di Franco Pezzini
Spiando Lilith
Uno dei titoli più enigmatici della produzione di Fritz Lang è rappresentato da un film del 1919 da lui in realtà solo sceneggiato (la regia era di Erich Kober), Lilith und Ly, prodotto dalla viennese Fiat-Film e purtroppo perduto. Nella vicenda, un’antica pergamena rinvenuta in India permette allo scienziato Frank Landov (Hanns Marschall) di apprendere il segreto della creazione della vita: ciò che egli cerca poi sciaguratamente di applicare, animando una statua dello scultore Mudarra (August Hartner). Vi è ritratta la giovane Ly Delinaros (Elga Beck), che Landov ama; ma quando l’operazione riesce, grazie all’utilizzo di un rubino, e la donna artificiale Lilith (sempre Beck) prende vita, lo scienziato si invaghisce di lei. Sarà il completamento di un’altra invenzione, un telespecchio, a permettergli di apprendere la verità su Lilith — che si rivela un vampiro, in un allegro mix dei miti di Pigmalione, del golem e della succhiasangue. Lilith, mostra lo schermo, sta lentamente prosciugando Landov di energia vitale, e presto Ly manifesta gli stessi sintomi di debolezza: per cui lo scienziato si risolve a distruggere la statua e gettare il rubino nel fiume, salvando la situazione. Lieto fine, insomma, in cui però sembra presente (almeno a giudicare dai riassunti, in mancanza della pellicola) un guizzo provocatorio. Nella catarsi finale, infatti, Landov sfascia anche il telespecchio: ed eliminare lo strumento che ha svelato la verità significa in fondo, per il futuro, permettersi d’ignorarla. Se la fantastica invenzione, com’è probabile, ammicca al cinema, la conclusione potrebbe stigmatizzare un certo atteggiamento di rifiuto della verità offerta — spesso in metafore e comunque con linguaggio peculiare — dalla nuova arte. Certo, Lang non poteva prevedere splendori e miserie degli sviluppi futuri, dalla TV (magari quella ostaggio di piccoli Caligari e sonnambuli-lacchè) agli schermi internet, e che innestano discorsi che condurrebbero lontano. A interessare in questa sede sono piuttosto il rapporto di oscura rifrazione inscenato nel film tra la modella e l'(Anti-)Dea raffigurata e resa carne, e il fatto stesso che il nome di Ly venga contenuto in quello della sua Ombra Lilith, quasi ad avvolgerla e prosciugarne vampiricamente l’identità. D’altronde Lang non ignorava certo la sapiente disinvoltura della tradizione ebraica, cui proprio il mito di Lilith si ascrive, nel trattare simili alchimie onomastiche.
Il film perduto rappresenta probabilmente il primo caso in cui l’antica diavolessa assurge alla gloria degli schermi: ma per una curiosa circostanza la dialettica tra Lilith e Ly — anzi, Li — tornerà in una vicenda artistica molto più vicina a noi. Nella galleria straordinaria e disturbante di Hans Ruedi Giger alcune delle immagini più note effigiano demoni-femmina, e si raccordano ancora alla tradizione del gorgoneion, la testa tremenda ed eventualmente decollata: però nei grovigli biomeccanoidi di chele, gangli e spire emergono i tratti di una modella molto speciale, fatale per l’artista come Lizzie Siddal per Rossetti. Non a caso quelle immagini presentano i titoli Li I e Li II (entrambi 1974): e sono ispirati a colei che per un periodo fu compagna di Giger, cioè l’attrice svizzera Li Tobler. Compagna amatissima e assetata di vita, che tuttavia droghe, amori alla deriva, stanchezza e depressione finiranno col precipitare in un abisso autodistruttivo (1975), come già Lizzie un secolo prima. Con la differenza che a fronte dell’angelicata Beatrice/Ophelia vittoriana, ora la delicatezza eterea del viso — che affiora immoto e cereo come dall’incubo di soffocamento del carcere/carapace, e in Li II svela una decollazione — appare piuttosto icona di qualche inferno: forse in proiezione inconscia del tortuoso dedalo interiore e di coppia, ma con ben più ampia valenza mitica. Pare che, di fronte a Li I, l’interessata rimanesse sconvolta al punto da passare a vie di fatto sfasciando il dipinto (come Landov il telespecchio), che l’autore dovette ricucire quasi in un estremo intervento cicatriziale dell’icona cyber-goth. Nei fatti il suicidio dell’attrice cala sull’arte di Giger una patina di oscurità ancora più profonda; ma ben al di là dei titoli-omaggio di singole opere, la silhouette di Li vi tornerà indefinitamente con valore di simbolo.
A questo punto però non ci stupiamo di trovare nella produzione gigeriana anche una Lilith (1976): un’inquietante ginoide con viso morto — occhi semichiusi, il naso a fessure da cranio — e curve sensuali. Protette però da drappeggi di vertebre in forma di grandi ali ripiegate, donde spuntano demoni minacciosi, e culminanti in una gigantesca coda serpentina. L’insieme può ricordare un insetto mostruoso, sicuramente una creatura demoniaca, e ben rende l’immagine di Lilith circolante nelle conventicole sataniste odierne — immagine che può anzi aver contribuito a forgiare, visto il successo dell’arte gigeriana nel sottomondo dell’esoterismo oscuro. Inutile dire che i ritratti del revival vittoriano, quando all’improvviso e clamorosamente Lilith emerge all’attenzione collettiva moderna, risultano molto diversi.
In questa nostra discesa nel ventre della schiera di Ecate, il nome di Lilith è tornato più volte — il che non è strano, proprio per i suoi profondi raccordi con tutta una mitopoiesi delle tenebre. Recepita nella demonologia ebraica come creatura della notte (layil), associata a lussuria, sterilità e luoghi desolati, la Nostra trova spazio persino nella Bibbia, nella celebre profezia contro Edom di Isaia 34, 14, su cui torneremo, e — secondo singoli traduttori o interpreti — in qualche altro passo (come Giobbe 18, 15, dove il riferimento alla sorte dell’uomo empio: “Nella sua tenda abita chi non è dei suoi” — così la Nuova Riveduta — richiamerebbe in altre versioni Lilith, nel contesto di un tessuto di sciagure distribuite in ipotesi da demoni-ministri). D’altra parte la figura dell’Arcidiavolessa rappresenta per più versi una variante mediorientale delle orchesse egee, nell’ambito della medesima nebulosa mitica — salvo uno statuto molto più complesso per il rapporto prima con la sofisticata demonologia ebraica, e in seguito con un’allegra mitopoiesi di massa.
