di Dziga Cacace
If you’re going to San Francisco…
Scott McKenzie, San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair)
313 — Ancora Ice Age di Chris Wedge, USA 2002
Con la classica organizzazione Cacace (decisione all’ultimo minuto utile, biglietto aereo acquistato al volo, nessuna prenotazione), decidiamo di andare in vacanza negli Stati Uniti, sulla West Coast con un fiore tra i capelli. In agenzia ci hanno fatto paura: “è giorno di overbooking: in aeroporto almeno due ore prima”, e allora Barbara e io arriviamo fantozzianamente a Linate alle 5 in punto, entrando in aeroporto correndo come forsennati: “Largo! Largo!”. Nella desolazione totale dello scalo, alle 5 e 11 abbiamo già fatto il biglietto e dobbiamo aspettare come dei fessi per due ore. Non sono aperte neanche le edicole, figuriamoci un baretto. Quando finalmente si parte, scopriamo che il lungo viaggio transoceanico ci regala alcune visioni cinematografiche mignon. Quando ho visto L’era glaciale qualche settimana fa mi ero semplicemente divertito, ma ora, in lingua originale, l’ho apprezzato in pieno. Il bradipo Syd e il mammuth Manfred vogliono rendere al legittimo padre un bimbo trovato casualmente, ma la glaciazione avanza e la tribù degli uomini sta svernando. E poi c’è Diego, tigre dai denti a sciabola che li scorta, non si sa quanto benevolmente. Strada facendo i tre diventeranno amici e il predatore dimenticherà il proposito carnivoro che lo aveva ispirato. I valori della ricomposizione familiare, dell’amicizia e della solidarietà trionferanno su tutte le difficoltà del percorso, mentre Scrat, un isterico scoiattolo seguirà la vicenda da lontano, impegnatissimo a mettere da parte una ghianda per un inverno che si annuncia lunghissimo, addirittura un’era.
La trama è molto esile ma dà l’occasione per costruire gag a ripetizione e per infarcire il copione di battute francamente esilaranti. I personaggi sono ben definiti e anche le apparizioni di contorno convincono. Manfred, paziente e fortissimo, ha un dolore antico (e ci viene raccontato attraverso un graffito in una caverna: questo è metacinema d’animazione!) e diffida degli umani (“Non mi piacciono gli animali che uccidono per gioco”). Syd è un eroe perfetto per quei e questi tempi: un bradipo pigro, lentissimo, sgraziato nei movimenti e dall’indole inoffensiva. Accompagnati dalla suadente musica vagamente afro di Randy Newman, viene infangata la memoria del dodo (non s’è estinto perché era stupido, perlomeno non solo: a metà Seicento, gli olandesi si son magnati gli ultimi, a Mauritius), assistiamo alle baruffe di due rinoceronti gay, vediamo il ghiaccio avanzare su una terra ancora sconvolta da vulcani in continua eruzione, scopriamo chi ha inventato il fuoco, i toboga, il football americano e lo snowboard e aggiungiamo un nuovo suggestivo contributo alle teorie sui marziani. Il disegno è molto inventivo e le tecniche di animazione servono a dare espressioni, non la semplice verosimiglianza. Rispetto ai film della Pixar spicca la semplicità (di messaggi, di trama), ma anche lo scatenato humour che qui non è “costretto” dagli snodi di un intreccio narrativo. Molto divertente. E l’audio originale conferma l’ottimo lavoro fatto dai doppiatori italiani. (In volo; 28/7/02)
314 — …e pure Le fabuleux destin d’Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet, Francia 2000
Se tuo padre è un gelido asociale e tua madre è una nevrotica ossessiva, che figlia potrai mai essere, cara Amélie? Una splendida sognatrice che deve trasfigurare la realtà del mondo con la fantasia, sin da piccina. Ma lo splendido vizio rimane e, anche diventata grande, Amélie continua a colorare il mondo con la sua immaginazione. La seconda visione mi permette di apprezzare a fondo questo film generoso, pieno d’invenzioni visive a supporto di un copione ricco, molto scritto. I primi 20 minuti, con la minuziosa introduzione dei personaggi, in altre mani sarebbero già un film. Prendiamo a esempio la mamma di Amélie, Amandine Poulaine: odia il contatto fisico, la pelle delle mani rovinata dall’acqua e la piega del cuscino che lascia un segno sulla guancia: morirà per contrappasso di un estremo contatto, quando una turista canadese volerà su di lei dopo essersi gettata da Notre Dame. Kaurismaki con queste informazioni ci farebbe un film. Lungo. E anche il suo seguito. La prima cosa che salta agli occhi di questo Favoloso mondo di Amélie è la ridondanza della materia narrativa. Ma tutto ha un senso, uno scopo, perché il mondo e le persone, possono essere raccontati attraverso miriadi di piccoli, apparentemente insignificanti, particolari: