di Davide Grasso
[Ho tenuto questo intervento in occasione delle Settimane della politica tenutesi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, durante la sessione del 21 febbraio 2011, intitolata “Criminalità politica & politica criminale”, introdotta da una Lectio Magistralis di Giancarlo Caselli. Al convegno partecipavano diversi magistrati, tra cui Bruno Tinti e Piercamillo Davigo, cui ho voluto rivolgere queste parole. Sento il desiderio di affidare queste riflessioni alla rete mentre apprendo la notizia che 65 persone del movimento No Tav sono state oggi, 17 giugno 2011, indagate o perquisite su mandato del procuratore Caselli].
Dico subito che questo intervento rappresenterà una deviazione, forse addirittura una “devianza”, rispetto a quelli che mi hanno preceduto. Quando ho saputo che a introdurre questa giornata sarebbe stato il procuratore Caselli non ho potuto fare a meno di ricordare che il 15 marzo, presso il Tribunale di Torino, verranno processati diversi studenti della nostra università (e di altre università italiane), per accuse riguardanti le proteste contro il cosiddetto “G8 dell’Università” del maggio 2009. Il 7 luglio dello stesso anno, quando quelle studentesse e quegli studenti furono arrestati, fu il procuratore Caselli a giustificare pubblicamente l’operazione. Quegli studenti, secondo le sue dichiarazioni, non venivano imprigionati per il fatto di protestare o di fare politica, ma per aver superato un certo confine. Il confine cui si riferiva Caselli era, in primo luogo, quello spaziale, urbano, che circoscriveva il settore della città percorribile secondo le autorizzazioni della questura e della prefettura; ma era anche quello, invisibile agli occhi e impalpabile alle mani, che separa un modo legittimo da un modo “criminale” di fare politica.
Che cos’è una politica criminale? Secondo il sito Fortress Europe, dal 1988 almeno 15.656 persone sono morte tentando di recarsi illegalmente nell’Europa di Schengen. 15.656 morti. È la politica di Schengen una politica criminale? O sono i migranti, che ignorano consapevolmente le normative sull’immigrazione, dei criminali? Qui si situa il cuore del problema teorico di che cosa sia un crimine, e di che cosa sia criminale. Secondo l’etimo latino (crimen, criminis) il crimine è “ciò che è oggetto di decisione giudiziaria”; la derivazione remota è dal greco krinein, verbo fondamentale tanto per il diritto quanto per la scienza: “esamino”, “decido”, “giudico”. Qui si situa, non a caso, e per una circostanza illuminante, la radice stessa di “critica”: per esercitare una critica è necessario esprimere un giudizio, e lo stesso giudizio del giudice, che identifica il crimine, è in fondo, in senso lato, una critica alla condotta dell’imputato. Eppure è la critica delle decisioni dei giudici e dei magistrati, impegnati a identificare, reprimere, imprigionare ed espellere i migranti “irregolari”, che rende possibile l’idea secondo cui queste deportazioni siano dei crimini, e la trasformazione dell’Europa in una fortezza sia, con la carneficina che ne consegue, un crimine. Di solito si aggiunge una postilla: il crimine è politico, è un crimine della politica; il magistrato che dispone la misura repressiva o la deportazione della migrante o del migrante non porta alcuna responsabilità, poiché applica una normativa.
Stamattina abbiamo ascoltato la Lectio Magistralis, che era anche una Lectio Magistratus, di Giancarlo Caselli, sul tema della giustizia in Italia. Anche “giustizia” ha, come “crimine”, due diverse sfumature semantiche: una tecnica e giuridica, l’altra morale e politica. Ciò che è giusto secondo la legge può non essere giusto secondo il pensiero; ciò che è un crimine per il magistrato può non essere un crimine per l’immigrato, per l’indagato, per l’imputato. È stata la prima volta, oggi, che ho ascoltato magistrati tenere delle lezioni; non ho mai pensato che un magistrato potesse essere un maestro, tanto meno in fatto di giustizia. Mi chiederete voi, come puoi pensarlo, se non li hai mai ascoltati? Non ho detto che non li ho mai ascoltati; ho detto che non li ho mai ascoltati quando parlano all’università. Li ho invece dovuti ascoltare più e più volte in tribunale, proprio come imputato, o come sodale di imputati. Vi assicuro che vedere e rivedere l’arroganza, l’arbitrio del magistrato, talvolta il razzismo e la violenza politica che si insinuano nell’interrogatorio e nella requisitoria quando esso entra in azione contro la responsabile di un taccheggio, contro il rapinatore, contro un tossicodipendente o uno straniero — o, quando è il caso, contro un criminale “politico”, magari uno studente — è istruttivo. Istruttivo, si badi, senza che il magistrato si trasformi per questo in un maestro.
