di Girolamo De Michele
a proposito di: Storia di una foto. Milano, via de Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, a cura di Sergio Bianchi, Derive eApprodi, Roma 2011, pp. 166, € 20 (testi di: Sergio Bianchi, Umberto Eco, Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, Toni Negri, Paolo Pozzi, Raffaella Perna, Marco Philopat, Franco Tommei, Benedetto Vecchi, Raffaele Ventura (Coz), Osvaldo Verri)
«A gambe larghe, leggermente piegate come in una foto d’epoca, Cristiano tiene ferma con l’altra la mano che impugna la Walther 38 fumante…»
Girolamo De Michele, Scirocco, p. 558
Una foto è una foto
L’immagine-icona degli «anni di piombo»: basta il sottotitolo.
Giuseppe Memeo, detto “Terrone”, in via De Amicis, quel 14 maggio 1977 in cui il collettivo Romana-Vittoria decise di “alzare il livello di scontro” e provocò la morte del vicebrigadiere Antonio Custrà.
Quella foto ha colonizzato l’immaginario di almeno due generazioni. Ha occupato lo spazio della rappresentazione di un intero periodo storico. Un periodo sottoposto dapprima a un’enorme riduzione della conflittualità attraverso la riduzione all’espressione «anni di piombo»: una didascalia implicita, che già era segno di un rovesciamento semantico. “Anni di piombo”, titolo di un film tedesco, alludeva infatti al grigiore della vita quotidiana nella Germania degli anni Settanta: un riferimento alla qualità della vita totalmente rimosso dallo slittamento dell’espressione dal film agli anni Settanta italiani. Così come del tutto rimosso è lo scenario nel quale esplose la radicalizzazione dello scontro politico, fino all’uso delle armi, e parimenti rimosso l’uso delle armi da parte delel forze dell’ordine “ufficiali”, di quelle “travisate” (come due giorni prima, a Roma, in occasione dell’omicidio di Giorgiana Masi), e di quelle che fiancheggiavano lo Stato nell’opera di repressione dei movimenti sociali (l’eversione neofascista). Nulla di questo compare nella foto. Anche il bersaglio del pistolero è esterno allo spazio della rappresentazione: resta solo il gesto, quasi filmico all’interno del piano americano, di un probabile killer.
Il resto è lasciato all’immaginazione dello spettatore. Forse.
Ti ho visto, la foto è sul giorno…
Ci sono molte foto che avrebbero potuto concorrere con quella del militante della Romana che spara (e che, sembra, tenne poi la foto ritagliata dai giornali appesa in camera). Il poliziotto con la maglietta a righe e la parrucca riccioluta, stile sorcino: potrebbe essere l’assassino di Giorgiana Masi, per quel che ne sappiamo. In realtà, non lo sapremo mai.
La foto di Giannino Zibecchi, giovane insegnante precario, col cranio fracassato dalla ruota del blindato che gli è passato sopra a 100 all’ora “spazzando il marciapiede”, come si diceva in gergo, il giorno dopo l’assassinio di Claudio Varalli. Il carabiniere che presidiò il corpo commentò con disprezzo: non credevo che un comunista avesse tanto cervello. Si riferiva al cervello di Giannino, schizzato fuori dalla scatola cranica e sparso sull’asfalto.
O la foto di Claudio Varalli, oggetto di una ballata di Pino Masi: «ti ho visto, la foto è sul “Giorno”, la faccia schiacciata per terra, sembrava una foto di guerra, eppure era solo Milano». Nella sua immediatezza, quella foto dice tutto: la velocità con la quale si intuisce il precipitare della faccia al suolo dimostra che il proiettile che lo ammazzò entrò nella nuca mentre Claudio scappava, a confutazione della tesi difensiva del fascista Braggion, che sostenne di aver sparato per difesa. E “eccesso colposo in legittima difesa” fu la sentenza che lo condannò a soli 5 anni.
Ma queste foto hanno un difetto: dicono più del necessario, e lasciano poco spazio all’immaginazione. Del poliziotto-sorcino ci basta sapere che c’è: senza divisa, con una pistola non d’ordinanza… Questo era lo Stato: e quella foto ce lo dice.
Delle altre due foto, il limite è che mostrano la vittima, e di fatto ne descrivono la morte. Tanto è vero che a partire dalla foto di Zibecchi, rielaborata nella narrazione (con un evidente riferimento all’immagine di Carlo Giuliani), Walter Pozzi ha costruito un romanzo, Altri destini che, collegando attraverso una foto e un reperto (un maglione insanguinato) la generazione del padre e quella del figlio, si propone come primo esempio di una “narrativa della tensione” che mira a ricostruire col narrato il vuoto tra l’allora e l’adesso.