In effetti la questione-Lilith è complicata dal fatto che molte affermazioni correnti (fino al web) vengono da testi ormai superati, che però hanno conosciuto grande fortuna e ricadute nell’immaginario moderno, dall’arte alla fiction popolare; e la risacca di semplificazioni, interpretazioni ideologiche, mitopoiesi e svarioni ha fatto il resto. Se per esempio parecchie assonanze con altri nomi mitici presentate nel nostro percorso restano a livello di ipotesi di lavoro, è ormai chiaro che le parole sumere lili, in riferimento a un demone-femmina, e lilu, “sera”, non sono connesse sul piano etimologico. La līlītu delle tavolette cuneiformi non può dunque intendersi quale “demone-femmina della Notte”, come entusiasticamente tradotto a inizio Novecento, in ricordo della Lilith/layil ebraica ma anche delle icone preraffaellite e simboliste della femme fatale del crepuscolo: si tratta piuttosto a spiriti del vento che porta malattie e morte. Il sumerico lil significa appunto “aria”/“vento”: emblematica è la figura di Ninlil, la Signora dell’aria, dea del vento del sud e sposa del dio Enlil. Ancora in rapporto alla citazione (molto più tarda) di Isaia, alcuni interpreti hanno connesso il nome Lilìt a una radice ebraica che richiama l’idea del movimento a spirale, dell’avvolgersi attorno a qualcosa — una suggestione che ben si accorderebbe con le movenze della “Signora dell’aria” mesopotamica, ma anche con l’icona del serpente spesso abbinato all’Arciseduttrice. Però i concetti “aria”/“vento” richiamano anche l’idea di “spirito”, come nell’accadico lilu: dunque si è proposto Lil-itu come composto tra la citata costellazione pneumatica e itud, “luna”. Da cui forse quell’idea di “notte” poi sedimentata nelle lingue semitiche fino al citato layil ebraico e all’arabo layl… La realtà può essere più banale, e cioè che termini etimologicamente separati ma simili per suono finiscono col compenetrarsi nell’uso, legando contenuti semantici e mitici; e che il travaso da una cultura all’altra conduce con frequenza a marcati slittamenti simbolici. Chi sia interessato a questo fronte può proseguire le riflessioni sul testo di Jacques Bril (talora criticato e non recentissimo — del 1981 — però interessante), Lilith. L’aspetto inquietante del femminile, Ecig 1990. Ma già dalla carta d’identità iniziamo a sospettare che il personaggio-Lilith sia meno univoco di quanto spesso proclamato.
Altre ambiguità riguardano del resto il suo stato di famiglia. In Mesopotamia il termine maschile lilu e quello femminile lilitu sono presenti quali forme sia singolari che plurali, a sfumare ancora una volta la distinzione tra nome proprio e di “specie”; e se si è creduto di individuare una sorta di clan familiare tra il demone maschio Lilu erede del lil sumero, la femmina Lilitu e una figlia (o fantesca) Ardat Lili, la cautela s’impone. Tanto più che altre presenze affini emergono dalle iscrizioni — per esempio Lilla, Kiskill Lilla o Serva di Lilla, e Kiskill Udakkarra, la Serva che si appropria della Luce —, in rapporti di tribù o piuttosto di sciame. Anche e più che per le parenti egee, gli scarsi documenti sparigliati su un arco di tempo tanto lungo e nell’ambito di civiltà tanto diverse — a partire da quelle che per millenni hanno fatto a cazzotti tra i Due Fiumi — risultano sfuggenti. E vedremo in prosieguo come la Lilith ebraica potrà a sua volta vantare tutta una parentela dai connotati equivoci.
La stessa cifra del dubbio connota del resto l’iconografia più antica. Pur trattandosi di un’ipotesi suggestiva, è estremamente improbabile che si possa identificare con Lilitu la trionfante dea alata effigiata in immagini anticobabilonesi come il bellissimo Rilievo Burney o la placca in terracotta del Louvre, dai piedi d’uccello predatore e accompagnata da vari animali. Più credibilmente si tratta di un’altra vamp tenebrosa, Ereshkigal dell’Oltretomba, o piuttosto Inanna/Ishtar patrona delle puttane — al punto da far ipotizzare per il Rilievo Burney un’originaria collocazione entro un bordello. Se poi Lilitu è davvero (com’è stato tradotto) “la mano di Inanna”, le distinzioni diventano persino più sottili. Quanto alla vecchia idea che Lilith giunga alla cultura ebraica proprio tramite gli esuli a Babilonia — il capitolo 34 del libro di Isaia, come detto recante l’unica citazione biblica diretta, è datato all’epoca postesilica — possiamo nutrire qualche dubbio: è probabile che la diavolessa, o meglio l’ampia e variegata costellazione mitologica in cui la nostra idea di Lilith si radica, scorrazzasse già in tutto il Medio Oriente ben prima della deportazione. Nei fatti, le prime raffigurazioni riferibili alla galassia-Lilith sono piuttosto immagini apotropaiche — a cominciare, se non è un falso, da un certo calco conservato al Museo Nazionale di Aleppo; l’originale, datato al VI-VII secolo a.C. e ufficialmente perduto, sarebbe venuto da Arslan Tash nella Siria nordoccidentale. Il calco mostra iscrizioni contro due demoni-femmina, ritratti uno in forma di sfinge, l’altro di lupa dalla coda di scorpione e con una figuretta (un bimbo, pare) tra le zanne; e la parola spezzata lly- potrebbe indicare la simil-sfinge come una proto-Lilith. La dialettica tra Lilith e Li, Ly, lly- e tutte le varianti attestate quali nomi demoniaci nel mondo antico mediterraneo e vicinorientale risale insomma a ben prima di Fritz Lang. E le raffigurazioni di questi demoni sembrano confermare la parentela tra la costellazione-Lilith e quella di un altro antico babau femmina, Lamia, inizialmente diverso dalla donna-serpente delle storie romantiche fino a Stoker, e vicino piuttosto a sfingi e canidi infernali.
