di Davide Grasso
L’Empire State Building, risalente al 1931, è il grattacielo più alto di New York da quando sono crollate le Twin Towers. Da vicino non sembra altissimo, appare piuttosto come una massa imponente, la notte illuminata di blu, che incombe sugli altri tetti; ma da lontano, dal New Jersey ad esempio, si apprezza la sua maggiore altezza rispetto ai vicini. Nell’agosto 2010 la città ha ufficialmente approvato il progetto della Vornado Realty Trust di far costruire un altro, altissimo grattacielo, progettato dallo studio Pelli Clark Pelli, di fronte a Pennsylvania Station, a pochi isolati dall’Empire; si chiamerà 15 Penn Plaza e sarà di pochi metri più basso del vecchio vicino. In verità, visto che l’Empire culmina in una specie di lunga antenna, è probabile che il nuovo edificio dia l’impressione di essere altrettanto alto. I proprietari dell’Empire hanno protestato, insinuando la polemica sulla conservazione storico-estetica del paesaggio urbano là dove pochi se la sarebbero aspettata, ossia nel tempio della dissacrazione moderna: la loro idea (ovviamente strumentale ai loro interessi) è che così si rovini lo skyline di New York, il colpo d’occhio che è l’“istantanea” del Novecento. Formale richiesta è stata inoltrata alla città: quindici isolati di zona cuscinetto attorno al vecchio grattacielo, affinché il suo valore “iconico” non venga compromesso. Pretesa curiosa in una città che, se ha un’identità architettonica, l’ha grazie alla furia progettuale e al delirio di una bellezza spiazzante, nuova e terrificante: forme, materiali e funzioni del capitalismo extra-europeo.
Costruire, costruire, costruire — senza riguardo per le preesistenze. È questo imperativo, mosso dal profitto, che ha reso possibile la bellezza sofisticata, certo non apprezzabile da tutti, della foresta di vetro e acciaio; e più ancora che nell’insieme, questa bellezza si rivela nei particolari — milioni, miliardi — da scoprire ogni giorno. Un nuovo grattacielo, progettato dall’architetto Frank Ghery, è stato in questi giorni inaugurato a Manhattan. Alto 76 piani, anche se non è ancora del tutto abitabile, ha già incassato contratti d’affitto per duecento dei suoi appartamenti (dai 5.000 ai 15.000 dollari al mese). Sarà l’edificio abitativo più grande di tutti gli Stati Uniti. Alto, slanciato, dalla forma così sinuosa e inusuale da sfiorare l’illusione ottica, si staglia nella parte più meridionale dell’isola, a pochi passi dal sito dove sorgevano le Twin Towers; e, manco a dirlo, già si parla di “rinascita di New York”, a dieci anni dal grande attentato e a tre dalla crisi finanziaria che ha messo in ginocchio Wall Street, pochi isolati lontano. Ed è così che, invece, l’istantanea e la selva dei grattacieli consegnano, più di ogni altra cosa, New York alla storia.
Le facciate del nuovo grattacielo, come quelle di molti altri presenti sull’isola, sono completamente metalliche. Vetro e acciaio sono i materiali della modernità: è anzitutto grazie allo scarto percettivo che questi ultimi hanno prodotto rispetto alla pietra, al marmo e al mattone, che il moderno ha acquisito, ed esibito, la sua identità stilistica nel senso più lato. La verticalità e lo slancio temerario, in secondo luogo: era dai tempi del gotico che l’Europa non osava l’anelito al blu del cielo, ormai vuoto del Dio passato, che forza gli abitanti ad alzare il mento, facendoli sentire piccoli e insignificanti perché immersi — contrariamente a ciò che accadeva con le grandiosità naturali immaginate dal sublime settecentesco — in ciò che loro stessi, o i loro simili, hanno creato. Leggerezza, sinuosità, senso di spaesamento: questi mostri si rendono protagonisti di strane prospettive geometriche, che possono rendersi più folli o più controllate a seconda dell’angolo di metropoli da cui sono osservate. Possono creare il senso di un’imminente caduta, improbabili nelle loro forme e complessi nella loro statica, in un’involontaria citazione della condizione post-romana e pre-romanica dell’architettura, nei secoli poco bui e molto sperimentali dell’alto medioevo, dove si era tornati, proprio come in età moderna, alla pratica scandalosa, e allora in parte involontaria, dell’instabilità ottica e dell’asimettria.