Non mi sfugge, d’altra parte, che magistratus derivi, come maestro, da magister. Entrambi hanno la propria radice in magis, “più”: entrambi possiedono una supremazia, qualcosa in più degli altri. Eppure la supremazia del maestro è diversa da quella del magistrato. Si diceva che il magistrato non porta responsabilità politica, perché si limita ad applicare la legge. Lex, legis trova la sua origine nel ceppo linguistico che diede luogo anche al germanico antico lög, e divenne l’antico sassone lag, quindi l’inglese law; la radice proto-indoeuropea comune è lagh o legh, porre, giacere: la legge è posta, è positiva. L’etimologia qui si affianca con successo alla fenomenologia, giacché la legge non è “eterna” né “naturale”, ma sociale e storica: ha luogo e nasce nel tempo, attraverso la creazione o il fiat di più esseri umani. Il magistrato applica le leggi perché incarna o rappresenta l’istituzione, ossia, ancora una volta, ciò che è istituito, creato, posto in essere in un certo istante del tempo. L’essenza della legge non può tuttavia limitarsi alla differenza specifica del suo genere d’esistenza — l’essere prodotto sociale più che elemento naturalmente obiettivo — giacché anche i piani criminali, più o meno politici, sono posti in essere positivamente, nel tempo. Sfido a trovare un dizionario che non richiami, nella sua definizione di “legge”, l’antica accezione ciceroniana di regola o norma di comportamento; una descrizione del tutto intuitiva, ma che non basta, ancora, a spiegare la differenza tra i due sensi di crimine e di giustizia, quello morale e quello giuridico, poiché anche la norma morale, come la legge, è una regola di comportamento.
La differenza tra la determinazione morale o giuridica risiede nel fatto che soltanto nel secondo caso condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione del concetto è di “essere oggetto di decisione giudiziaria”; la critica, il krinein, si applica nel primo caso, invece, secondo una decisione del singolo, eventualmente mediata dall’interazione sociale, che non deve conformarsi necessariamente all’elemento giuridico, allo ius. In entrambi i casi si applica una regola del “giusto” e dello “sbagliato”, ma soltanto la dimensione istituzionale della giustizia è posta in essere come legge avente i suoi effetti oltre la dimensione individuale. Questa circostanza non è sufficiente a qualificare come immorale ciò che è illegale, o come morale ciò che è legale; paradossalmente nulla vieta che il crepuscolo o la notte di una legalità siano presupposto per il giorno della trasformazione, anche se, ovviamente, non è necessario che sia così. L’assetto legale di una certa regione dello spazio, in un certo istante del tempo, trova la sua giustificazione ultima, nel processo a ritroso dei suoi contenuti giuridici, in una serie di asserti morali, in principi teorici contestabili, e regolarmente contestati in seguito, su che cosa siano non soltanto il crimine e la giustizia, ma l’essere umano, il lavoro, la pace, la democrazia, l’individuo. Sono questi asserti che legittimano la mano che appone la firma in calce al primo esemplare della costituzione. La tanto acclamata legittimità, che viene a volte invocata come fondamento quasi obiettivo di quel gesto, è un termine incredibilmente vuoto, derivando, al pari della legalità che dovrebbe fondare, da lex; ed è di fronte ai nostri occhi in Nord Africa, in “Medio Oriente”, e in tutta quell’area che dall’Iraq arriva all’Iran e all’Afghanistan, che è proprio quando emerge, politicamente, lo scarto tra il legale e il legittimo, che chi è chiamato ad applicare le regole vigenti dà il peggio di sé.
Ma che cos’è una regola — sia essa logica o giuridica, e finanche morale? Il latino regula aveva il significato di norma o principio di un’arte o di una disciplina, ma soltanto in senso metaforico: questo non era il significato principale. La rega, di cui regula era il diminutivo più in uso, era un’assicella usata per tirare linee dritte, una squadra insomma; e questo perché regere significava “guidare drittamente” e, per estensione, “governare”. Se la regola è una norma, tuttavia, la norma è una regola: e questo anche in senso letterale, dato che la norma era per i romani un altro strumento geometrico, per misurare gli angoli retti, come la squadra. C’è una pervasiva radice geometrica del diritto, una radice figurata, scritturale, quasi il fondamento del diritto come tale, e non soltanto quello di una singola costituzione e della firma che porta in calce, andasse cercato in una traccia, nel gesto di tracciare qualcosa su un supporto, lasciando giacere o ponendo in essere una nuova configurazione del crimine e della giustizia. Il diritto stesso — ricordo un’ovvietà — è un concetto geometrico e spaziale (directum, participio passato di dirigere, “porre in linea retta”).
