di Raul Schenardi
Julio R. Ribeyro, I genietti della domenica, Roma, La nuova frontiera, 2011, pp. 256, € 16,50.
31 dicembre 1951: in uno studio legale di Lima, Ludo Totem lancia un urlo straziante, dopodiché straccia un’istanza di pignoramento e scrive la sua lettera di dimissioni. Con i soldi della liquidazione si appresta a festeggiare con gli amici l’inizio dell’anno nuovo e forse di una nuova vita. La prospettiva è quella di un’orgia, ma rimorchiano solo due meticce, una delle quali oltretutto è una specie di nana con le mutande sporche. Mentre scoppiano i mortaretti che annunciano la mezzanotte, Ludo vomita l’intruglio di pisco e Cinzano che ha ingurgitato.
Così inizia I genietti della domenica di Julio Ramón Ribeyro (La Nuova Frontiera, tr. di N. Santoni), romanzo dello scrittore peruviano unanimemente considerato dalla critica fra i migliori autori latinoamericani di racconti. Ma fu proprio la sua predilezione per la narrativa breve a impedirgli di figurare nella rosa dei nomi del boom degli anni Sessanta e di unirsi al manipolo di scrittori che sarebbero riusciti a vivere del mestiere.
Malgrado le raccomandazioni di Vargas Llosa e Bryce Echenique, infatti, Carlos Barral, l’editore spagnolo che mise per primo le mani su quella miniera d’oro, si rifiutava di pubblicare racconti.
Del resto Ribeyro, personaggio schivo, refrattario alle interviste e forse incerto sul valore della sua narrativa, è complice del silenzio sceso per molti anni sulla sua opera. “Discreto, timido, laborioso, onesto, esemplare, marginale, intimista, lucido: ecco alcuni degli aggettivi che mi sono stati attribuiti dai critici. Nessuno mi ha mai chiamato grande scrittore. Perché sicuramente non lo sono.” Si definiva uno “scrittore di frammenti”, e in effetti tutti i capitoli di I genietti della domenica, dal finale aperto o chiuso, presentano una struttura autonoma e sgranano una serie di episodi nei quali, oltre agli amici di bevute con i quali il protagonista condivide un progetto di rivista letteraria, sfilano i quartieri e alcuni luoghi emblematici della città di Lima, investita in quegli anni da vertiginosi processi di inurbamento e modernizzazione.
Ludo frequenta l’Università cattolica, privata ed elitaria, ma non ha nulla dell’arrampicatore sociale e al matrimonio di una zia che frequenta la bella società finisce per mangiare in cucina insieme alla servitù. La sua famiglia è decaduta, tanto da dover affittare delle stanze, il fratello passa le giornate in casa aspettando gli amici per giocare a scacchi, e Ludo deve cercarsi un altro lavoro. Ci prova battendo le strade alla ricerca di clienti per un avvocato, e sono le pagine in cui fanno capolino suggestioni kafkiane: “…burocrati incalliti che non gli rispondevano, sottocapi in pantofole, occhiali sparpagliati ovunque, calvizie, maniche rimboccate, dattilografi con la visiera, code, sportelli di accoglienza, carte, ancora carte e, in ogni dove, onnipresente come Dio, ma visibile, il moto del Ministero delle Finanze: “Pagare e solo dopo reclamare”. (Ribeyro condividerà con Kafka il destino dell’incomprensione degli aspetti umoristici della propria opera: “c’è un aspetto dei miei racconti, dei miei libri, che non viene quasi mai colto dai critici, ed è lo humour. Tutti mi considerano uno scrittore cupo, scettico, tragico, cioè pessimista, ma io credo che ci siano cose piuttosto divertenti. Io mi diverto molto quando scrivo”. Altri nomi a cui è stato accostato: Camus e Onetti.)
Ludo tenta allora la vendita porta a porta di un insetticida, e insieme all’inseparabile Pirulo in un momento di disperazione visita il Colegio Mariano, dove aveva studiato, per scoprire che non è cambiato niente: il direttore non ha perso la ripugnante abitudine di fare palline di caccole per spararle contro l’interlocutore, e la sua sottana è sempre cosparsa di forfora.
Ma la discesa di Ludo nei bassifondi di Lima, la breve love-story con una prostituta, gli spiacevoli incontri con il magnaccia, e l’apparizione di una vecchia Colt ritrovata in un cassetto fanno presagire che I genietti della domenica non è solo il racconto picaresco, spassoso, in gran parte autobiografico, delle avventure di un giovane bohémien senza futuro. L’accelerazione impressa da alcuni avvenimenti drammatici — l’uccisione del padre di Pirulo, il pestaggio di un marinaio americano, la rovina economica della famiglia, convinta da un cognato a disastrosi investimenti — fa dei Genietti della domenica (un altro titolo pensato dall’autore: I giorni avariati) un romanzo a tutto tondo, a cui non mancano né elementi di analisi sociale né spessore psicologico dei personaggi né una trama solida né un brioso ritmo narrativo. E la scrittura limpida di Ribeyro, lo stile sapiente e apparentemente neutro, accompagnando il punto di vista scettico e disincantato, ma mai cinico, del suo alter ego Ludo, gli consentono di disseminare il testo di frasi indimenticabili buttate lì con nonchalance, come quando scrive: «Che hanno di diverso un banchiere e un gangster? O un ispettore e un borsaiolo? Il confine è molto labile. È risaputo. Io preferisco i gangster e i borsaioli. Sono più puri, procedono con maggiore franchezza: infrangono la legge, gli altri, più semplicemente, la dettano».