Arriviamo comunque in tal modo al citato passo di Isaia 34, 14, la profezia sulla desolazione di Edom nemica di Israele. Che recita, secondo la traduzione Nuova Riveduta: “Le bestie del deserto vi incontreranno i cani selvatici, le capre selvatiche vi chiameranno le compagne; là Lilit farà la sua abitazione, e vi troverà il suo luogo di riposo”. In altre traduzioni il nome lilìt è oggi spesso ricondotto a significati naturalistici come “civetta”, “gufo selvatico”, “caprimulgo” o in genere “uccello della notte”, ma possiamo non preoccuparci eccessivamente della differenza. Ciò che rileva nel passo di Isaia non è un dato demonologico quanto un’immagine simbolica di desolazione, un’espressione ai limiti del poetico; e del resto la zoologia, in una cultura che ripartisce le specie animali in pure e impure, è in sé evocativa di valori simbolici. Le traduzioni antiche svelano peraltro una storia interessante: a partire da quella in greco dei LXX, che rende il termine singolare lilìt con la parola onokentàuros volta al plurale, cioè “onocentauri”. Anche ciò non è strano, rammentando il rapporto disinvolto tra identità di un singolo demone e gruppo/specie di appartenenza, come Empusa con le Empuse: la lilìt-uccello è erede di schiere di demoni mesopotamici dall’incerta soggettività, si rifrange a sua volta in vaghe nebulose di figli, e comunque nella versione di Isaia rinvenuta tra i rotoli del Mar Morto il termine corrispondente è presente proprio al plurale, liliyyot o liliyyoth. Più intrigante è la traduzione, che mostra il tentativo di adeguare il termine ebraico alle categorie demoniaco/zoologiche del mondo greco: le creature in questione sarebbero insomma centauri il cui torso umano sovrasta un corpo non di cavallo, ma d’asino — eventualmente solo nella coppia di zampe posteriori, a richiamare (correttamente) ancora l’Empusa e tutto un variegato folklore mediterraneo. Creature insomma nel segno della lascivia più sciagurata e miserabile, come ancora le mutazioni in asino narrate da Luciano e Apuleio rimarcheranno in termini indiretti. Del resto anche le “capre selvatiche” della Nuova Riveduta sono in realtà i cosiddetti “pelosi”, i demoni-capri se’irim della schiera di Azazel, in questo contesto essi pure sul filo tra folklore e poesia: e come “satiri” sono resi in varie traduzioni. I LXX traducono però anche se’irim (almeno in questo passo) come “onocentauri”, trasfigurando liberamente un po’ tutte le creature del versetto in chiave demonologica: “s’incontreranno demoni con onocentauri e si chiameranno l’un l’altro; lì si riposeranno gli onocentauri, hanno trovato infatti per loro riposo”. Mentre la Vulgata latina renderà il testo come: “s’incontreranno demoni con onocentauri, e un peloso chiamerà l’altro dove la lamia si è coricata [cubavit, lo stesso verbo alla radice dei termini Incubo e Succubo] e ha trovato per sé riposo” — e sulla sostituzione della lamia a lilìt dovremo tornare.
Nel frattempo si sviluppa un ampio corpo di credenze ebraiche su Lilith, che si guadagna menzioni dirette e anche indirette nei documenti: sembra per esempio di poter identificare in lei la misteriosa “seduttrice” citata nei rotoli del Mar Morto, in un testo connesso al libro biblico di Proverbi. Non semplicemente una prostituta perché la comunità non ne ammette, e del resto dotata di caratteristiche piuttosto particolari, visto che “Una moltitudine di peccati è nelle sue ali” (4Q184). Oltre che a tali appendici — che richiamano le enfatizzate somiglianze con gli uccelli notturni, e secondo il Talmud (Chag. B 16a) accomunano i demoni alle creature angeliche — la predicazione rabbinica attribuisce a Lilith anche lunghi capelli da seduttrice. E tali caratteri permarranno nel tempo, come mostra per esempio una tarda raffigurazione del demone, forse VI secolo d.C., all’interno di una scodella persiana conservata in una collezione privata: al centro di una fitta iscrizione con un testo esorcistico in aramaico, la Nostra appare in forma di donna — beh, più o meno — con lunghi capelli, seni scoperti e in apparenza ali. L’ingenua stilizzazione non nasconde un’aria piuttosto malevola: e non dissimile è un altro bozzetto su scodella, pure con esorcismi in aramaico e datata al VI secolo d.C., conservata stavolta al museo della University of Pennsylvania.
Passano i secoli, e la professionalizzazione infanticida della diavolessa — insignita frattanto del titolo di prima moglie di Adamo — viene spiegata nel contesto di un complicato racconto di ribellione e rancori. Le versioni sono diverse, come diverse suonano le spiegazioni offerte dai demonologi ebrei sulla stessa creazione di Lilith. Qualcuno la immagina precedente a quella di Adamo, e la connette a ordini di creature non umane; mentre altri vedono la proto-coppia creata assieme — Lilith subito dopo Adamo — a partire dalla stessa terra, circonfondendo tale originaria parità dei sessi di una luce un po’ losca. Il fatto è che nel Genesi ci sono due differenti passi sulla creazione della donna, frutto della conservazione di tradizioni diverse — cioè la sacerdotale (1, 27: “Maschio e femmina li creò”, sec. VI a.C.) e la jahwista (2, 18-25, il racconto più noto e intriso di cultura patriarcale, forse sec. X a.C.): e se per l’esegesi moderna ciò non costituisce un problema, l’interprete antico è tentato di risolvere la faccenda come la successione di due eventi. Il che comporta individuare la misteriosa partner che precederebbe Eva, per esserne poi soppiantata senza neppure un versetto di benservito: e la scelta dell’ingombrante Femmina scongiurata sulle culle, nell’ambito della genesi del singolo individuo, permette di risolvere qualche imbarazzo. La tradizione che vede in Lilith la prima sposa di Adamo rimonta almeno all’Othijoth ben Sira, cioè l’Alfabeto di Ben Sira (VIII-X secolo d.C.), il cui spirito generale resta però poco chiaro; comunque il racconto acquisirà notorietà col tempo, in parallelo alle speculazioni sulla Seduttrice ammazzabambini.
Proprio il problematico status genetico di pari del primo passo biblico offre su un piatto d’argento lo spunto per la saga di ribellione di Lilith. Secondo la versione più nota, narrata con una certa ironia nell’Alfabeto di Ben Sira (che in effetti potrebbe avere connotazioni satiriche), il nodo starebbe nell’indisponibilità di lei a stendersi sotto Adamo nell’atto sessuale — dove l’incaponirsi del marito può riflettere una duplicità di implicazioni. Certo, c’è un problema esplicito di supremazia nella coppia: già in antico il ripudio dei culti delle trionfanti Ishtar cananee dell’amore si connette all’affermazione dell’Unico Dio e, in senso derivato, dell’ordine patriarcale dei pastori nomadi a lui devoti. Ma un secondo aspetto interessa più direttamente il nostro tema: e riguarda l’eredità arcaica su fenomeni sessuali nel segno dell’impuro e dell’illecito, in particolare la profanazione del seme. Come la sovrastante Empusa dei sogni bagnati, Lilith è colei che profitta dell’uomo assopito da solo nel letto: come per esempio ricorda il Talmud, “Nessun uomo può dormire solo in una casa; chiunque dorme solo in una casa sarà preso da Lilith” (Shab. 151b). L’opzione di “stare sotto” Lilith rifiutata da Adamo evoca insomma antiche paure, e la posizione di chi si trova a disperdere il seme sotto il demone invisibile — per il pensiero arcaico un fenomeno misterioso e dai risvolti allarmanti anche quando non voluto. Un caposaldo della tradizione cabalistica, lo Zohar, Libro dello Splendore (XIII secolo) conferma che Lilith “vaga di notte in notte, assilla i figli degli uomini e ne provoca la contaminazione” (19b). E il risultato della dispersione del seme sarebbero figli non-nati, dilaganti a livello sottile come larve vampiresche. Per inciso, il termine tardolatino Succubus, Succubo, usato per demoni (non necessariamente malevoli) di aspetto femminile richiama idealmente il sub-cubare, cioè “giacere sotto” in termini apparentemente opposti all’Incubus/Incubo che sovrasterebbe: ma in realtà, anche considerando la connessione con la parola succuba, “prostituta”, dobbiamo non intendere in termini restrittivi il riferimento a una postura nell’atto sessuale.
