di Andrea Borla
Vincent Spasaro, Assedio, Segretissimo Mondadori, 2011, pp. 242, € 4,50.
I protagonisti di una guerra sono molto diversi gli uni dagli altri: i soldati che combattono, i civili che la subiscono e i morti di cui tenere il conto per quantificare l’entità della tragedia. A essi si aggiunge “una fauna che i telegiornali non vi faranno mai vedere: politici, trafficanti d’armi, mediatori, zero zero sette, mafiosi” e soprattutto i turisti.
I turisti vanno e vengono, guardano ma non vivono i luoghi in cui transitano, visitano sapendo che non resteranno a lungo. In loro onore vengono realizzati spettacoli e messinscene. Questa regola non vale soltanto nei villaggi vacanze o nelle crociere, ma viene applicata anche ai turisti che vanno a “guardare i massacri”. In loro onore, a Belgrado come in tutti gli scenari di guerra, deve essere garantita un’immagine di apparente normalità, in cui la morte è ospite sgradita.
Ed è proprio nei Balcani, alla vigilia di un incontro internazionale, che ci conduce Vincent Spasaro con il suo Assedio. Lo fa proiettandoci in una Sarajevo ricolma di anfratti nascosti, hotel per reporter stranieri, cecchini appostati e cannoni puntati sul centro. E lo fa grazie agli occhi e alle parole di Stefan Weiss, un uomo che porta con sé un tesserino della stampa e che tiene in bella mostra una macchina fotografica armata di teleobiettivo, ma che è tutto tranne un fotoreporter. Il suo lavoro è carpire informazioni: Weiss è una sorta di “agente segreto non troppo segreto” la cui attività nei luoghi di guerra procede bene solo se non si lascia impietosire davanti alla sofferenza.
È la sua voce a dipingere in maniera netta i paradossi della guerra: dallo slogan “niente armi a Sarajevo” che nasconde una realtà di cecchini e stragi, alla funzione di “peace keeping” svolta dalle forze ONU che può essere tradotta in un più efficace “lasciare che si massacrino da soli”.
Assedio ha inizio con un curioso conto alla rovescia che scandisce i primi capitoli e conduce alla scena che animerà il meccanismo narrativo del romanzo: una porta che si apre, una stanza che ingoia e risputa persone e cose. Quella porta e quella stanza rappresentano non solo il confine tra due mondi ma, soprattutto, uno spartiacque narrativo: sino a quel momento il lettore è immerso in uno scenario di guerra, mentre qualche riga dopo si ritrova in un romanzo di genere fantastico, un ambiente in cui Spasaro si muove con grande abilità.
Il campionario di elementi fantastici che l’autore ci presenta in Assedio è coerente con l’ambientazione del romanzo: cacciatori di fantasmi che alternano lotte e alleanze con le creature dell’aldilà, moderni evocatori di demoni che tracciano pentacoli con sacche per trasfusioni, crocifissioni di entità tanto mostruose quanto metafisiche. E soprattutto “anime di (…) morti derelitti che affollavano gli incubi di viventi ancor più disperati” perché, dimenticati da tutti, vedono cessare la propria esistenza.
È in questo contesto che il fantastico raggiunge il suo massimo obiettivo: divenire metafora e trovare in essa la sua più alta giustificazione, senza tuttavia perdere di vista il quotidiano da cui pare sprigionarsi. Il fatto che, in Assedio, questa affermazione possa essere riferita alternativamente a una porta che conduce in una stanza misteriosa o a una guerra apparentemente infinita è un segno dei tempi che, purtroppo, lascia l’amaro in bocca.