di Alberto Prunetti e Maria Rosaria Bucci
Claudio Morandini, Il sangue del tiranno, Milano, Agenzia X, 2011, 157 pp., 9,50 euro
Comincia a risultare trito il noir edificato attorno alla figura del poliziotto eterodosso (magari ubriacone o fregato dalla vita). Prendiamo atto dello stato di fatto messo in luce dalla distinzione operata da Massimo Carlotto (“Dalla crisi al conflitto”, in Il Manifesto, 25 maggio 2011) tra giallo di matrice ottocentesca (crimine individuale risolto da un detective con capacità di decifrazione di indizi) e noir contemporaneo (crimine sociale che opera in reti di illegalità spesso parallele o interallacciate al potere legale). Ci auguriamo però la scomparsa degli uniformati (perlomeno dai noir, che diamine). In questo senso salutiamo con entusiasmo la nuova la collana Inchiostro rosso della casa editrice Agenzia X, che sta proponendo dei noir antagonisti d’investigazione, col merito di fare a meno della figura — ormai stantia — del poliziotto e del detective (ubriaco, deluso, dogato, ma sempre birro). Auspicando la disseminazione contagiosa di un noir antagonista capace di innestare il saggio e la controinchiesta nel ceppo fruttifero del noir, segnaliamo intanto Il sangue del tiranno, romanzo di Claudio Morandini dalle tinte grottesche, spesso umoristiche, ambientato in una decadente università di provincia.
Lucio Trevisan, Ingratitudine, Milano, NoReplay-Velvet, 2011, 224 pp., 12 euro
Passiamo alla successiva segnalazione e alla prima persona, abbandonando il registro da verbale di condominio. Spero di non essere troppo “ingrato” con questo romanzo, nei confronti del quale provo sensazioni molto alterne. Lo sfoglio e lo risfoglio, senza riuscire a capire cosa ne penso, a lettura ultimata. Scrittura rapida, senza dialoghi, quasi una confessione. Taglio che enuncia un’autobiografia o un’auto-fiction sul milieu extraparlamentare degli anni Sessanta-Settanta, con fermate narrative che seguono i principali eventi di quella stagione. La penna funziona e l’ambientazione è realistica, sicuramente ben conosciuta e frequentata dall’autore. Ma è la sua prospettiva che non capisco.
Ci sono elementi di empatia e altri di distanziamento e fatico a rendermi conto davvero su quale lunghezza di focale si collochi l’autore. A tratti sembra che i militanti siano tutti una banda di rincoglioniti animati da cattiva coscienza, ambizione, personalismo, miopia ideologica (uno per tutti, la figura del militante esule cileno che farnetica in un comizio proprio a ridosso del golpe dell’11 settembre 1973); e poi i partigiani citati di passaggio come ignobili assassini; e espressioni come “brodo di cultura” o “anni di piombo”, che non sono proprio interne al lessico dei movimenti. Sono elementi di distanziamento che mi hanno raffreddato. Il romanzo termina — come poi è successo effettivamente per molti — con la crisi esistenziale, l’abbandono dell’assalto al cielo, il ripiego nel sentimentale e i viaggi esotici. Non so, da una parte il punto di vista del personaggio è tutto interno al movimento, la critica alle Brigate rosse è sensata; dall’altra però c’è qualcosa che non brucia, che non crea calore. Forse è il sapore della sconfitta. C’è più nostalgia che sacro furore, dal lato personale, mentre sul piano della ricostruzione sociologica non si riesce a vedere il quadro d’insieme di quegli anni. Se un machiavellico detrattore degli anni settanta volesse smontarli in senso malevolo quegli anni, dovrebbe provare a infiltrare un personaggio nei movimenti (in senso narrativo come un tempo faceva di fatto la digos) e poi fargli raccontare le cose in senso solo generazionale, personale. Forse è proprio la dimensione corale che manca al romanzo, il fatto che Trevisan fa parlare un personaggio al posto di un movimento. Ma può darsi che davvero sono stato ingrato, e quindi lascio ai lettori il giudizio finale su questo libro. Non è una lettura faticosa e sicuramente in tanti troveranno pezzi di una storia che hanno visto coi propri occhi.
Umberto Lenzi, Morte nel Cinevillaggio, Roma, Coniglio Editore, 2010, 199 pp., € 12,00
Febbraio 1944, manca un anno alla fine della guerra. L’investigatore Bruno Astolfi è costretto a lasciare Roma e trasferirsi in provincia con la sua compagna. Anche Cinecittà si sposta da Roma per volere della Repubblica di Salò e attori e registi si ritrovano al Cinevillaggio di Venezia dove i tedeschi hanno ancora pieno potere. Ad Astolfi la provincia comincia a stare stretta e appena ne ha l’occasione torna alla capitale. L’occasione di andare via per un periodo più lungo gli viene data dal commendatore romano Baglioni Garlaschi che lo invia a Venezia per rintracciare la figlia sposatasi senza il consenso dei genitori con un attore veneziano. Astolfi arriva a Venezia, rintraccia la ragazza, le consegna il messaggio del padre e si mette alla ricerca di suo marito. Lo incontra sui set del Cinevillaggio e si fa un’idea dell’uomo: attore senza lodi, giocatore di poker, frequentatore di ambienti borghesi viziosi. Bruno ha le informazioni necessarie per tornare a casa e concludere il suo lavoro quando arriva la telefonata di Paola Garlaschi che gli comunica che suo marito è stato ucciso e le colpe del delitto ricadono su di lei. L’investigatore ha il dovere di aiutare la figlia del commendatore. Comincia così il ciclo di indagini di Astolfi: omicidi, frequentazioni dei set cinematografici e di ambienti alto borghesi. Tra cinema, pornografia, matrimoni di facciata, amanti, droga sesso e poker, Astolfi traccia il profilo dell’assassino e riesce a catturalo mettendo in salvo la sorte della sua assistita. Il regista Umberto Lenzi scrive un giallo di altri tempi, con un linguaggio adeguato al tempo del romanzo. Un vero giallo vecchio stile alla Poe e alla Christie in cui bisogna aspettare di leggere l’ultima pagina per scoprire l’assassino. In realtà è nel penultimo capitolo che la vicenda si chiude, perché la fine del romanzo è dedicata alla scelta politica dell’eroe. Quello che conoscevamo come il regista di “Milano odia: la polizia non può sparare”, “Roma a mano armata” e “Napoli violenta”, nonché creatore de “Er Monnezza”, ci regala un giallo che lega bene e si fa leggere. E se lo volesse trasformare in pellicola, siamo sicuri — da appassionati spettatori dei suoi film d’azione — che Umberto Lenzi darebbe il massimo nella scena dell’ inseguimento sui canali, con qualche extra in overdose di cinismo. Agatha Christie non l’avrebbe mai fatto.