date, indirizzi, prezzi, suoni, foto, sensazioni tattili, colori, foto, carta da parati e giornali, che evocano mondi e stati d’animo. Altro che la madeleine proustiana: Jeunet ha una pasticceria intera e Amèlie si serve ingorda di queste leccornie che, grazie all’immaginazione, assumono tutto un altro significato. Un maledetto 31 agosto la vita di Amélie cambia, la tragedia irrompe nel quotidiano: a Parigi muore la principessa Diana (muore… la muoiono, direi) ed è la fine di una fiaba condivisa da (i coglioni di) tutto il mondo. E adesso tocca al caso: ad Amélie casca il tappo di un profumo. Va a rotolare contro il battiscopa che si rompe e rivela un anfratto nascosto dentro al muro. Amèlie curiosa e scopre la scatola dei giochi di un bambino, uno scrigno ricco di tesori sepolto lì da chissà quanto tempo. Trova il proprietario e lo fa piangere dalla gioia: la sua missione adesso è chiara, migliorare la vita di tutti, anche la sua. Comincia col padre e gli sequestra un nano da giardino che diventerà un incredibile giramondo. Poi vendica Lucien, il garzone bistrattato dal verduraio, e ridà il gusto della vita a Dufayel, l’uomo di vetro, il misantropo pittore che dipinge sempre lo stesso quadro (omaggio a Jean Renoir attraverso Pierre-Auguste). Infine, dopo mille peripezie, scoverà l’uomo ideale nel viso pulito, forte e dolce di Kassovitz, un altro sognatore come lei, e vivranno felici e contenti nell’atmosfera sospesa di Montmartre. Trascinato dalla musica malinconica di Yann Thiersen, Il favoloso mondo di Amélie è un fantastico inno alla fantasia, che insegna a difendersi da un mondo dove un’emozione può essere scambiata per mal di cuore. Qualcuno, incapace di volare, non lo ha apprezzato e — tra le tante cacchiate che ho sentito — c’era pure la famigerata accusa di buonismo, anche se Amélie, adorabile con chi ama, sa essere una carogna con chi le sta sul gozzo. Forse il film è un po’ lungo e, specie nella seconda parte, tende a ripetersi, ma l’ispirazione è quasi sempre brillante. L’inizio me lo sono goduto due volte perché, al di là del piacere intrinseco alla visione, la prima volta sono stato vittima del proditorio attacco di Barbara che m’ha versato una tazzata di caffè bollente sui calzoni e dentro una scarpa. Inavvertitamente, eh, se no sai le botte. Ma subito dopo mi ha piegato il jack delle cuffie da Dj di cui avevo appena decantato inestimabile valore e utilità. Film visto in versione originale, su schermo 13 x 18, accompagnato dall’intensa voce narrante di André Dussolier. (In volo; 28/7/02)
California Dreamin’
29 luglio
Arrivati a San Francisco troviamo da dormire allo Stratford Hotel, modesto, ma attaccato a Union Square. Su tutta Frisco aleggia odore di aglio tostato, roasted garlic, come se la gentile espressione inglese mitigasse l’effetto vomitorio indotto a tutte le ore, esclusa quella di pranzo e cena. Sazi di questo aroma persistente, non ceniamo e filiamo subito a letto. Durante la notte lavori stradali sotto la nostra stanza. Sembra una jam tra Keith Moon, John Bonham e Ian Paice: da incubo. Il mattino dopo si alternano nuvole e sole. La nostra visita della città comincia salendo sugli ascensori del Westin St. Francis Hotel con Barbara che s’appiattisce alla porta d’uscita e rinuncia quasi subito. L’ascensore è in vetro ed è sull’esterno del palazzo. Garantisce una clamorosa visuale della città e ti sembra d’essere per aria. Faccio avanti e indietro sei volte, assieme a dei bambini esilarati. Barbara mi aspetta all’entrata dell’albergo, letteralmente atterrita. Poi prendiamo confidenza con la città — dove sfreccia il tram 27 della ATM milanese! — e gironzoliamo per China Town e poi sulla Lombard, affrontando i tornanti della famosa Crookedest Street, su una collina con pendenza del 27%: Barbara al pianto. Poi arriviamo, sempre a piedi, alla zona di Marina, dove pranziamo al volo con un gyro pita di infimo valore culinario. Troviamo da dormire al Cartwright, sulla Sutter, dietro Union Square. Mi sembra costosissimo e annuncio stizzito e sborone a Barbara: se costa meno di cento dollari lo prendo. Ovviamente la camera costa 99 dollari e faccio una figura di merda con la nana malefica. Gli yankee sono parecchio strani. Va di moda mettersi gli occhiali sulla nuca e le visiere al contrario, ma al contrario due volte, cioè: la visiera è nuovamente sulla nuca (parte della testa privilegiata, chissà), ma verso l’alto. Come se avesse roteato di 180° dalla sua sede naturale. Oh: è presidente Bush, eh? In serata cena da Max’s a base di carne, ottima: porzione che in Italia ci facevamo Natale, tutta la famiglia.
