di Girolamo De Michele
Giuseppe Caliceti, Una scuola da rifare. Lettera ai genitori, Feltrinelli, Milano 2011, 255 pp., € 15.00
Leggete con molta attenzione questo brano, per favore. Con molta, molta attenzione:
«Cari genitori italiani, pensate ai diritti dei lavoratori stranieri. Nessuno li ha difesi. E adesso tanti lavoratori italiani sono diventati stranieri in casa propria. Voglio dire: nel giro di pochi anni hanno perso diritti e le loro condizioni di lavoro sono peggiorate. Lo stesso è accaduto per gli studenti. Prima si è iniziato a tagliare fondi e diritti ai più deboli, ai meno tutelati: disabili e studenti di origine straniera. Poi tagli e soppressione di diritti hanno riguardato tutti. Anche i nostri figli. Si inizia sempre così: attaccando le minoranze, i meno protetti. Se non siamo capaci di difendere i più deboli, non difendiamo neppure noi stessi».
Questo pacato, incisivo, tacitiano ragionamento è alla p. 102 dell’ultimo libro di Giuseppe Caliceti: Una scuola da rifare. Lettera ai genitori. E dice già tutto dell’autore e del libro.
Giuseppe Caliceti è, da anni, un punto di riferimento degli insegnanti e dei genitori (e, spero, anche degli studenti) che si battono in difesa della scuola. Sulle pagine cartacee del manifesto e su quelle virtuali di Il primo amore (ma anche su Unità, alfabeta2 e Reggio24ore) rinnova ad ogni intervento la figura letteraria dell’insegnante militante: una figura incarnata ieri da insegnanti-scrittori don Milani, Mario Lodi, Alberto Manzi, Albino Bernardini, Sandro Onofri (ma anche dallo Sciascia di Le pietre di Regalpietra), e ancora viva e pugnace oggi grazie alla penna e alla keyboard di un Leonardo Tondelli, di una Mila Spicola e, per l’appunto, di Giuseppe Caliceti. Scrittori col culo “in strada”, piuttosto che “in cattedra”: dove la strada è, a volte per metafora e a volte, come nel caso dei “Maestri di strada” come Marco Rossi Doria, il mondo concreto della scuola, con le sue contraddizioni, le sue vite, i suoi sguardi, le sue potenzialità. Un mondo del quale poco o nulla sanno gli “esperti di cose scolastiche” — si chiamino Gelmini o Fioroni, per tacere delle rispettive corti e coorti di nani, giullari e ballerine. Una strada che comincia ad alzare la voce anche quando i toni restano pacati: che lotta, pretende, resiste, reclama. Insomma, combatte: e nel combattere, dà espressione al diritto ad una vita (non solo scolastica) degna di essere vissuta. Perché «La scuola pubblica italiana è ancora viva. Ed è un dovere difenderla» [p. 213] [1].
Intermezzo: La scuola che vogliamo (1)
1. Laica, gratuita, libera, solidale.
2. In cui si sta bene insieme.
3. Che aiuti i nostri figli a diventare adulti felici e responsabili.
4. Sulla quale lo Stato sappia investire come una risorsa.
Perché questo libro è importante? Caliceti, come detto, lo si legge con una certa regolarità su alcune testate. Le sue cronache scolastiche sono puntuali, pungenti, sempre all’ordine del giorno. Questo libro (una parte di esso, quantomeno) deve molto a quegli interventi, che qui ritornano rivisti, modificati, riscritti: ma sotto la nuova pittura la prima stesura si riconosce. Cos’à in più questo libro rispetto alle cronache sparse? È presto detto: il quadro d’insieme. Il contesto. Letto tutto d’un fiato, e poi centellinato come un buon vino, questo libro fa capire che ogni singola affermazione sullo stato delle nostre scuole è ipso facto un discorso sullo stato generale della società. La crisi che attraversa la scuola è espressione della crisi che attraversa ogni strato sociale, ogni angolo di mondo. Per cui ogni singola affermazione sulla scuola fa dell’alunno, del gioco, del maestro, della gita scolastica, dell’aula di cui si parla un’allegoria sulla società presente. Sulla riduzione di ogni elemento qualitativo a quantità. Sull’uso ossessivo e performante di scatole significanti vuote come “valutazione”, “selezione”, “merito”. Parole che suonano accattivanti perché non siamo capaci di ascoltarle se non all’interno dei confini simbolici già impliciti nel loro uso: cioè all’interno dell’agenda del potere. Provate, allora, ad esercitare lo sguardo straniante del maestro — un’arte che si impara avendo a che fare con delle vite reali che sono attraversate dall’apprendimento del linguaggio, come si impara a fare seguendo le indicazioni di questo libro:
«Un’altra parola oggi di moda è meritocrazia. I politici la consumano a dosi massicce. È così abusata che non è più neppure una parola, è una trappola. Ha facile presa sull’opinione pubblica proprio perché fa leva sull’orgoglio personale. La maggioranza di noi pensa di essere dalla parte del merito. Se ci mettessimo solo un attimo dalla parte degli immeritevoli, tutti i grandi discorsi sul merito cadrebbero come un castello di sabbia» [p. 41].
