di Luigi Franchi
Se dev’esserci violenza che violenza sia / ma che sia contro la polizia
“Cazzo, non riesco a respirare” urla Massimo.
La nube dei lacrimogeni è diventata una cortina talmente spessa da rendere impossibile la comprensione di quanto sta accadendo.
Il fiume di persone che aveva costituito il troncone principale del corteo mattutino è ormai scomparso, lasciando la scena ai manifestanti pronti alla resistenza a oltranza.
Massimo non riesce a sfuggire ai gas che arroventano i bronchi e incendiano le mucose, ha perso di vista Vichi, sua moglie, ed è sempre più preoccupato per l’esito della giornata.
Le forze della polizia stanno accerchiando la zona e a breve non ci sarà tempo per distinguere tra pacifici e violenti.
Lacrimogeni, idranti e manganelli inizieranno a colpire indiscriminatamente qualsiasi cosa abbia la parvenza di un essere umano che non porta una divisa.
Qualche leader politico, parlando ai telegiornali dei principali network televisivi, dichiara la propria solidarietà alla polizia e firma in questo modo la condanna definitiva dei manifestanti; nessuno rivendicherà il ferimento ingiustificato dei cittadini coinvolti.
Nello stesso istante Massimo ripensa alle motivazioni che l’hanno spinto a risalire lo Stivale, alla partenza da Napoli per raggiungere le montagne del nord, al viaggio in treno su vagoni con temperature da altoforno, al figlio che la compagna Vichi porta in grembo.
Inizialmente non era molto favorevole al viaggio, pensava fosse assurdo andare a combattere per qualcosa di assolutamente lontano ed estraneo, mentre la sua città sprofondava trai i rifiuti e l’indifferenza dell’intera nazione.
Era stata Vichi a convincerlo, con la sua fermezza, le sua cocciuta insistenza e con la rivelazione che da lì a qualche mese qualcuno sarebbe diventato il padre di un figlio a cui garantire un futuro ricco di trenini giocattolo e montagne senza buchi.
Nel bosco, intanto, la situazione volge al peggio, il contatto tra i blocchi è avvenuto e si sente l’eco dell’intifada nostrana: nonostante volino pietre e vengano divelti cartelli stradali da usare come proiettili, la disparità di forze è palese, il successo dei manifestanti non consisterà nella vittoria della battaglia, ma nel protrarre l’assedio il più a lungo possibile.
Forse tra secoli i bardi del futuro non canteranno più di Stalingrado e della sua gloriosa resistenza, forse le contusioni, le ferite e le lacerazioni dei corpi dei manifestanti costituiranno il materiale mitico sul quale plasmare le future narrazioni di resistenza e di lotta.
Mentre l’eco della valle amplifica le urla strazianti dei feriti, Massimo continua la ricerca di Vichi, risale il versante fermandosi ogni tanto per rincuorare i più scossi dalla violenza della carica e per prestare soccorso a coloro che per disperazione si sono accasciati al suolo in preda a crisi respiratoria.
La memoria non può non tornare immediatamente a Genova, sono trascorsi dieci anni e sembra che nulla sia cambiato, la repressione del dissenso si è spinta oltre la realtà urbana, ha raggiunto anche le montagne incontaminate e sembra non volersi interrompere fino all’estinzione completa degli oppositori sull’intero suolo nazionale.
Lo Stato si appropria del territorio, in modo da gestirlo unicamente secondo i propri scopi neppure troppo intellegibili, il cittadino si trasforma in una variabile facilmente eliminabile.
Qualcuno avrà sicuramente stabilito statisticamente l’equivalente di gas necessario per dissuadere un manifestante, in un folle calcolo che possiede l’odore acre della carne bruciata portato dal vento spirante da Auschwitz.
Malgrado gli occhi brucino e le membra reclamino a gran voce una piccola tregua, Massimo si spinge fino alla linea dello scontro e, mentre si domanda se non sia egoista da parte sua pensare unicamente a recuperare la donna che ama mentre coloro che fino a poco tempo prima erano stati al suo fianco vengono massacrati, la vede.
Vichi sta urlando contro la polizia, non può lanciarsi nello scontro, teme che lo sforzo e le percosse possano nuocere alla vita che sta crescendo dentro di lei.
E allora urla, a perdifiato, incita i compagni a non mollare, presta soccorso ai feriti, si preoccupa per il marito.
Mentre Massimo cerca di raggiungerla, tutto d’un tratto le urla di Vichi cessano di risuonare per la vallata.
Massimo è sempre più vicino, ma la sagoma di Vichi è scomparsa; pensa che siano i suoi occhi a tradirlo e allora affretta il passo.
All’improvviso scopre che Vichi è riversa al suolo, giace sul prato, il volto sanguinante.
Un lacrimogeno deve averla presa in pieno viso.
Massimo controlla il battito, invoca aiuto, subito si avvicina un ragazzo inglese, dice di studiare medicina, o così almeno crede di capire, sono attimi concitati.
La comunicazione avviene in una lingua inventata, l’idioma della necessità, sembra che Vichi possa cavarsela, la ferita non è cosa da poco, ma guarirà.
Massimo alza lo sguardo e vede il cordone della polizia che avanza.
In quel momento il pensiero non tarda a tradursi in azione.
I tendini faticano a sostenere lo slancio di Massimo che si getta, proiettile umano, contro il blocco della polizia.
I politici, di ogni schieramento, lo condanneranno assieme ai Black Bloc di cui Massimo sapeva poco o nulla.
Alcuni ex-partigiani che avevano accompagnato i nipotini alla manifestazione rimpiangeranno di non poter essere stati compagni di battaglia del giovane manifestante.
Altri testimoni giureranno di aver visto a fianco di Massimo un ragazzo col passamontagna insanguinato e lo sguardo gentile.
Forse tra secoli i bardi del futuro non canteranno più di Stalingrado.
Di certo tra vent’anni il figlio di Massimo sarà in cima alle barricate.