30 luglio
Nottata con pompieri sferraglianti, sirene ululanti e motociclettone rombanti: compro subito dei tappi per le orecchie. Andiamo al Moma, progettato da Mario Botta, uno che metterebbe i mattoncini anche in Lapponia. Pomeriggio tra Yerba Buena Gardens e Embarcadero Center, poi visita al cinematografico grattacielo cuspidale Pyramid e infine libreria City Lights, a respirare profumi beat: e pensa un po’, non hanno Faletti, questi! Dopo altre salite e discese dove ti aspetteresti di vedere sbucare all’improvviso Steve McQueen, la donna che visse due volte o Callaghan, alle 20 siamo al locale Biscuit & Blues. Ceniamo e conosciamo una coppia con una lei ciarliera e rockettara che ci conferma alcuni aspetti dell’atteggiamento degli yankee rispetto alla vita: venerazione dello stardom, voglia di divertirsi (musica e ballo), ricerca di cibo migliore. Cena discreta e poi grande live show di C.J. Chenier: ballano tutti lo zydeco come matti, davanti al palco. A letto entro mezzanotte, previa assunzione di Simpsons e Friends in replica. Cacace gongola.
31 luglio
Legion of Honor Museum in mattinata, con parca e salutare pausa pranzo, unici trentenni in mezzo a una marea di anziani. Nel museo apprezziamo l’opera del fiammingo Michael Sweerts (a me, ignorante, incognito: un bambocciante!) e di Frans Hals (che amo da sempre). C’è un Renoir dove si vedono le chiappette rosee del piccolo Jean in braccio a una tata. Belle cose di Degas e Daumier, un raffinato Giovanni Boldini, una statua di Paolo Troubetzkoy e soprattutto l’autoritratto di James Tissot . Dopo la visita trascino la compagna in un folle e disordinato giro verso il Golden Gate Park che ci stanca e ci irrita. Poi sbuchiamo a Haight-Ashbury dove compro 8 CD da Amoeba, il più bel negozio di musica della terra intiera, e torna il sorriso. Ritorno in albergo con Barbara che blatera e si lamenta. Poi si addormenta prima di cena per due ore come una pietra e finalmente tace.
1 agosto
La vita come gioco, come shopping, come spettacolo, come ricerca continua del divertimento. Sono un popolo incredibile, questi qui: in mattinata andiamo al Fisherman Wharf. C’è brutto tempo per cui rinunciamo all’escursione in battello. Il Fisherman sembra un po’ Disneyland: è tutto finto e firmato (i gamberetti sponsorizzati da Forrest Gump!). Visitiamo Ghirardelli Square, altra meta turistica privilegiata perché si può mangiare e fare shopping. Il cittadino americano vive e lavora per concedersi questo: cibo e acquisti con folle voracità. Ho visto le code per i saldi della Levi’s, come in Unione Sovietica ai tempi d’oro. Prima di pranzo andiamo all’Exploratorium: avrebbe dovuto essere un museo della scienza e si dimostra una baracconata dove ogni esperimento è divulgato attraverso un’esperienza ludica. Di per sé nulla da dire ma, al solito, non esiste percorso né un’organizzazione che regoli l’orda di mocciosi yankee (o teen-agers di equivalente cervello) che corrono, spingono, urlano e giocano senza minimamente interessarsi al significato delle loro azioni. Nel casino e nella ottusa prepotenza generale, ci scocciamo ben presto e dopo una decina di esperimenti ce ne andiamo. Approdiamo allo Swan Depot che è un locale molto poco turistico, splendido: una pescheria dove, volendo, ci si può fermare al bancone per mangiare crostacei. Lo facciamo senza indugio e ci attacca discorso Rockin’ Roger, un tizio che frequenta la fiera di Milano non so per vendere quale aggeggi. Simpatico. Pomeriggio con pausa in albergo, dove Barbara dorme di nuovo come un tronco (o un neonato, a dire il vero). Poi torniamo a Haight-Ashbury per gli ultimi acquisti hippie e per godere dell’atmosfera. Dalle vetrine ti guardano i Grateful Dead, i Jefferson, Janis e Carlos. Fa freddo. Ci avevan detto di portarci una felpa, ma servirebbe un loden imbottito. A cena siamo da Isobune, un ristorante giapponese dove mi strafogo di sushi. Critico tanto gli americani, ma ormai anch’io non faccio che ingurgitare cibo. Alle 10 e 30 Barbara dorme di nuovo, di un sonno profondissimo. Deve avere una malattia, boh.