Quali gli scorci, quali le prospettive che vorremmo rivedere adesso, che vorremmo conservare per sempre nella memoria, nella visuale? La forma improbabile, ma presto familiare, del Flattiron Building, sinonimo anche di squisiti Hamburger all’aperto (e in mezzo ai topi!) da Shake Shack, e oggi ancor più associata all’affollatissimo ristorante Eataly che gli sta di fronte, o lo splendido vertice del Chrysler, testimone della capacità dell’architettura di derivazione europea, dopo secoli di fatica espressiva, di inventare stili decorativi che non fossero ripetizioni di forme tradotte del passato? Preferiremo girovagare nel tessuto morfologicamente caotico di Lower Manhattan, dove non mancheranno, accanto alle silouhettes più audaci, bizzarri edifici a forma di campanile, o sulla passeggiata sopraelevata di Chelsea, dove un tempo scorreva la metropolitana, lasciandoci meravigliare dai colori e dalle forme di edifici sorprendenti o strambi che forse, altrimenti, non noteremmo neanche? Il vertice è, in realtà, l’ingresso a Midtown da Central Park. Dopo una passeggiata ai laghetti si scorre dolcemente attraverso il grande prato, fino al confine meridionale del parco e, superata una 58sima strada ridondante di carri e cavalli, affitta-biciclette e venditori di quadri, si giunge all’immersione rapida nella giungla estetica della Sesta Avenue. Inizialmente, il contorno sarà lievemente oppressivo, apparentemente accettabile; qualcosa che, in forma forse attenuata, potremmo sperimentare in qualsiasi metropoli moderna. Sarà dopo qualche isolato che cominceranno a stagliarsi i grandi edifici sulla nostra destra, parallelepipedi massicci e spietati, seriali, uno ad ogni blocco, uno dopo ogni strada e, dopo alcuni metri, inizierà il contrappunto alla nostra sinistra. Sarà come udire una musica che soltanto voi udite, nell’incedere caotico del traffico e del business tutto attorno, e delle migliaia di newyorkesi intenti a spendere il proprio tempo per guadagnare denaro, tra chi vende hot-dog e chi si vende per un hot-dog.
I grattacieli più famosi del mondo, quelli che per primi hanno svettato in tale altezza, bellezza e quantità su questo pianeta si guardano però anche, e piuttosto tipicamente, da lontano. Prospettiva 1: da Brooklyn; ponte alla vostra sinistra, o sotto i vostri piedi, immane groviglio di pareti altissime che incombono con crescente minaccia mano a mano che li approssimate camminando. (E vi chiederete: che ci sarà, lì in mezzo?) Oppure camminando sul ponte, di giorno, direzione Brooklyn, da Manhattan, e la prima volta guarderete giù, sulla destra, e vedrete aprirsi la voragine di metallo pesante, ma convessa, di una grandezza e di un peso che vi sembrerà di vedere una cascata solida, spaventosa, in procinto di crollare in mare; e vedrete pure i gabbiani volarle attorno! Quando ho avuto la prima volta questa visione, in inverno, sono scoppiato in un riso isterico: ho sentito di essere nel luogo più emozionante del mondo. Prospettiva 2: dal New Jersey; tramonto che scende sullo skyline dei sogni. Una newyorkese, magari, non mancherà di deridere i vicini dello stato accanto: “New York è più cool del New Jersey, ma è pur vero che dal New Jersey si vede New York, mentre da New York è proprio il New Jersey che vedi…”.
In ogni caso, la meraviglia di questo skyline è anzitutto nella sempiterna possibilità della sua distruzione e trasformazione, nella sua indifferenza a qualsiasi precettistica astratta sulla storia, sulla conservazione, persino sulla bellezza; qui non ci sono icone, in verità, e la bellezza, qui, è imparentata con la perfidia. Perché la modernità, iniziata di recente ed oggi in via di barbarica intensificazione, è anzitutto ribellione contro la storia, contro ogni sorta di eredità. I tradizionalisti di ogni risma si sentono al tempo stesso perduti e intrigati tra le forme, oppressive e liberatorie insieme, di questa sfolgorante collezione di architetture diverse che il moderno è ed è sempre stato: è la società del nuovo, sempre e rigorosamente fasullo, sempre e soltanto promesso, ma luccicante come le migliaia finestre che compongono pareti piane, lucide ed immense in una bella giornata di sole, riflettendo la vanità degli edifici vicini. Qui si passeggia, salvi dalle vestigia dell’arte e dai musei, dalla narrazione identica dell’identico, ingombrante lascito europeo, troppo presi, come si è, a sondare il terribile quesito: che dobbiamo farne di questa promessa? A chi è rivolta, da chi è stata formulata? Qui si condensano i mille desideri inconfessabili di coloro — ancora troppo pochi, forse — che hanno maturato un distacco rabbioso dalle mille forme che assume l’educazione, a partire dal disciplinamento estetico che ci forgia dagli innocenti anni della scuola. Qui si sogna cosa fare di tutto questo potenziale, di questa magia laica, di questa violenza dolce, che vorremmo veder realizzata così, certo, fuori dalle mura diroccate della cultura europea, ma anche fuori da quelle esplosive del costruito urbano. Un giorno, forse, accadrà: nelle strade, nei piaceri, nella vita stessa…