Mostrare la vittima implica accettarne l’esistenza, e le sue ragioni. Zibecchi e Varalli erano dalla parte di chi voleva cambiare il mondo, e hanno pagato questo torto con la vita. Tutto questo doveva essere rimosso dalla memoria collettiva: dovevano rimanere solo i pistoleri, e le loro vittime.
Un’altra foto, che avrà una sua notorietà, ritrae un gruppo di tre, uno dei quali con in pugno una pistola. Questa foto condivide molte caratteristiche con quella del pistolero solitario, ma ha un difetto: ritrae un gruppo. La nuda immagine dell’assassino che (come nel famoso quadro di Velasquez) lascia vuoto lo spazio del rappresentato (la vittima) è più funzionale: a cosa, lo vedremo presto.
Dietro la foto: i fatti
Su quel 14 maggio 1977 milanese ci sono molte verità. C’è una verità giudiziaria, fondata sulla ricostruzione dei pentiti o dissociati (Ferrandi, Barbone, Pasini Gatti e Memeo) e una verità, per così dire, “politica”. La verità storica fa la spola tra queste due ricostruzioni.
È un fatto storico incontrovertibile che la manifestazione viene indetta all’indomani dell’assassinio per mano ignota, all’interno di un contesto in cui poliziotti travisati e (secondo alcune testimonianze) killer neofascisti sparavano ad altezza d’uomo contro i manifestanti disarmati, convocati dal Partito Radicale per ricordare la vittoria del referendum sul divorzio. E che, alla vigilia della manifestazione, vengono arrestati a Milano gli avvocati di Soccorso Rosso Cappelli e Spazzali.
È un fatto storico che alla vigilia della manifestazione, indetta in modo improvvisato e incerto, diverse riunioni mettono in luce l’avvenuta polverizzazione dell’area dell’autonomia milanese. “Rosso” (la rivista) si spacca, e decide di non scendere in piazza; la “banda Bellini”, ossia i tipi del Casoretto, storico servizio d’ordine del movimento, scelgono di sfilare: «ma senza alcuna arma, neanche per la difesa… niente molotov, né spranghe, né fionde e neanche sassi… niente di niente» dice Andrea Bellini (intervistato da Philopat), il leader carismatico del gruppo; con la promessa di abbandonare il corteo al primo segnale, foss’anche un solo sasso contro una vetrina.
È un fatto storico che alla riunione dei dirigenti dei servizi d’ordine dell’autonomia milanese, presente Oreste Scalzone, la linea del Casoretto passa senza obiezioni: con le parole del Coz (Raffaele Ventura), «assolutamente disarmati».
È un fatto storico che la stessa notte la componente armata del collettivo Romana-Vittoria si riunisce (in un lussuoso attico lasciato libero dai genitori di uno dei tipi, sembra) e decide la strategia da seguire. Sono presenti, tra gli altri, Ferrandi, Memeo, Pasini Gatti e Marco Barbone, che contatta tre studenti del Cattaneo per rafforzare il gruppo.
È un fatto storico che, dopo la separazione dello spezzone dell’autonomia dal grosso del corteo per sfilare sotto il carcere di San Vittore (con alla testa gli armati di Romana-Vittoria), il gruppo Romana-Vittoria rompe il cordone del servizio d’ordine diretto da Scalzone e Bellini e, facendo seguito al comando «Romana fuori! Sparare!», attacca una colonna di polizia del III Celere che imbocca via De Amicis. Mentre il Casoretto abbandona immediatamente la via e batte in ritirata, diversi armati aprono il fuoco, colpendo mortalmente il vicebrigadiere Custrà e ferendo in modo più o meno grave due passanti e un secondo poliziotto. La sparatoria, di cui resta una testimonianza audio registrata da Radio Canale 56, è immortalata da cinque diversi fotografi (alcuni dei quali compaiono nelle foto scattate dai loro colleghi).
Ed è un fatto storico che due mesi prima, all’indomani dell’assassinio di Francesco Lorusso, a Milano si è sfiorata la carneficina: come raccontano Pozzi e Tommei, solo la determinazione congiunta di Rosso e della banda Bellini (cioè il Casoretto) scongiura un assalto armato alla prefettura, presidiata da carabinieri armati di carabine, e indirizza la rabbia del corteo verso il palazzo, vuoto, dell’Assolombarda, contro il quale vengono scaricate le armi dei manifestanti.