La citata duplicità d’implicazioni nella scelta di star sopra, che sottolinea inizialmente l’idea della supremazia sessuale, coinvolge comunque Adamo anche sul fronte della dispersione del seme. Il Nostro ormai centotrentenne vede nascere — da Eva — un figlio a sua immagine, secondo la sua somiglianza, Set (Gen. 5, 3): e la notazione permette al pensiero rabbinico di dedurre che in precedenza avesse generato figli non a sua immagine e somiglianza, e che c’entrasse l’altra moglie. Su quando il fattaccio debba collocarsi — se cioè già durante la primissima convivenza, o piuttosto nell’ambito di un estemporaneo rientro di Lilith dopo ribellione e fuga che le permette di cavalcare l’ex-marito, magari dopo un simile servizio allo stesso Caino — le idee possono divergere. Ma il risultato sono comunque spiriti impuri, cioè quei Lilim di cui parla il Talmud (Er. 18b) e che Dio fa morire: donde l’ira della madre che si vendicherebbe sui neonati degli uomini, nell’ambito di una storia molto simile a quelle sulle orchesse greche Lamia e Gellò. Secondo l’Alfabeto di Ben Sira, Lilith stessa — ritrovata sul Mar Rosso da parte degli angeli-investigatori Snvi, Snsvi e Smnglof poco dopo l’abbandono del tetto coniugale — accetta che per punizione Dio stronchi i suoi figli al ritmo di cento per giorno. Dove la sterilità dell’antico demone dei luoghi desolati si declina a livelli diversi: da un lato i figli di Lilith sono non-figli, cioè figli al negativo, frutto di (non-)rapporti, solitudine e impurità/infezione, prole sciamante nel segno della morte; ma d’altro canto Lilith è sterile perché patrona delle morti in culla, capace cioè di isterilire la famiglia privandola dei discendenti. Non mancano peraltro versioni in cui, a differenza delle sorelle di cui diremo, Lilith non può affatto generare prole. Se poi la Nostra si trasferisce con l’Arcidemone Samael (quello spesso identificato nel serpente dell’Eden) nella valle dei Jehannum, la Geenna, ecco che la famiglia è riedificata in versione sovvertita, come di negativo fotografico: e per sottolineare tale opposizione speculare all’altra coppia originaria, il Talmud attribuisce a Samael il nome di Adam-Belial in opposizione all’Adam Kadmon nostro primo antenato.
Secondo l’accordo coi messi celesti, a Lilith dunque viene concessa ogni potestà su tutti i neonati maschi fino alla circoncisione all’ottavo giorno e sulle femmine fino al ventesimo giorno dalla nascita, ma con impegno di risparmiare quelli recanti i nomi o le iniziali di Snvi, Snsvi, and Smnglof: e su tale base le comunità israelite nei secoli inventeranno complicati sistemi di profilassi. Come tracciare sul muro della stanza del neonato un cerchio con le parole: “Adamo ed Eva. Via Lilith” e i nomi o le iniziali dei tre angeli, o preparare opportuni talismani: e a tale proposito, in riferimento proprio all’iconografia, merita menzione un amuleto persiano relativamente tardo, del XVIII o forse XIX secolo, conservato presso il Museo d’Israele a Gerusalemme. Imprigionata dal testo ebraico iscritto sul fondo, con passi biblici e nomi di patriarchi, Lilith vi appare in forma di spettrale bambolotto dai grandi occhi vuoti. La sua sagoma è tutta bordata da una sorta di cresta, a raffigurare in realtà le catene che tramite l’amuleto provvedono a imprigionarla. E infatti sotto ciascuna delle striminzite braccia del demone campeggia l’invocazione: “Stringi Lilith in catene!”; e persino sulla figurina, come a inchiodarla, sono iscritti il nome di Dio e la preghiera che protegga il bambino destinatario. A differenza che nei ritratti delle scodelle, qui la diavolessa è calva, forse a suggerire una privazione di forze o piuttosto — attraverso la vaga forma a bottiglia — un sembiante indefinito e spettrale. Ad accomunare in effetti un po’ tutte queste immagini sono i connotati appena abbozzati, e sfuggenti come si conviene a un demone — ma particolarmente a questa Signora degli Equivoci, via via etichettata con nuove identità. Per inciso, la cover italiana dell’ahimè brutto film The Thirsting (Lilith) dell’esordiente Mark Vadik, USA 2006, che senza alcun nesso col contenuto mostra una figura femminile carica di catene e resta incomprensibile agli spettatori (donde inviperiti commenti sul web) è probabilmente una libera rielaborazione del bozzetto dell’amuleto persiano recuperato su qualche sito.
