i guai se li sono cercati, va replicato che di continuo si svolgono incontri, summit, conferenze internazionali, in cui viaggiatori di lusso travestiti da statisti, da diplomatici e da funzionari fanno turismo a spese dei contribuenti, senza rischi. La memoria militare è protetta dalle divise, quella missionaria dalle chiese, quella di tutti i partigiani dai democratici. Ma chi difende la memoria degli attivisti che non hanno in comune una divisa, una lingua, una religione, neppure una militanza irregolare?
Chi un giorno vorrà scrivere davvero la storia della globalizzazione, dovrà dedicare un capitolo agli uomini e alle donne che hanno affrontato a viso aperto i cavilli del giurista, i confini del guardiano, le armi del guerriero e il disprezzo del benpensante.