Intermezzo: La scuola che vogliamo (2)
5. Che valuti l’apprendimento, ma tenga conto anche delle emozioni.
6. In cui i nostri figli imparino a lavorare insieme.
7. Proiettata verso il futuro.
8. Basata sul metodo delle domande e della ricerca.
Quello di Caliceti è uno sguardo straniante, strabico, sul mondo. Che però non esce dal mondo, ma ne coglie aspetti che l’individuo alienato, imprigionato nei frame linguistici e visivi consueti, non coglie. C’è un vero e proprio metodo, che si svela quasi alla fine del libro (e forse non è casuale che l’autore abbia scoperto solo a p. 266 le sue carte): «Ognuno ha le sue deformazioni professionali. Anche i maestri elementari. Io, per esempio, guardo spesso gli adulti immaginandoli quando erano bambini. È un riflesso condizionato. Ma aiuta. Specie quando si subisce un torto. O si ha a che fare con uno dei tanti stronzi e voltagabbana in circolazione. Lo guardo e lo vedo da bambino o a bambina. La rabbia e l’incazzatura si stemperano. È un ottimo esercizio. Provatelo: funziona».
Lo stesso esercizio può — anzi, deve — essere computo all’incontrario: guardate una bambina o un bambino, e pensateli adulti. È un esercizio critico fatto a suo tempo da Elena Giani Belotti, e poi da Loredana Lipperini. Chiedetevi: che tipo di società adulta è coerente con le pratiche sociali, linguistiche, educative che stanno formando i bambini che osservate? Estendete al mondo adulto i test linguistici con i quali si può negare l’accesso all’istruzione ai figli dei migranti, ad esempio. Estendete al mondo adulto l’educazione al ruolo o alla funzione che serpeggia nel fascismo friendly delle pratiche educative sottese alla riforma Gelmini, e vedrete. «Non si educa un bambino a un ruolo, a una funzione: per quello bastano delle istruzioni. I bambini sono persone. A scuola si educa a essere persone. Come? Educando a star bene a scuola. Promuovendo pratiche di ascolto e favorendo momenti di riflessione comuni. Migliorando la padronanza della lingua di ogni alunno. Facendone cogliere le potenzialità espressive. Cercando di stimolare e promuovere la spontaneità, l’immaginazione e un’idea di creatività non romantica, individuale, ma collettiva. Provando a sviluppare le abilità comunicative degli alunni, verbali e non verbali. Tentando di migliorarne le capacità di ascolto e di giudizio, le abilità relazionali. Sviluppando l’attitudine all’osservazione di sé, degli altri, dell’ambiente in cui vivono. Aumentando la loro capacità di esplorazione delle situazioni. Favorendo la conoscenza reciproca e il confronto con le parole, le emozioni e le idee degli altri» [p. 224].
Chiedetevi che modo corrisponde a questi bambini, e capirete perché l’attacco alla scuola e all’istruzione è una forma di fascistizzazione contro la quale è un dovere resistere con ogni mezzo necessario. Leggerezza e ironia comprese.
Conclusione: La scuola che vogliamo (3)
9. In cui i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini.
10. Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di diventare grandi.
Nota
[1] Mi permetto di rimandare al mio intervento del 18 giugno scorso (qui il file audio) al seminario di Uninomade su composizione di classe e organizzazione del comune (qui).