2 agosto
Colazione clamorosa da Dottie’s, con carico calorico che alimenterebbe una centrale nucleare; poi al Pier 41 per fare la crociera nella baia, tra Golden Gate e fughe e uomini di Alcatraz. Tira un vento bestiale. Vista l’abbondante colazione saltiamo il pranzo e andiamo a cercarci un’auto: troviamo per il rotto della cuffia una normalissima Toyota beige diarrea. Quando la devo spostare per la prima volta realizzo all’improvviso che questi hanno il cambio automatico: nel panico, riesco a muovermi solo perché sono il Patrese de noartri. Le macchine non sono tanto lunghe, in realtà. Il vero status symbol oggi sembra la macchina alta, per guardare gli altri automobilisti dall’alto verso il basso. Tardo pomeriggio a Ghirardelli Square dove — giuro — Barbara si fa fare un massaggio meccanico da una poltrona fantastica. Poi ceniamo senza grande soddisfazione al Crab Lounge. In tarda serata vediamo Springsteen al Letterman Late Night Show. The Rising è appena uscito (preso oggi a 12 dollari, capolavoro che ne varrebbe anche 1200, il miglior Boss dai tempi di Born in the U.S.A.) ed è schizzato in testa alle classifiche. Letterman fa 40 minuti di programma in coming up, tergiversando e annunciando che tra poco arriva Bruce. Succede praticamente a mezzanotte e scoprirò poi che è una delle punte massime di audience della storia della tivù statunitense. Nota di colore gastronomica: nei supermarket ci sono decine di patatine diverse, di soda e di cookies. I migliori sono i Sinful Delicious: un pacchetto equivale a un rotolo di ciccia trapiantato sull’addome. Ne abuso.
3 agosto
Lasciamo il Cartwright. Presa la macchina attraversiamo il fenomenale Golden Gate e poi facciamo un’escursione a Muir Woods, tra sequoie gigantesche. Bello. Gita di due ore e rotti e poi in macchina verso Bodega Bay, dove hanno girato Gli uccelli (ma anche I Goonies e Fog). E infatti comincia l’incubo: abbiamo perso la cognizione del tempo, è sabato ed è tutto prenotato con largo anticipo. Cerchiamo un hotel da Bodega a St.Helena, attraversando poi tutta la Napa Valley andata e ritorno. Ma un letto è un miraggio ed è tutto No Vacancy. Il Wine Country lo vediamo al tramonto col fegato a pezzi e senza aver bevuto un solo bicchiere di vino. Tra i tentativi, la mia entrata tipo malvivente in una winery deserta tutta apparecchiata e scintillante, mooolto Shining, dove poi mi riceve una signora elegantissima e costernata: tutto prenotato. Poi mi avventuro anche in un bed and breakfast che sembra la casa di Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti e per fortuna non mi apre nessuno, perché il giardino col dondolo sfondato fa veramente horror, come i cervi che ci guardano in silenzio dai margini della strada. Comunque: vigneti, bei paesaggi, magioni (finte) come in Borgogna e in Chianti, colori vivi. Ma è un posto fighetto e non c’è un buco dove dormire. Tanto mi basta: dopo quattro ore di penose investigazioni torniamo da dove siamo partiti, a San Francisco. Anche qui abbiamo qualche difficoltà, ma riusciamo a trovare una stanza al tranquillissimo e cafone Motel Capri di Greenwich St., dove — sapremo un giorno — sono nati i Weather Underground. E in effetti dopo una giornata così, c’è aria di rivoluzione. Alle 23 e 30, stravolti e incazzati, mangiamo una fetta di pizza da Pino’s e non è la più infame da questo lato del Pacifico, anzi.
4 agosto
Imparata la lezione, prenotiamo sin dalla mattinata per le due sere seguenti e poi ci muoviamo verso l’universitaria, anticonformista e libertaria Berkeley, che è carina, solare e vivace anche se è domenica e ci sono meno studenti del solito. Da lontano: l’industriale Oakland e il sobborgo di El Cerrito, patria degli amatissimi Creedence Clearwater Revival e pure dei primi Metallica. Pranzo al Naan’s Curry, urticante anzichenò. Poi attraversiamo la California verso est, lanciati come una zagaglia a 80 chilometri orari, roba da addormentarsi. Tra paesaggi splendidi, arriviamo infine a Groveland, un buco tra i monti con venti case e centro commerciale. Il nostro albergo sembra una casa delle bambole (The Groveland Hotel; alloggiamo nella parte del 1914, non in quella del 1849: siamo gggiovani). Cena senza soddisfazione alcuna all’Iron Door Saloon, un cazzo di locale che mena vanto di essere il più antico della California tutta. Il più antico ci credo poco, il più lento di sicuro sì: 25 minuti per avere il menù, altri 20 per un panino di merda, senza qualità. E con le cipolle, cosa che mi fa pensare ai Quicksilver Messenger Service (vediamo se ci arrivate, non è difficile). A letto presto, ché domani ci aspetta lo Yosemite.
5 agosto
Dopo abbondante colazione entriamo nello Yosemite, per il quale la parola “maestoso” è francamente riduttiva. Nell’ordine visitiamo Tuolumne Grove, Mirror Lake, Bridalveil Fall e poi Barbara s’abbiocca in riva al Merced River. Ottima cena al Groveland Hotel e accompagnamento musicale all’organetto di un curioso settantenne che mi viene a dire in confidenza che faceva parte della staff di Kennedy, un secolo fa. Boh.
6 agosto
Torniamo nello Yosemite e raggiungiamo in macchina il Glacier Point. Poi ci dirigiamo verso l’uscita sud, al Mariposa Grove dove camminiamo il minimo indispensabile per vedere le sequoie giganti, le ennesime. Abbiamo capito, insomma. Alle 18 siamo stravaccati come due grassi capitalisti in uno splendido Best Western piscinato e neanche troppo caro, chi l’avrebbe mai detto. Al Viewpoint Restaurant assumiamo due bistecche grosse come la Basilicata.