La Signora degli Equivoci, insomma, strikes again. Anche perché il concetto di Lilith come costellazione di identità non si estingue col mondo antico. Anzi, il rapporto equivoco tra la Lilith di Isaia e la pluralità delle lascive Lilim natichedasino dei traduttori permette di passare dall’evocazione folklorica di un popolatissimo sottomondo demoniaco a un concetto più sottile: quell’imbarazzo cioè verso una realtà inafferrabile e frantumata, dalle misteriose dinamiche, reso poi esplicito nel tema del grumo demoniaco quale Legione, pluralità confusa e deflagrazione d’identità come ribadiranno i Vangeli in un celebre episodio. E persino quando Lilith ha ormai acquisito un profilo preciso tramite una lunga riflessione talmudica e cabalistica, resta qualcosa di quella sfuggente e frantumata natura: a partire dal tema della molteplicità dei nomi segreti di Lilith, forse rivelati da lei stessa al profeta Elia. E di utilissima conoscenza perché permetterebbero di toglierle potere: Abitu, Abizu (l’Abyzou collegato dai Bizantini a Gylou/Gellò, e in relazione con il nostro termine “abisso”), Hakash, Avers Hikpodu, Ayalu, Matrota…
Il passo successivo è però rappresentato dall’accostamento della plurinominata Lilith a sorelle dalle caratteristiche molto simili, e che in qualche modo in lei si riassumerebbero. Se infatti la Nostra è considerata la prima moglie di Samael, nel Medioevo i cabalisti ne registrano altre tre, cioè Naamah, Eisheth Zenunim e Agrat Bat Mahlat — tutte considerate Succubi e madri di demoni, e recuperate da tradizioni di varia antichità. Naamah (o Na’amah, Nahema nell’occultismo moderno — in ebraico “Colei che piace”), è considerata madre della divinazione e definita da Éliphas Lévi regina dei vampiri: avrebbe tendenze molto simili a Lilith — volare con l’oscurità, strozzare neonati, sedurre uomini utilizzandone le polluzioni notturne per concepire legioni di figli demoniaci. Dei quattro angeli della prostituzione, Naamah sarebbe la più sensuale, capace di sedurre mortali, angeli e demoni, e considerata talora madre di Asmodeo; nello Zohar si ricorda anzi qualcuna delle sue malefatte storiche, a partire dai servizietti in coppia con Lilith praticati ad Adamo, durante i centotrent’anni della sua separazione da Eva, e che avrebbero fruttato fiotti di spiriti impuri (3, 76b-77a). Naamah potrebbe poi identificarsi con l’omonima figlia del losco Lamech della stirpe di Caino, sorella del maestro metallurgico Tubal-Cain (Gen. 4, 22): un rapporto incerto che ricondurrebbe a splendori e miserie della civilizzazione e può ricordare quello tra Titani e Titanesse agli albori del mondo egeo. La terza del gruppo è la citata Eisheth Zenunim, che la tradizione cabalistica legata allo Zohar presenta in realtà come la prima delle Succubi; e la quarta Agrat (Agrath, Igrat, Igrath, Iggeret) Bat Mahlat, signora degli incantesimi e pure considerata madre di Asmodeo grazie alla frequentazione del letto di re Davide. Un altro personaggino difficile da trattare, insomma, tanto che per frustrare le sue minacce all’umanità sarebbero occorsi sapienti della levatura di Hanina Ben Dosa e Rabbi Abaye. E nonostante ciò, tra i pericoli legati alla notte — tempo per antonomasia dei demoni — particolarmente gravi restano quelli del mercoledì e del sabato: quando è bene non uscire di casa appunto “perché Agrath, figlia di Mahlath, e diciotto miriadi di angeli devastatori vagano, e ognuno di essi è autorizzato a colpire” (Pes. B 112b). Si noti che il nome, Agrat o Iggeret Bat (cioè appunto figlia di) Mahlat, cela un gioco di parole, visto che agrah è da intendersi come “compenso” e iggeret come “lettera”/“messaggio”, mentre mahathallah significa “inganno”/“illusione”: il risultato è qualcosa come Agrat/Iggeret figlia dell’inganno, o decisamente come il compenso che viene dall’inganno oppure il messaggio dell’illusione. D’altronde Mahlat (o Mahalath) è inteso dai cabalisti come nome proprio della diavolessa madre della Nostra: a richiamare forse le arcaicissime strutture familiari mesopotamiche con demoni figlia e mamma. In ogni caso queste Terribili Femmine sarebbero preposte a quattro luoghi-chiave della Terra, cioè Agrat a Salamanca per la porzione occidentale, Naamah a Damasco per l’orientale, Lilith a Roma per il settentrione (con un asse di riferimento mediterraneo che potrà spiacere ai padani) e Mahlat o il demone-drago Rahab — curiosamente non Eisheth, come ci si aspetterebbe — in Egitto per il meridione. Non manca però, come accennato, chi ritiene le diavolesse del Quartetto semplici manifestazioni o aspetti di Lilith, ancora a evocarne una losca e inafferrabile molteplicità: una perturbante rivelazione con cui dovrà fare i conti lo stesso inquisitore Eymerich del grande, labirintico Rex tremendae maiestatis.
Ma c’è un passo ulteriore: e cioè la convinzione che, in senso proprio, di Lilith ne esista più d’una. Più precisamente due, secondo tradizioni del XIII secolo che distinguerebbero la Lilith “maggiore”, in coppia con Samael signore degli angeli decaduti come Eva con Adamo, da una “minore” compagna del demone Asmodeo, figlia del sovrano Qafsefoni e di Mehetabel figlia di Matred (in conformità del resto con tutta un’evoluzione storica, laddove al Samael/serpente, nemico dei patriarchi camminatori del più arcaico contesto semita, subentra con l’esilio l’Asmodai/Aēma-daēva dei travasi culturali dalla Persia). Viene però da domandarsi se di Lilith non ce ne siano altre, e se per esempio la loro pluralità non c’entri coi sette demoni che possiedono l’evangelica Maria Maddalena prima della sua liberazione. Forse no, ricordando quanto sia tarda l’identificazione del personaggio con la Peccatrice (sulla cui disinvolta mitopoiesi rimando alle provocazioni di Mario Arturo Iannaccone, Maria Maddalena e la dea dell’ombra. La spiritualità della dea, il femminile sacro e l’immaginario contemporaneo, SugarCo 2006). Ma la credenza folklorica che Lilith sia in grado di prendere possesso delle donne penetrando nei loro corpi attraverso gli specchi finisce con lo stabilire un’indefinita pluralità di doppi e rifrazioni. Rivelativa per i sapienti (tutti maschi) di un più generale sospetto di fondo verso l’orizzonte femminile, avvertito come inconosciuto e inconoscibile, legato quasi compulsivamente all’apparenza — della vanità che si specchia, ma anche di un’identità altra che possiede sotto il velo del corpo — e anzi terreno privilegiato dello spossessamento e dell’abbandono agli istinti.