Quel 12 marzo 1977 è il giorno in cui finisce il movimento dell’autonomia milanese. Da lì in poi, nessuno è più in grado di controllare nessuno. In questo vuoto si inseriscono le forzature di chi spinge per “innalzare il livello di scontro”: i loro nomi sono in buona parte in questa storia, in quel 14 maggio, in via De Amicis; sono nelle cronache dei gruppi armati; e finiscono infine negli elenchi dei pentiti.
Da qui — dai verbali dei pentiti — la verità “politica” si separa da quella “giudiziaria”. Nelle ricostruzioni dei pentiti, “Rosso” (inteso come rivista) e l’area di riferimento diventano un’unica cosa, un’organizzazione tentacolare in grado di controllare tutto e tutti. E Toni Negri, il leader teorico di “Rosso”, diventa il capo di questo Superclan: una sorta di vertice della Spectre, anche senza il gatto sulle ginocchia.
In questo senso l’opera che Sergio Bianchi ha curato è fondamentale: consente a ciascuno di comparare la ricostruzione giudiziaria con le foto di quel 14 maggio — sia quelle che finirono subito in mano alla polizia dopo essere state consegnate alla stampa da una cooperativa di idraulici e vigilantes molto attiva a Milano in quegli anni, sia quelle che il giudice Salvini ha reperito alla fine degli anni Ottanta. E di valutare i diversi momenti in cui le dichiarazioni dei pentiti sono smentite dagli imputati non pentiti.
Esempi di letture possibili
Leggendo la sentenza, balza agli occhi il carico di anni inflitto a Ventura e Mancini: 16. Un terzo compagno di “Rosso”, Maurizio “Gibo” Gibertini, prende 10 anni.
Ferrandi, che dopo essersi palleggiato con Memeo il possesso dell’arma che uccide Custrà si assume la responsabilità dell’omicidio, è condannato a 4 anni (come Memeo). Ferrandi è il responsabile militare del gruppo di fuoco: la voce che grida «Romana fuori!», dando inizio alla sparatoria, è la sua, per sua stessa ammissione (nella sua confessione, Ferrandi dimentica di attribuirsi anche il grido «Sparare!»). Marco Barbone è condannato a 1 anno e 4 mesi. Marco Barbone è non solo il trasportatore delle armi, ma anche il responsabile dei colpi di fucile che portano via un occhio a un passante, Marzio Golinelli, e feriscono in modo più lieve Patrizia Roveri. È uno dei tre (assieme a Ferrandi e Memeo) che con certezza spara ad altezza d’uomo. La foto che lo ritrae in ritirata, distinguibile con chiarezza per un paio di sciccosissimi pantaloni bianchi a zampa d’elefante, mostra il fucile che sporge: nel 1977 questa foto non è nota, ma al momento del processo (quello Barbone è del 1991, gli altri sono processati nel 1992) sì.
Perché questo carico spropositato ai militanti di “Rosso”? Perché a loro viene attribuita una sorta di direzione strategica degli aventi. E perché, ça va sans dire, non sono pentiti.
Gibo e Mancini nelle foto non ci sono: per loro basta la parola dei pentiti, con buona pace della presunzione d’innocenza. Il Coz appare in una foto con qualcosa in mano, mentre sembra dire con un chiaro gesto: «che cazzo state facendo». Quella foto subisce un processo di reinterpretazione sorprendente. La frase «assolutamente disarmati» viene del tutto rovesciata dal pentito di turno, con buona pace di un’evidenza banale: è ben strana l’indicazione di scendere in piazza armati da parte di un dirigente di movimento che non porta con sé i militanti e i “ferri del mestiere” della propria organizzazione; la didascalia implicita formulata dal pentito fa sì che il qualcosa presente nella mano destra diventi con certezza un’arma; le altre foto che mostrano un Ventura osservatore e sorpreso, nella cui mano destra non compare alcun oggetto vengono, per così dire, “sovraimpressionate” dalla prima foto didascalizzata dalla voce del pentito. E attraverso questa operazione “Rosso” viene coinvolto in una storia che inizia proprio quando (o forse: proprio grazie al fatto che) la sua storia volge al termine. Che Francone Tommei sia stato oggetto di minacce di morte per il suo tentativo di organizzare un convegno «in cui si sarebbe dovuto discutere di come andare “oltre il terrorismo” […] da parte di un qualunque infame gruppazzo armato della cintura milanese» (Funaro) passa ugualmente in secondo piano, rispetto alla lista della spesa che Marco Barbone consegnerà ai giudici di Milano pochi mesi dopo.
Sotto ogni foto c’è una didascalia. Il problema non è se sia palese o implicita: il problema è chi la scrive.