7 agosto
Ci godiamo la stanza da veri papponi e poi riprendiamo a viaggiare in tarda mattinata, attraversando lentissimamente la vallata e facendo ritorno alla costa pacifica. Il regime di 77 chilometri orari provoca orchite, piaghe da decubito e la devitalizzazione della gamba destra, col piede morto mollemente appoggiato all’acceleratore. Dopo aver attraversato Gilroy, “capitale mondiale dell’aglio” (e si sente, per Dio se si sente), arriviamo alla placida e riposante Monterey (al Carmel Hill Motor Lodge), quella del festival del 1967 e di Hendrix che dà fuoco al mondo della musica, per intenderci. Sosta corroborante e visita al porticciolo con soddisfacente cena a base di gamberoni e granchio (Wharfside Restaurant). Devo imparare la ricetta della zuppa Crab Chowder, sai?
8 agosto
Lunghissima visita alla riserva marina di Point Lobos. Barbara vuol vedere TUTTO, maledizione: il parco naturale è molto bello, okay. Lontre, leoni marini e uccelli in gran copia e c’è pure una puzza di alghe marce da vomitare. Poi puntiamo su Big Sur, località dall’aura mitica, e scopriamo che è un luogo dell’anima e un parco da esplorare. Il paese non esiste, tradendo i miei ricordi del film-concerto Celebration at Big Sur, e noi, da gretti materialisti, annusiamo solo l’atmosfera del posto e andiamo a visitare la mondana Carmel, quella dov’era sindaco il vecchio Clint Eastwood. È la Portofino del Pacifico (costosa, linda, un po’ finta). Gironzoliamo e andiamo sulla spiaggia. Mi bagno i piedi nell’immenso oceano e poi torniamo a Monterey dove, dopo peccaminosa visita da Wendy, ci scoppiamo goduti Spy Kids 2.
315 — Spy Kids 2: The Island Of Lost Dreams del giocherellone Robert Rodriguez, USA 2002
Nella multisala Century Galaxy di Monterey non c’è grande differenza con un cinema di Milano. La sala è semivuota, c’è puzza di pop-corn, la gente parlotta e la proiezione parte in ritardo. Prima del film vediamo alcuni trailer (approvati da una commissione di genitori, per evitare denunce) tra cui quello di Shaolin Soccer che già pregusto (una tavanata galattica che mescola football e arti marziali, immaginate un po’). Ottimo schermo, ottima proiezione, ottimo sound. Robert Rodriguez è un genietto e lo ha già ampiamente dimostrato. Scrive, dirige, musica, monta e produce. Soprattutto pensa, pensa film così e riesce a realizzarli senza spendere i miliardi di Hollywood, ma lavorando da casa. Il ragazzo ha talento e fegato: s’è comprato Avid e ProTools e si fa tutto da sé. Poi coordina qualche giovinastro per gli effetti musicali e la mattina riesce pure a portare i bambini a scuola. Questo tex-mex di buona (e numerosa) famiglia è cresciuto a videocassette e già a 15 anni montava con due videoregistratori in parallelo; oggi che di anni ne ha qualcuno in più continua a divertirsi cercando gli strumenti giusti per fare il suo mestiere. Spy Kids 2 ha del miracoloso: in meno di un’ora e tre quarti ci sono più idee di quante ne distilli il cinema medio holywoodiano in un’annata. Spider-Man aveva tre idee tre (ahimé), l’ultimo Guerre Stellari neanche due, questo Spy Kids 2 ne ha almeno venti che fanno godere per intuizione e realizzazione. Questa volta i due fratellini Juni e Carmen Cortez devono salvare il mondo dal perfido neo-direttore della OSS, l’organizzazione mondiale delle spie di cui anche loro — come i genitori — fanno parte. Le vicende portano i nostri su un’isola misteriosa che il consueto scienziato pazzo (l’amabile Steve Buscemi) ha popolato di mostri. Il cast si arricchisce anche di due spy kids rivali e anche degli arzilli nonnetti (i suoceri di papà Gregorio). Pur se difettoso (una parte centrale ripetitiva, un plot non proprio scorrevole), il film diverte e non c’è un attimo di tregua. E poi c’è la musica con l’incredibile clip finale in cui Juni diventa Angus Van Santana (il dio della chitarra) e la citazione del maiale di pinkfloydiana memoria. (Century Galaxy, Monterey; 8/8/02)
316 — xXx di Un Burino, USA 2002
9 agosto
Visita alla 17-Mile Drive (doppione facile, ridotto e borghese di Point Lobos) e ritorno a Frisco: 3 ore di viaggio attraverso una costa lussureggiante. E sabbia, surfer scarsi, baracchini che vendono frutta, chicanos che lavorano nei campi a raccoglierla e generale scarsa densità abitativa. A San Francisco andiamo direttamente allo Swan Depot dove mangiamo con soddisfazione granchio e gamberoni, per poi finire — per errori della concierge del Cartwright — nel lussuoso ed esclusivo Galleria Park Hotel: camera sicuramente molto più costosa ma anonima, fredda e brutta.