Proprio però da una duplice Lilith e dal rapporto con la rifrazione, per suggestiva coincidenza, parte l’emersione del personaggio all’iconografia moderna e di massa: perché del quadro-varo di tale revival, la Lady Lilith di Rossetti, esistono in realtà due diverse versioni — e in entrambe ci sono specchi. La prima e forse meno nota, 1867 (conservata oggi al Metropolitan Museum di New York), mostra nei panni della Nostra la prosperosa Fanny Cornforth, per l’autore polo ideale d’una carnalità torrida e tutta terrena, almeno quanto Lizzie Siddal lo è di quello opposto dell’angelicità disincarnata e mistica. La Signora Lilith vi appare assisa in un ambiente che gronda sensualità, intenta a pettinarsi i lunghi capelli — simbolo tradizionale di seduttività predatoria — davanti a un piccolo specchio ovale, con aria trasognata; ma nella seconda e celeberrima versione, 1872-73 (Bancroft Collection, Wilmington Society of Fine Arts, Delaware), alle curve della modella originale viene assemblato il viso della più seducente Alexa Wilding. Le due versioni sono molto simili per postura e simbolismo, ed entrambe presentano anche un secondo specchio (su un mobile da toeletta) in cui si rifrange una lussureggiante verzura. Nella seconda versione del quadro, tuttavia, oltre a una corona aggiuntiva di fiori bianchi in grembo, Lilith acquista un’espressione più decisa e autocentrata, meno trasognata e (vedremo in che senso) più crudele.
Lasciandosi alle spalle le delicate fantasie misticheggianti su temi evangelici e medioevali che avevano segnato il decennio precedente, con gli anni Sessanta Rossetti avvia una nuova fase artistica: ed è in questo contesto che irrompe l’idea — o l’ossessione — di una femminilità aggressiva e potente, di cui Lady Lilith rappresenta in fondo l’immagine più emblematica. Il progetto è perseguito fin dal 1863, attingendo alla suggestione mitologica offerta da Goethe in un celebre passo del Faust in cui contrappone la donna-lussuria, appunto Lilith, a Margherita, la donna-amore. Il contesto è quello della Notte di Valpurga: e Mefistofele, dopo aver ammonito Faust a osservar bene la prima moglie di Adamo, lo avverte di guardarsi (tra l’altro) “dai suoi bei capelli” con cui ama accalappiare i giovanotti. Rossetti però riveste l’icona mitica di abiti contemporanei — una “Lilith moderna” la definisce — e la proietta all’orizzonte del suo tempo; ed è evidente come questa straordinaria epifania, che segna una nuova fase nella mitopoiesi del personaggio, attinga con molto libertà al profilo classico della prima sposa di Adamo. Se poi di demone si vuol parlare, il termine va completamente reinterpretato, e ogni elemento — la rivendicazione di poter sovrastare, la ribellione/separazione, il potere sulle polluzioni, la tendenza infanticida — è riletto in senso simbolico.
Si è detto che Lady Lilith cambia radicalmente l’ideale vittoriano di bellezza femminile. Almeno di un tipo di bellezza tutta terrena, che al fisico voluttuoso, al pallore alabastrino, al rosso delle labbra piene, ai capelli ramati — o piuttosto, vedremo, d’oro rosso — accompagna la certezza per l’uomo che la contempli di perdersi fatalmente. Come Rossetti sottolinea peraltro nel sonetto Lady Lilith accostato al quadro, pubblicato nel 1868, e rinominato nel 1881 proprio Body’s Beauty per contrapporlo in dittico all’altra lirica Soul’s Beauty e al quadro Sibylla Palmifera — nell’ambito della classica polarità che rende un po’ schizoide l’immaginario vittoriano sulla donna (e di cui l’Occidente non si è in fondo ancora liberato). Il sonetto evoca una figura seduttivamente streghesca, una sensuale donna-serpente in grado di strangolare l’uomo con le sue chiome — ecco l’eredità dell’accalappiante Lilith goethiana — e oscuramente legata alla Caduta: e il quadro ne riflette in pieno lo spirito. Ovviamente dopo due secoli di donne fatali nella cultura di massa può non essere immediato per noi cogliere la forza provocatoria di questo quadro; e l’uso spregiudicato e sessista dello stereotipo nell’immaginario ci rende — giustamente — prudenti negli entusiasmi. Eppure Lady Lilith è molto più interessante di quanto possa suggerire la collocazione entro il repertorio un po’ scontato delle dark lady su tela.
In effetti si è parlato di paradosso, a proposito di un’icona che rappresenta da un lato un incredibile oggetto voyeuristico, il tripudio di una sessualità aggressiva per fantasie tutte maschili, ma dall’altro e contemporaneamente il ritratto di una donna autonoma e conscia della propria forza. I due tipi di lettura rimandano continuamente, dialetticamente l’uno all’altro — e conducono a un’opposizione più profonda. La languida attenzione della protagonista a se stessa, nel gesto lento del pettinarsi i lunghi capelli davanti allo specchio, eleva infatti alla massima potenza la tendenza preraffaellita a una dinamica asimmetrica degli sguardi — quelli delle figure maschili puntati verso le femminili o verso lo spettatore, mentre gli occhi delle figure femminili sono rivolti altrove, in un negarsi feticistico che richiama la minaccia dell’allontanamento (anche in senso freudiano, dei timori del bambino verso la madre) e insieme eccita l’interesse maschile. Rossetti riesce a suggerire il turbinio di emozioni contrastanti dell’Adamo-spettatore, l’attrazione per il corpo di Lilith che spinge a guardarla, e per contro la ritrosia a incontrare il suo sguardo sprezzante. Ma se di primo acchito la minacciosa superbia della Signora sembra ispirare più timore e dispetto che desiderio nello spettatore maschio, la “strana fascinazione” di lei — come spiega lo stesso Rossetti nel ’70 — piega a un risultato del tutto diverso. Una fascinazione radicata proprio in quell’assoluta concentrazione su se stessa, quell’autoappagamento che taglia fuori qualunque pretesa maschile: Lilith non ha più bisogno di rivendicare una posizione sovrastante che la sua forza basterebbe a riconoscerle, e incarna la separazione da Adamo nel fulgore di una totale autonomia. Ma è proprio il mistero di tale autocontemplazione — irriducibile alla cifra asfittica del narcisismo — che finisce con l’attrarre magneticamente l’osservatore-Adamo all’interno del cerchio del potere di lei. Tagliato fuori da ogni logica di dominio sessuale, in Lady Lilith l’uomo è appiattito come contro il vetro della cornice, a contemplarla come può fare lo specchio inanimato nelle mani di lei, ma con ben diverso timore e desiderio. Fino all’eccitazione, e la Signora delle polluzioni può rivendicare il suo ruolo mitico; mentre l’incarnazione di una sessualità non riproduttiva e non materna rilegge radicalmente la categoria dell’Infanticida.
Del resto il morbido vestito bianco da cui le forme generose e tanto femminili di Lilith tendono a sfuggire, rivelando il candore delle spalle, il rilievo della clavicola e le curve dei seni, è una camicia da notte: qualcosa insomma di ben diverso dai rispettabili, costrittivi e simbolicissimi corsetti della donna vittoriana. A suggerire clamorosamente una mancanza di costrizioni e inibizioni, e una scoperta sessualità sconvolgente per l’epoca. La stessa libertà dei capelli, sciolti e fluenti, simbolizza una dimensione di vita cui Rossetti guarda affascinato, e che riconosce forte del potere dell’eros carnale.