Altre foto, altre letture
L’altra foto di quel pomeriggio milanese passata alla stampa, prima che alla storia (meglio: passata alla storia perché passata alla stampa) è quella dei tre pischelli del Cattaneo: Azzolini, Sandrini, Grecchi. Come già accennato, c’è qualcosa che accomuna questa foto a quella di Memeo: l’assenza del bersaglio, ossia della vittima (potenziale: in realtà i colpi sparati in alto dal solo Azzolini non colpirono alcuno), rende possibile qualunque processo di risemiotizzazione dell’immagine. È la potenziale rappresentazione di qualsivoglia rappresentato: sembra costruita apposta per diventare una foto-simbolo. E infatti, in qualche modo, lo diventa: per metonimia, l’attributo di pistolero viene esteso anche ai due privi di armi da fuoco, la presenza in quella strada diventa complicità in omicidio, e i tre, immediatamente identificati e arrestati, vengono condannati a pesanti pene detentive. Che non vengono revocate neanche quando l’indagine condotta da Salvini appurerà che a sparare è stata la pistola di Ferrandi. I simboli, come è noto, non hanno tempo, e non possono mutare: Walter Grecchi, condannato a quasi 15 anni senza aver mai sparato un colpo di pistola, è uno dei 14 “superlatitanti” che Castelli chiese indietro alla Francia [qui].
Cosa non funziona, in questa foto? Il gruppo. La presenza di tre giovani in qualche modo solidali allude a una dimensione collettiva. Al contrario, la foto di Memeo diffusa sui giornali (e attualmente presente su Wikipedia, alla voce “Anni di piombo”) ha una particolarità che la rende differente dalle altre foto di quegli anni. Con le parole di Umberto Eco:
«Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata, almeno per quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria […]. Questo eroe individuale aveva invece la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film poliziesche americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West…»
In realtà, come dimostrano con una straordinari analisi Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, l’isolamento del pistolero solitario non è un dato oggettivo, ma il risultato di un taglio della foto che ha isolato Memeo dal gruppo che gli sta alle spalle, e rimosso le «tracce del passaggio collettivo» presenti sulla strada (volantini, oggetti). L’immagine-icona «non fa conoscere l’antagonista né i margini di manovra degli attentatori»: non è una rappresentazione dei fatti “come sono realmente accaduti”, ma un «pezzo di un montaggio dialettico». È una costruzione che ritocca il reale e lo ripulisce della partecipazione collettiva.
Questa foto — cioè l’effetto di questa costruzione del “reale” — è un punto di non ritorno. Come lo è quel pomeriggio di un giorno da cani milanese, a partire dal quale il movimento dell’autonomia diventò «ciò che sino allora non era mai stato, e che non avrebbe mai voluto essere» (Funaro): un processo di militarizzazione per bande, e poi per microbande.
Con il prevalere della deriva armata il movimento era sconfitto: e i vincitori cominciavano a riscrivere la storia dal punto di vista dei vincitori. I vinti dovevano apparire isolati, estranei a qualsivoglia conflitto, esterni ad ogni collettività o socialità. Dei micro-Callaghan.
Ancora una foto, un postino, e una cosa che non ho capito (perché sono uno scrittore)
Nondimeno, in questo mazzo di foto dal quale una mano fortunata estrasse l’icona degli anni di piombo ci sono dei morti. C’è il vicebrigadiere Custrà, intanto. Manca la foto del suo sparatore, se è vero che a sparare fu Ferrandi e non Memeo. Poi ci sono, più avanti nel tempo, le vittime di cui Memeo è reo confesso: Torreggiani e Campagna, per le cui morti Battisti, diversamente da Memeo, è stato condannato all’ergastolo. E poi c’è Walter Tobagi, ucciso da Marco Barbone nel 1980.
