di Carlo Loiodice
Caro Finardi, ti scrivo perché il 1° maggio, al Concertone di piazza San Giovanni, mi hai suscitato impressioni ed emozioni negative. Non quando hai cantato «Amo la radio» o «Extraterrestre». Quelli sono pezzi che ti hanno meritato un posto di riguardo nella storia della canzone d’autore; posto che nessuno ti può togliere. Ma quando hai fatto la marchetta dell’inno… Parola forte, «marchetta», utile però a sottolineare un modo di fare, un comportamento degli artisti e dei pensatori italiani, che certe volte sembrano incapaci di esprimere autonomamente un pensiero e si mettono al rimorchio delle circostanze facendosi dettare l’agenda.
Avresti mai sventolato il Tricolore nella Milano degli anni ’70? Allora quel simbolo era in mano alle destre, e nemmeno si capisce tanto il perché, visto che la storia di quel vessillo si lega piuttosto alla rivoluzione che alla reazione. Allora, quando si pensava e si parlava in nome dell’unità, s’intendeva unità antifascista, che non era la stessa cosa che unità nazionale. Poi vennero gli anni di piombo, gli anni di Reagan-Thatcher-Craxi, gli anni della «Fine della storia». E per ogni fase, un senso diverso del concetto di unità. Fu il presidente Ciampi a rilanciare, un po’ mielosamente, i temi nazionali in chiave risorgimentale, mentre l’allora presidente della Camera Luciano Violante tendeva la mano ai vinti di Salò. Furono anche gli anni della polemica giornalistica sui calciatori della nazionale che mostravano di non conoscere le parole dell’inno di Mameli, mentre Elio a Sanremo fotografava l’Italia cantando: «Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi; tanta voglia di ricominciare abusiva».
Geniale Elio! Perché non tentare di leggere in questa chiave l’imprevista e poco spiegabile rentrée del patriottismo nel pensiero e negli affetti dei nostri connazionali? E se fosse tutto abusivo? Anche la voglia di ricominciare? Pensieri simili mi vennero con Benigni quando a Sarremo chiosò e cantò «Fratelli d’Italia», rileggendo il titanismo romantico di Goffredo Mameli in chiave buonista veltroniana. Ma ancor più mi preme dichiarare il mio dissenso, ora che ho sentito la tua interpretazione dell’inno. Intendiamoci: se Mameli e Novaro (autore della musica) avessero avuto a disposizione delle Fender e dei Marshal da sparare a manetta, credo che li avrebbero usati. E si rifletta sul verbo sparare…
Ma, a parte ogni discorso che può venir fuori dall’analisi testuale di «Fratelli d’Italia» o dalla sua comparazione con altri inni nazionali — vedi qui – c’è un elemento imprescindibile, un punto di non ritorno che separa noi contemporanei dai protagonisti di quella frastagliata esperienza che chiamiamo Risorgimento. Questo punto si chiama «Never more» (mai più), ossia la promessa che gli uomini si fecero al termine della seconda guerra mondiale, quando si resero conto delle conseguenze tragiche implicite nel teorizzare la violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti territoriali e sociali. Da quando l’Italia ha messo il ripudio della guerra nella sua Costituzione, manipoli, centurie e coorti sono anticostituzionali, o per meglio dire, pre-costituzionali.
Caro Finardi, ti rendevi conto mentre cantavi di cosa stavi dicendo? Sei proprio convinto che il nostro modello per risollevarci in futuro dalla palude in cui siamo ricaduti siano l’antica Roma e l’elmo di Scipione? L’imperialismo? Non ti veniva da ridere? E quando hai urlato «Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte» con un acuto rauco e grintoso degno del miglior Pappalardo, non ti sentivi più vicino a uno jihadista che, poniamo, ai fratelli Rosselli? Ne ho parlato già con qualcuno e l’obiezione è stata che le parole vanno ricontestualizzate: anche la Marsigliese — mi è stato detto – è violenta e truce! Ma la violenza contenuta nell’inno francese — replico io – è diretta contro un obiettivo che ancor oggi noi vediamo e combattiamo: la tirannia. Per contro, nell’inno di Mameli non sono espressi altri contenuti che non siano l’ingiustamente mortificata gloria nazionale e l’odio per l’oppressore straniero.
«Son giunchi che piegano / Le spade vendute / Già l’Aquila d’Austria / Le penne ha perdute / Il sangue d’Italia / E il sangue polacco / Bevé col cosacco / Ma il cor le bruciò».
Conosci? E’ l’ultima strofa, quella che non si canta mai; un po’ per la difficoltà della memoria comune di ritenere cinque strofe, un po’ perché dopo tutto è meglio così… Appena sarai in sala prove, vedi se ti riesce di cantarla con le chitarre elettriche!
La sai una cosa? Gli spagnoli hanno un inno come tutti. Ma siccome le vecchie parole non sono più condivisibili e un nuovo testo stenta a venire avanti, anche a causa del plurilinguismo che caratterizza la Spagna di oggi, loro l’inno lo fanno eseguire in versione soltanto strumentale. Non so se sia la soluzione, ma di sicuro la musica dura nel tempo molto più di un testo datato (vedi l’inno degli Stati Uniti suonato a Woodstock da Jimmi Hendrix). Per contro, non sono così sicuro che un testo aderente alla situazione attuale si presti alle funzioni celebrative che pur un inno deve avere. E’ il caso di «Viva L’Italia» del tuo concorrente De Gregori, che parla de ««l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, / l’Italia metà giardino e metà galera…» E che conclude: «l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, / viva l’Italia, l’Italia che resiste.».
Guarda caso, De Gregori non canta incazzato come potrebbe fare un rocker; ma quel testo potrebbe autorizzare anche un’interpretazione grintosa. Perché, quando si canta, c’è anche questo problema: l’anima che ci metti. Una serenata sortisce il suo effetto se trasmette amore, eros o qualcosa del genere. Un canto di lotta è bello quando scalda il cuore. Di sicuro «Fratelli d’Italia» scaldava i cuori dei combattenti del 1848; quelli che si strinsero «a coorte» sui campi di battaglia da cui vennero via con le pive nel sacco, quando non coi piedi avanti. Ma nella seconda metà dell’Ottocento, furono proprio uomini come Crispi o Nicotera, plasmati sui temi di quel canto, ad animare l’espansione imperiale della nazione con il suo triste epilogo nella battaglia di Adua. Ovvio. Loro avevano combattuto contro il giogo straniero, non contro il giogo della tirannia in generale né tanto meno contro il giogo dell’oppressione economica capitalista.
Caro Finardi, tu sembravi contento di cantare quelle cose. Ma in realtà io so che non te ne fregava niente. A te piaceva, credo, l’occasione che ai musicisti talvolta si presenta di rivisitare un brano in altra chiave: una vecchia canzone napoletana in versione terzinata («Voce ‘e notte» di Peppino Di Capri), un vecchio blues riarrangiato in salsa britannica (The house of the rising sun, degli Animals), grandi successi del passato in versione disco… E allora, perché no «Fratelli d’Italia» sulla falsariga di «Whatever you want»? Nessuna ragione preconcetta. Solo che l’operazione non mi sembra riuscita. Prova a cantarla sull’aria di «Sapore di sale». L’idea non è mia, e nemmeno nuova. Ti sganascerai dal ridere e l’inattualità del testo risulterà in tutta la sua evidenza. E penserai che, a confronto, persino l’«Italiano vero» di Toto Cutugno “fa la sua porca figura”.