10 agosto
Facciamo i biglietti del Greyhound per L.A. Poi dritti da Dottie’s True Blue (522 Jones Street) per un ultimo brunch da urlo ginsberghiano. Giornata nella parte ispanica di San Francisco (da Castro a Mission, e dintorni), respirando Carlos Santana a ogni angolo di strada. In serata ci mescoliamo alla pazza folla per vedere XXX, un vero blockbuster movie, nel Metreon, un palazzo dello spettacolo della Sony nel centro Yerba Buena. Coda per i biglietti, pop-corn giganteschi e Coca Cola da un litro. Qui non esiste il concetto di modica quantità. Bella sala con schermo gigantesco. Le poltrone hanno un po’ di gioco, ma la seduta è comoda. Un bimbetto irrequieto si siede davanti a me e comincia a fare compulsivamente la sedia a dondolo. Va avanti un quarto d’ora durante i trailer e quando capisco che sta per partire il nostro film punto il piede sullo schienale della sua poltrona e lo blocco di colpo: coi nani di dieci anni so essere un duro da paura, e poi l’ordine regna a Varsavia. XXX è una gran bella cagata d’azione, protagonista Vin Diesel, affiancato dalla cacirrissima Asia Argento e da Samuel L. Jackson che tenta di nobilitare il tutto con un po’ di recitazione degna di tal nome. Xander Cage è un professionista delle spacconate mediatiche, esperto di motori, di arrampicate free-style e di skate e snowboard. L’eroe perfetto per i giovani d’oggi. I servizi segreti yankee, a corto di personale, decidono di utilizzarlo per la classica missione impossibile. Se ci riesce bene, se no, tanto meglio e ci siamo pure liberati di questo cazzone asociale che deve saldare parecchi conti con la giustizia. Lo mandano a Praga a sventare il folle complotto di una banda di mafiosetti che oltre a droga e prostituzione, gestisce pure un pool di scienziati ex sovietici che hanno costruito una bomba con gas letali. Il piano? Beh, far secchi tutti, per il piacere di far casino. Non è una gran motivazione, ma agli sceneggiatori è bastata. Insomma: siamo tornati al Bond-movie con l’assurdo cattivone contrastato dal super agente segreto che ne supera di tutti i colori, trovando anche l’amore. Ma stavolta non c’è lo stile del fedele suddito di Sua Maestà, no, stavolta c’è un super cafone orgoglioso della sua ignoranza. Vin Diesel ha muscoli, sense of humour, vitale arroganza e porta a casa il compitino. Il film dura due ore e un quarto e potrebbe essere ripulito di quarantacinque minuti buoni. Dopo una partenza discreta XXX s’ingessa e diventa pigro. Non ci sono grandi battute per il sarcastico Vin e la trama assume connotazioni vieppiù deliranti, in una corsa a chi la spara più grossa. Musica punk-metal a palla, montaggio a effetto, ridondanza di rumori e lampi nelle scene più concitate. Asia Argento è in forma smagliante e la parte di buzzicona lasciva le si addice. Il pubblico ha seguito calcisticamente i primi minuti, poi s’è acquietato nella prevedibilità della pellicola anche se non sono mancati altri “Whoaaa!” e “Heeeey!!” e “Oooh!” ad alta voce, per fare caciara e cercare l’approvazione di altri bovari ciccioni che vedono nel cinema l’odierno colosseo dove sfogarsi. XXX (di tale Rob Cohen) ti passa, ma da un punto di vista sociologico (anche per come l’ho visto) mi ha atterrito. Stilizzato ma molto violento (come suoni e montaggio), teso a esaltare il personaggio fuorilegge – comunque “dei nostri”, quindi “buono” – che rivendica la sua ignoranza perché troppe speculazioni inibiscono l’azione (“i videogiochi sono l’unica educazione che abbiamo avuto!” e il pubblico: “Right”, “Yeah!”, “Cool!”). E poi c’è tutto questo feticismo della bandiera, del rumore, delle armi, dei motori, della cultura giovanile antagonista. Dagli e ridagli, alla fine lo spettatore medio si convince che menare le mani è cosa buona e giusta e vedendo tutti i giorni i bollettini sull’umore dell’elettorato relativamente a una nuova guerra contro l’Iraq, questa politica propagandistica sembra avere i suoi frutti. (Metreon, San Francisco; 10/8/02)
317 — The Gladiator del massiccio Ridley Scott, USA 2000
11 agosto
Viaggio in Greyhound da S.F. a L.A., assieme a neri, ispanici, orientali e misfits bianchi. Tutto molto rock n’roll: più che turisti per caso, sembriamo due personaggi di un film di Jarmusch, con due zainoni e il mio prezioso e scomodissimo sacchetto con dentro una quarantina di Cd, collo che autorizza Barbara all’insulto compulsivo. Arrivati a Los Angeles faccio il milanese che lavora, paga, spende, pretende e rifiuto di cercare un mezzo pubblico (peraltro scarsi) e allora prendiamo un taxi costosissimo che ci scarrozza fino al The Inn at Venice Beach (327 Washington Blvd., Venice), alberghetto carino e confortevole. Mangiamo bene nel trendy ZaZen, lì davanti e in serata vediamo il programma di Ebert e Roeper (Two Thumbs Up!) in cui si discute amabilmente di cinema in tivù come mai Marzullo sarà capace, anche se lo rieducassi io.