Interessante e rivelativo è poi il simbolismo floreale: che, quasi irrompendo dal bosco/giardino intravisto nello specchio sul fondo, tripudia e freme attorno alla femme fatale, con le rose bianche delle passioni sterili e (in basso a destra) il papavero del più torpido assoggettamento oppiaceo. Dove la verzura intravista nello specchio può essere l’Eden, colto in rifrazione come dietro lo spettatore-Adamo: col risultato però che questi, voltate le spalle al Giardino, lo intravede lontano e solo nello specchio di Lilith, al di là di uno straniante sistema di cornici. La Caduta, insomma, è già qui rappresentata, insieme forse alla difficoltà per l’uomo moderno di cogliere la natura del relativo dramma. Ma il senso di quello scorcio riflesso di bosco può rappresentare invece (o contemporaneamente, perché ci muoviamo sul fluidissimo fronte del simbolo) l’irrompere della Natura — sensi compresi — nello spazio chiuso della camera da letto in cui Lilith si autocontempla. La critica ha del resto rimarcato l’ambiguità di questo boudoir che ricorda una scena privatissima da interno e contemporaneamente un esterno aperto alla selva, in una dialettica tra giardino conchiuso da spiare e spalancarsi di una Natura di istinti e pulsioni: più che di scena reale, del resto, si tratta di uno spazio interiore e simbolico.
Ma a questo punto ci rendiamo conto che il nostro è lo sguardo rubato dell’Adamo-osservatore, un voyeur che spia nello spazio (virtualmente) privato di Lilith. Che in teoria, assorta nei suoi pensieri, non si accorge di essere spiata; ma Rossetti fa in modo di suggerire che lo metta in conto. Si è parlato, in rapporto a Lady Lilith, di Bellezza come Potere, a partire da quello esercitato sugli Adami che spiano; e in effetti la disinvoltura dei gesti della dama svela una serena fiducia nella propria forza. Ma di quella forza, sembra dire Rossetti, la sconcertante potenza seduttiva e la persino più sconcertante autonomia rappresentano i due volti, strettamente legati: e la figura che li incarna, terribile come le forze della Natura o le Dee, è un polo mitico che sfugge a banalizzazioni e demonizzazioni facili. Bellezza come Potere, dunque, in riferimento a quello che la donna (vittoriana, ma non solo) può esercitare sull’uomo; ma anche e più radicalmente come sguardo simbolico su ciò che la donna è in potenza, in termini di forza e pienezza psicologica.
Una notazione a parte meritano poi le lunghe chiome ramate che rappresentano il punto focale del quadro. Si è parlato di un Cult of Red Hair del mondo preraffaelita, che celebra spesso questa caratteristica delle proprie modelle-dive: ma va osservato che Rossetti, a proposito della figura ritratta, parla propriamente di “capelli d’oro” (golden hair), aggiungendo nella lirica accostata “And her enchanted hair was the first gold”. A evocare attraverso l’associazione tra colore e metallo una forma di scintillante regalità: e la torpida e autoconcentrata cura a tale feticcio dell’energia sessuale della Lady, della sua seduttività e sovrana indipendenza, rappresenta una sorta di sintesi teatrale del dittico Bellezza/Potere. Ma quell’oro rosseggiante colto come da un voyeur straborderà nell’immaginario anche al di fuori degli atelier preraffaelliti, e le sue tracce possono riemergere in sedi inaspettate. Per esempio un altro sguardo voyeuristico, quello di Jonathan Harker a occhi semichiusi in una già citata scena di Dracula, coglierà una vampira “fair, as fair as can be, with great wavy masses of golden hair”, cioè “bionda, bionda quanto lo si può essere, con una grande chioma di capelli color oro” (così la traduzione ultima apparsa, ottimamente curata da Luigi Lunari, Feltrinelli 2011), ed è questa scintillante fantasima che si accinge a sedurlo in una stanza oniricamente equivoca come quella di Lady Lilith. Harker aggiunge anzi che gli “sembrava in qualche modo di conoscere quel viso, e di poterlo associare a qualche sogno pauroso; ma al momento non riuscivo a ricordare il come e il dove”. Oggi sappiamo che nel corso di alcuni capitoli iniziali poi stralciati Harker incontrava una non-morta, ed è quel personaggio ch’egli rammenta: ma tra le ipotesi sollevate dai critici quando ancora le note preparatorie al romanzo non erano riemerse, c’era quella ch’egli stia ritrovando il sembiante di qualche dark lady della mitologia, per esempio Lilith. A parte che il riferimento a un ricordo sfuggente, un conosciuto/non riconosciuto dalle forti implicazioni erotiche nel segno del Perturbante si adatta perfettamente alla prima donna rimossa dell’umanità, il Dracula infettivo con tre spose vampire rispecchia in modo piuttosto calzante il Samael veleno di Dio sposo di Lilith e d’altre tre Succubi. Se Lady Lilith appare decisamente più carismatica e autonoma dell’omologa del Castello Dracula, e d’altra parte il colore dei capelli attribuito alla vampira può essere più chiaro del ramato di Rossetti, va detto che il citato fair si contrappone al dark delle altre due vampire descritte da Harker/Stoker: per cui ciò che emerge è soprattutto un colpo d’occhio a palpebre semiabbassate, e un richiamo almeno indiretto al quadro in questione pare senz’altro possibile.
D’altra parte quest’oro che in realtà descriveremmo come rosso chiama in questione un altro personaggio di terribile seduttrice legata alla Bibbia, cioè la Donna Scarlatta dell’Apocalisse: e proprio lei, a distanza di qualche decennio dalla sconvolgente apparizione del quadro di Rossetti, sarà ravvisata ipostaticamente in varie donne della cerchia di Aleister Crowley. Che a Lilith mostra simpatia e attenzione nel corso di un po’ tutto il suo cammino di mago (al punto da chiamare la prima figlia, con scelta un tantino ridondante, Nuit Ma Ahathoor Hecate Sappho Jezebel Lilith); e che comunque da un simile modello di dominatrix sarà sempre affascinato. L’ideale di femminilità di Crowley è “un’autentica prostituta” — come per esempio definisce con entusiasmo tale Helene Hollis nelle proprie Confessions — e il suo archetipo di bellezza prevede, guarda caso, i capelli rossi e i tratti duri di Lady Lilith. Se il discorso non si consuma a livello di pura ispirazione artistica, è possibile che l’influsso preraffaellita abbia giocato nell’immaginario di Crowley un ruolo maggiore di quanto spesso notato.