Una regola è, tanto dal punto di vista logico, morale e grammaticale quanto in quello giuridico — ciò su cui hanno insistito in molti, da Wittgenstein a Kripke, da Searle a Zelaniec — la ripetizione di comportamenti (fisici o mentali) secondo certe istruzioni, un po’ come a procedere in linea retta, senza fughe o sbavature. In questo senso non è possibile vivere senza regole; utilizzare il linguaggio, dalle parole ai gesti, prevede delle regole; costruire case, rapinare banche, imbarcarsi su uno scafo lungo il Mediterraneo, tutto prevede una competenza e una conoscenza, dunque la ripetizione di atti, il seguire istruzioni, al limite ricordate a memoria: regole epistemiche, morali, giuridiche, semantiche. Anche se volessimo rivoluzionare questo paese, questo mondo, o questo convegno, dovremmo farlo in base a nuove regole. La contestazione dell’esistente, di ciò che è già stato posto, di ciò che già giace nella storia, avviene necessariamente in base a un’idea nuova di regola, a nuove regole o a una nuova forma che il concetto di regola deve assumere; non è mai al di là della regola come tale. Il migrante è “irregolare”, infatti, soltanto per il magistrato e per il suo sottoposto della polizia giudiziaria, ma in realtà è arrivato qui secondo le sue convinzioni e i suoi saperi, seguendo delle regole. Ella o egli possono anzi portare qui, nella loro irregolarità, nuove conoscenze e nuove regole, o testimoniano già nella loro condizione del carattere criminale del diritto, della sua irregolarità rispetto alle convinzioni morali che il soggetto può far proprie.
La differenza tra magistrato e maestro, quindi, sta nel fatto che un maestro può, se vuole, curvare dalle geometrie ortogonali del diritto già stabilito, se non altro esprimendo il suo pensiero secondo nuove regole, magari incompatibili con quelle precedenti; il magistrato, no. Neanche il maestro lo fa necessariamente, ma è questa possibilità logica e politica che è, a sua volta, condizione di possibilità perché egli abbia qualcosa di interessante da dire; se, secondo Kant, è pigra la ragione che abbandona la critica, figuriamoci quella che per dovere non l’ha mai iniziata. La Weltanschauung professionale del magistrato è per definizione acritica, poiché il krinein, fin dalle sue origini greche è, in senso socratico, la ricerca intellettuale immune da presupposti; e come può abbandonare i presupposti e la tradizione, chi è addirittura legato alla legge, a un ordinamento positivo, a una costituzione? Questo non impedisce, naturalmente, che il ruolo del magistrato nella società sia politico, e che anzi lo sia necessariamente, portando tutto il peso del crimen politico, qualora esso abbia preso forma giuridica. Se la legge e l’istituzione hanno carattere storico e la società è un oceano di regole, convinzioni e convenzioni, di cui l’isola dei regolamenti giuridici rappresenta soltanto una parte, la legge e le istituzioni sono elementi necessariamente parziali, anche qualora non vivessimo in una società divisa in classi sociali, in guerra permanente e basata su politiche migratorie criminali. Con l’aggravante che siamo in una società divisa in classi sociali, in guerra permanente e basata su politiche migratorie criminali.
In fondo, ciò che impone di negare l’attribuzione di un “magis” culturale al magistrato deriva proprio dal fatto che egli applica, non decide; ciò che secondo molti, incredibilmente, ne salverebbe la reputazione. Certo il male morale di chi applica regole altrui può apparire banale, mediocre, o non saltare agli occhi, ed è senz’altro difficilmente spendibile in senso letterario; è il male grigio di chi amministra la deportazione, non quello nero di chi ne fa una legge. Ma questo male banale c’è e disgusta, anche nei solerti funzionari delle cosiddette “democrazie” contemporanee, che per dovere deontologico non curvano mai dal “diritto” stabilito, ed anche quando criticano questa o quella ramificazione contingente di esso, non possono criticare l’impianto complessivo e il suo significato, l’ordinamento o l’ordine sociale in sé (che magari spiegherebbero il persistente problema di un certo tipo di “criminalità organizzata” e la sua ampia sovrapposizione con quelle stesse istituzioni) perché sono legati a doppio filo — legale e, ahimè, morale, per un’umiliante sovrapposizione — alla loro fedeltà allo stato; così, mentre firmano un arresto o una deportazione, sono criminali non una, ma due volte. Visto in prospettiva, il potere giudiziario non fa mai una bella figura. L’intera storia è un’immane successione di curvature, microscopiche e macroscopiche, dal diritto positivo, e rende paradossalmente la curvatura e la deviazione, e la devianza in fondo, l’unica regola stabile del genere umano, una regola che varia necessariamente nella ripetizione, e permette per questo all’essere umano di avere speranza. Questo è il senso più profondo, a mio avviso, (forse l’unico!) per cui la storia è magistra, e può essere tale persino per il magistratus.
Per quanto riguarda tutti noi invece, che se abbiamo presupposti non li assumiamo per via deontologica… In questo mondo “dissestato”, dove è la legittimità generale dell’assetto istituzionale — giuridico, diplomatico, finanziario — che scricchiola a livello globale, occorre non adottare concetti di crimine e di giustizia che siano costitutivamente di retroguardia: quando il senso morale e quello giuridico si sovrappongono anche nel pensiero di chi desidera una condizione politica altra, la notte, già inoltrata, rischia di divenire irreversibile: saremmo in presenza, se ciò è mai possibile, di una notte politica a priori. Quello che è a mio avviso necessario mettere a fuoco, quando si parla di crimine e di politica, è che questo spazio geometrico e testuale, lo spazio istituzionale, è uno tra i tanti nella società, e non necessariamente i segni più carichi di futuro, qui o altrove, e su questa o su quell’altra riva del Mediterraneo, provengono dal suo interno.