12 agosto
L’edificio progettato da Gehry col binocolone di Oldenburg è vicino al nostro albergo e ci andiamo a piedi. Poi facciamo lo struscio sull’Ocean Front Walk, fotografando le splendide villette di un sacco di archistar futuri e passati, e andiamo a leggere Roth e De Lillo (mica cazzetti, eh?) sulla spiaggia dove si sono formati i Doors. Io mi scotto un po’. Pisolino in albergo, poi tramonto sulla sabbia e cena da urlo con hamburger al mango al Sidewalk Café. E tornati in camera ci attende The Gladiator che fa sempre la sua porca figura, anche in formato a tutto schermo. Dopo l’ennesima battaglia contro i germani che turbano i confini nord-orientali, l’imperatore Marco Aurelio, sentendosi prossimo alla morte, incarica il fido generale Maximus (Crowe) di riportare la Repubblica a Roma. Ma a Commodo, figlio degenere, immorale, fifone, incestuoso, geloso, crudele, pure col culo basso e quant’altro, la cosa non va giù manco pe ‘nniente. Ammazza il padre e ordina l’esecuzione di Maximus, cui stermina anco la famiglia con maniacale impeto perfezionistico (il classico lavoro fatto bene). Ma il valoroso generale non ci sta e sfugge all’assassinio. Cavalca disperato fino in Spagna (!?) dove trova moglie, figlio e servitù massacrati. Frigna disperato e viene catturato dai mercanti di schiavi. Si lascia fare di tutto, tanto ormai aspetta solo di morire. Sinché non lo buttano in un’arena a combattere da gladiatore e lì tira fuori i cosiddetti e mena gran strage di avversari. Il manager di spettacoli circensi Proximus intuisce l’affare e punta sul gladiatore spagnolo. La fama ormai precede il combattente che viene reclamato a gran voce ai giochi che Commodo ammannisce al popolino di Roma. Basta una semplice apparizione e il Colosseo è ai suoi piedi. Maximus si manifesta a Commodo che ci rimane letteralmente di merda, anche perché il gladiatore non ha dimenticato l’impegno preso con Marco Aurelio. Mettiamoci poi anche Lucilia (sorella di Commodo, interpretata dalla bella Connie Nielsen, non ancora signora Metallica) che si prende una cotta per il pugnace guerriero. Si arriverà a una tremenda sfida finale tra Commodo e Maximus, in cui si compirà giustizia, nonostante la morte del gladiatore, finalmente ricongiunto ai suoi cari nell’aldilà. Joaquin Phoenix è perfetto nel ruolo dell’incompreso, gelosissimo Commodo che voleva solo un po’ d’amore: quello della sorella e del nipote, quello del padre, quello dei suoi sudditi e dei suoi soldati. E ovviamente funziona anche Russell Crowe, tosto e bovino il giusto, ma capace di sorrisi, dolcezza e rabbia. Cosa che suppongo faccia sbavare tutte le donne. Menzione d’onore anche a Richard Harris che come il vino migliora con la vecchiaia. A fine riprese Oliver Reed (Proximus) è criccato e il film è dedicato a lui. Non è vero che Il gladiatore valga solo per la prima scena di battaglia, come alcuni dicono, anzi. Di scene d’azione memorabili ce ne sono almeno altre quattro (perlomeno tutti i combattimenti gladiatorii) ed è grandiosa anche l’ultima commovente sfida con l’imperatore usurpatore. Scene magnifiche, costumi e scenografie non so quanto veritieri, ma verosimili e sontuosi. La confezione è croccante, con incisiva fotografia di John Mathieson e montaggio postmoderno di Pietro Scalia (che coniuga tecniche recenti a momenti più classici, più distesi). Ma il film non è bello solo da vedere, è anche ricco di agganci che si potrebbero ulteriormente esplorare (e non ne ho alcuna voglia): il dramma edipico (sfaccettato in diversi rapporti) o la tensione tra tirannia e democrazia. Nessun messaggio è porto in maniera evidente allo spettatore, ma se – subliminale – ci fosse un paragone tra l’impero romano e gli odierni Stati Uniti? Chi è il gladiatore che ci salverà dalla tirannia di Bush junior? Naaah! Visto in lingua originale: due ore e quaranta senza pause, mai annoiato. Gran spettacolo. (Diretta su HBO; 12/8/02)
318 — Rock Star di Un Fetentone, USA 2001
13 agosto
Visita dei canali di Venice (carini, msì… bah, sono pazzi, questi) e poi al Getty Museum con tre cambi d’autobus. Il Getty, inno all’architettura “bianca” di Richard Meier, è bellissimo e gratis: passo la prima mezz’ora a fare riprese furtive, nascondendomi in modo patetico con la telecamera che sbuca dallo zainetto o obbligando Barbara a coprirmi. Poi – di fronte all’evidenza di migliaia di giapponesi che filmano en plein air – capisco che le riprese sono libere. Vabbeh. Nel museo poche opere (comunque centinaia, eh?) disposte benissimo. Diversi capolavori, molti stranieri, pochi americani; il museo è veramente un’esperienza e chissà che han fatto i Getty per emendare e regalare al mondo un’opera simile. Torniamo in serata a Venice e, sul Front Walk ascoltiamo il concerto di una band che omaggia gli Aerosmith, dei simpatici zarri (la band originale e la band tributo).