In ogni caso Lady Lilith spalanca le porte dell’immaginario collettivo, e le divagazioni artistiche sul personaggio presto brulicano, in Inghilterra e all’estero — tanto da rendere la prima moglie di Adamo una della mattatrici assolute del Simbolismo. Lo stesso Rossetti prosegue la riflessione sul tema nella ballata Eden Bower, 1869, che più tardi ispirerà il famoso quadro di John Collier, Lilith, 1887: vi troviamo la Nostra, nuda, amoreggiare con aria beata insieme al serpentone samaelico, in un bozzetto tra lo gnostico e il circense. Nel frattempo Robert Browning, nella lirica Adam, Lilith, and Eve, 1883, ha mostrato le due donne confrontare i propri diversissimi sentimenti per il compagno, che Lilith a differenza di Eva ha sempre amato; mentre oltre la Manica Victor Hugo ne ha offerto una versione niente affatto tranquillizzante in La Fin de Satan, 1886. Meno tossico — e anzi al di là del bene e del male, perché non coinvolto nella Caduta — è il personaggio che appare in La Fille de Lilith di Anatole France, 1889: nel recupero di tutta una mitopoiesi sulla famiglia demoniaca la protagonista è appunto Leila, figlia di Lilith. Del 1892 è il cinico dramma erotico Lilith di Remy de Gourmont, e lo stesso anno il dipinto omonimo di Kenyon Cox vede (nella parte superiore) la Primadonna intenta a sbaciucchiare nuda il solito serpente; seguono il romanzo fantastico-allegorico Lilith di George MacDonald, 1895, e il racconto Lilith di Henry Harland, che con la sua storia visionaria su una statua della diavolessa potrebbe, chissà, aver ispirato Lang. Il nuovo secolo vede proporre vari testi per il teatro — Der Heilige und die Tiere di Victor Widmann, 1905, Lilith: A Dramatic Poem di George Sterling, 1919, Back to Methuselah di George Bernard Shaw, 1922 —, i poemi Die Kinder der Lilith di Isolde Kurz, 1908, e The Avenging Spirit di Arthur Symons, 1920, il citato film del ’19 e via via una serie di altre opere. Che si rarefanno, è vero, nei decenni a metà del Novecento, per poi riprendere trionfalmente con la Grande Contestazione e la rivoluzione sessuale, e più tardi con il revival gotico. La terribile Lilith alata di Giger — “la parte negativa di Eva”, la definisce nel sito ufficiale — è in questo senso solo una tra le molte icone della Nostra nell’arte contemporanea.
Il fatto è che Lilith, a dispetto dell’origine non proprio esaltante come vento malsano, gronda ormai simboli importanti e riesce a veicolare suggestioni e messaggi diversissimi. Ancor oggi per esempio, nella riflessione cabalistica sui Qliphoth o “gusci” del male articolati in un Albero della Morte opposto a quello della Vita, Lilith Regina della notte e dei demoni reggerebbe l’ambito della Geenna che si contrappone a Malkuth: e assolverebbe insomma nel mondo delle tenebre a una funzione omologa, ma negativa, a quella della Shekhina, la Presenza divina, nel mondo della Santità. Da un altro punto di vista è stata interpretata simbolicamente come dea dello spreco, incarnazione di un’assenza di senso del sesso e marcatore di differenza tra eros sacrale ed eros riproduttivo. Ancora diversa è la lettura dei movimenti di emancipazione femminile, da cui il moltiplicarsi di siti (spesso con eccellente documentazione) sulla carriera della Prima Ribelle. Del resto associata alla Luna Nera, nelle più diverse accezioni simboliche — come ricorda per esempio Roberto Sicuteri nello studio (appunto) Lilith la Luna Nera, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1980; e non manca neppure chi individua, da un’ottica criminologica, una “sindrome di Lilith/Eva”. E in tutto questo fiorire di letture, a fianco della proclamazione di simboli soggetti a lunghe ruminazioni collettive, precipitano anche suggestioni inconsce, fascinazioni soggette ad autocensure e germinanti come in sottotesto, e persino casuali provocazioni semantiche. Come quella che, in beffarda assonanza col nome dell’Arciseduttrice, consacra nel linguaggio corrente il giglio/lilium quale icona di purezza e castità: la fanciulla pura come un giglio — o, se preferiamo, la fanciulla-lilium, da una lingua all’altra Lilika, Lil, Lili, Lily, Lila, Lilia… — che affiorerà anche nella Ly di Lang. Lilith è la sua Ombra, con tutte le implicazioni connesse a livello psicologico e simbolico: ma il fatto che a dar vita alla Dissanguatrice, grazie a un tecnocrate, sia il ritratto/feticcio della donna-lilium — i valori fatti statue da contemplazione collettiva, le proclamazioni di creta che finiscono col testimoniare tutto il contrario — risulta intrigante anche come metafora sociale e politica. Se la scomparsa del film del ’19 pare adeguata alla natura sfuggente della vilain, idealmente la favola di Ly e Lilith non ha mai smesso di scorrere nella sala buia dello schermo d’Occidente.
Nella sua radicale equivocità e pluralità di volti, la costellazione-Lilith interpella fortemente l’Adamo collettivo attraverso convinzioni diffuse e risposte comunitarie alle paure: morbi misteriosi, ombre della notte e dei luoghi deserti, effetti della dispersione del seme, sovversione sessuale. Timori impregnati della vita personale e sociale, dei desideri e sensi di colpa, delle rimozioni più o meno imbarazzate; timori che emergono dagli angoli bui dell’identità e della vita (pregiudizi compresi) come immaginata e magari sognata. Trasfuga imbarazzante del Giardino originario, o piuttosto puro frutto dell’alienazione di Eva ed Adamo, da loro proiettata per spiegare tentazioni e crisi incomprese, la Visitatrice equivoca non poteva che rivelare alla fine anche aspetti positivi.
Torniamo però al quadro dell’Eden: dove si ritiene a un certo punto di identificare nel serpente non Samael (come sospettato dai rabbini) ma la stessa Lilith, a inevitabile conseguenza di tutto uno sviluppo ginofobico occidentale. Quando dunque nell’arte medioevale e rinascimentale troviamo il serpente dell’Eden dotato di testa e talora braccia e seni femminili (celebre è l’immagine della tentazione di Adamo ed Eva dipinta da Michelangelo) avremmo buoni motivi per ravvisarvi la Nostra. E in questo quadro, il Giardino del Male dipinto da Stoker può ben vedere Adam e la sua compagna insidiati dal serpente antico in vesti da cocotte.
[Continua –]
Di qui alle precedenti puntate: Il Giardino del Male, Il ritorno delle Dee, Un trivio a Piccadilly