14 agosto
Usciamo tardi e gironzoliamo per Marina del Rey, posto trés chic. Poi torniamo in albergo, proviamo con alterne fortune a chiamare in Messico e le cabine telefoniche ci succhiano tanti bei dollaroni. Infine andiamo sulla spiaggia ma viene nuvolo. A cena presto e poi tivù, impressionati dai Worst Case Scenarios in onda su Superstation. Gli americani sono ossessionati dal tempo, dai rapimenti e dalle disgrazie in generale. E rimanendo in tema, mi scoppio questo Rock Star commesso da tale Stephen Herek: metà anni Ottanta, gli Steel Dragon sono una chiassosa band di heavy metal. Per Chris Cole (Mark Wahlberg) sono una ragione di vita. Suona in una loro tribute band e sogna di poterli conoscere. Il miracolo accade perché il cantante degli Steel Dragon è in crisi motivazionale, è scoppiato, è pelato ed è pure gay, cosa che nel machissimo rock metal è inammissibile. Chris fa un provino e viene subito assunto. Gli cambiano nome in Izzy e lui sta al gioco: stardom, sesso organizzato, alcol, droghe, cameratismo, la dura vita sulla strada, chitarre roventi, groupies disponibili, nuovo album, nuovo tour, the show must go on. La vita da rock star allontana Chris dalla sua fedele ragazza di sempre, Emily (Jennifer Aniston), e i nodi vengono al pettine. Quando Chris/Izzy capisce la falsità totale della situazione, molla tutto e torna alle radici, a casa, in provincia, a produrre cantautorato intimista (…). La vicenda (nella prima parte) ricalca un po’ quello che è accaduto ai Judas Priest (nel senso che hanno sostituito Halford, gay, con un fan della band). La parabola è molto scritta e prevedibile, ma risulta godibile nella sua sciatta cialtronaggine. La sincerità svenduta al mercato non è rivelazione che mi faccia saltare sulla poltrona, ma funziona il parallelismo tra la spontaneità delle vere cover band e la finzione della band originale che vive di routine, diventando col tempo una cover band di se stessa, inseguendo il business e perdendo ogni entusiasmo vitale. C’è pure qualche moralismo di troppo (il rock “artistico” contrapposto a quello delle arene, l’amore eterno che non va tradito, il ritorno all’ovile, il banale “essere se stessi” che non vuol dire un beato cazzo: anche un venduto è se stesso, un se stesso venduto, eh), ma vogliamo parlare seriamente di una cafonata come questo Rock Star? Ma mai più! E poi: i musicisti che hanno partecipato a questa baracconata (tra i quali Zakk Wylde e Jason Bonham), a quali band credono di appartenere? A quelle “sincere”? I poseur sono sempre gli altri? A ogni modo c’è meno edulcorazione che in quella schifezza pseudo autoriale di Quasi famosi, film doppiamente falso. Lì sesso e droga erano suggeriti in maniera abbastanza infantile, con una strizzatina d’occhio, come dire “sono ragazzi”. Qui, seppur con la consueta pruderie yankee (e con gli obblighi della messa in onda televisiva) si suggerisce qualcosa di più pesante, dal blow job ginocchioni della groupie alla droga in quantità industriali, dai party sibaritici con sesso e carnazza al plotone di gnocche al seguito, molto più esplicite di quel gruppetto di educande virginali che accompagnavano gli Stillwater nel film di Cameron Crowe. Fotografia discreta, regia invisibile, indulgenze clippettare. Wahlberg e la Aniston se la cavano, ma il film non richiedeva particolari sforzi. La colonna sonora è estremamente divertente quando fa ricorso al repertorio di Rainbow, Foghat, Ted Nugent e altri adorabili chiassosi cazzoni. Coprodotto da George Clooney. Prima di Rock Star abbiamo visto anche una decina di minuti di Indecent Proposal, film che trovai asinino ed emetico sei anni fa e che, ogni volta che mi capita sotto mano, provo a rivalutare pensando che allora fossi stato troppo snob. Invece fa veramente cagare a spruzzo, anche se assunto in dosi omeopatiche. Poi a nanna, ché domani si fa una capatina in Messico, ma non ho più voglia di raccontarvelo, anche perché vedrò Tulum, mangerò ceviche e leggerò, nient’altro. Ciao, bella gioia. (Diretta su HBO; 14/8/02)
Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni
(Fine! — 26)