Ferrandi, a sua volta, entrerà in Prima Linea, che sta per nascere da Senza Tregua. E qui ci imbattiamo in un’altra foto, scattata a Sergio Segio (uno dei capi di PL) e improvvidamente pubblicata dal “Corriere della Sera” il 16 gennaio 1983, giorno dell’arresto di Segio. La didascalia recita: “Sergio Segio fotografato durante la latitanza”. Ma: la foto, che pure proviene dal fascicolo su Segio (un fascicolo contrassegnato dalla lettera “S”, che esiste dall’estate 1979, cioè da prima che Segio entrasse in latitanza trasferendosi a Napoli), è stata scattata quando Segio non era ancora latitante. Lo stesso Segio la commenta così, nel corso di un convegno su Walter Tobagi organizzato da Radio Radicale il 23 luglio 2007 [qui il video del convegno]:
«Anche questo depone per il fatto che ero stato seguito e intercettato. Ma non fermato e arrestato, nonostante che in casa di Alunni (settembre 1978) fosse stato rinvenuto il mio quaderno manoscritto del campo di addestramento militare presso l’ETA e nonostante Ricciardi sapesse ed evidentemente avesse rivelato ai carabinieri, che ero uno dei capi di PL. La quale, a quel punto, si era resa responsabile di omicidi, compreso quello del giudice Alessandrini. Perché? A questo domanda credo potrebbero rispondere i vertici dei carabinieri dell’epoca. E probabilmente non solo loro. La mia risposta è che, evidentemente, è tornato comodo che io, così come altre centinaia di giovani, certo un po’ ingenui, si infilassero man mano nel tunnel delle armi, sino all’omicidio politico. Un tunnel tragico, che ha comportano numerose uccisioni, e migliaia di altre vite bruciate in carcere, o uccise per strada in conflitti a fuoco, com’è successo a Roberto Serafini e Walter Pezzoli, grazie alle segnalazioni di Ricciardi. Di nuovo chiedo: perché? Perché non si è voluto fermare quel percorso impazzito prima che diventasse irrimediabile, prima che sfociasse in tragedia? E soprattutto chiedo se non sia ormai ora che anche pezzi delle istituzioni aprano i loro armadi della vergogna e del silenzio».
Già: Rocco Ricciardi, il “postino di Varese”, già militante di Rosso e del gruppo armato di Corrado Alunni, passato dall’altra parte della barricata e diventato a tutti gli effetti un infiltrato, forse motivato (secondo Corrado Alunni) da «un’irresistibile voglia di continuare a giocare la guerra (anche se nelle vesti di “agente segreto di sua maestà”), e perciò con buone chances di vincere… questa volta». Ricciardi, secondo la testimonianza dell’ex brigadiere dei carabinieri Dario Covolo (nome in codice “Ciondolo”), è stato determinante nell’identificazione di Memeo. A partire da quando inizia la collaborazione attiva di Ricciardi con i carabinieri? Probabilmente dall’autunno 1978, al più tardi dalla primavera 1979. Cioè almeno un anno prima di fornire ai carabinieri l’informativa sull’intenzione di Barbone, che nel frattempo aveva formato una sua micro-banda, di colpire Walter Tobagi. Perchè, allora, Walter Tobagi sia stato ucciso dal ricciolino con i pantaloni bianchi a zampa d’elefante che compare nelle foto di quel 14 maggio 1977, è qualcosa che io non ho capito, e come me molti. È una domanda che non ha trovato risposta neanche dopo la pubblicazione dell’intervista di Renzo Magosso all’ex brigadiere Covolo del 2004, né il convegno organizzato da Radio Radicale nel 2007, né dopo la pubblicazione del libro di Benedetta Tobagi nel 2009. E di certo non sarà il trittico di racconti che Paolo Pozzi sta pubblicando su Paginauno a mutare la situazione.
Ma c’è un’altra cosa che non ho capito. Perché di solito scrivo noir, o almeno ne scrivevo, e ho una mente limitata, come tutti gli scrittori di genere. Secondo il giudice Salvini (in gioventù militatante in un collettivo anarchico assieme a “Coniglio” Ferrandi e a Enrico Mentana), che ha ripreso e concluso le indagini sui fatti di via De Amicis rinvenendo i rullini delle foto scattate dal fotografo Conti, è stata la scarsa professionalità di chi ha condotto le indagini a impedire l’identificazione di tutti gli armati di quel pomeriggio, e l’esatta collocazione dei tre studenti del Cattaneo: «se nelle prime indagini vi fosse stato maggior intuito e professionalità, individuando subito Tonino Conti molto conosciuto e ben visibile mentre fotografava appoggiato all’albero e acquisendo già allora le immagini da lui scattate, tutti gli sparatori sarebbero stati individuati e arrestati» [qui]. Fino a quel momento, le forze dell’ordine avevano in mano solo i rullini di Fracchia e Pedrizzetti.
E dunque, che cosa non mi torna?
Nell’autunno del 1978, o al più tardi nella primavera del 1979, Rocco Ricciardi diventa un informatore dei carabinieri. Ricciardi proveniva dalla stessa area del gruppo di fuoco di via De Amicis, e conosceva i militanti di Romana-Vittoria.
Se io volessi scrivere un noir su quegli anni, creerei un carabiniere un po’ anziano, esperto: tipo vecchio segugio. Lo metterei non più in strada, ma dietro una scrivania, con in mano le foto di quel giorno. Gli farei cerchiare con un pennarello tutti quelli che compaiono in quelle foto. Perché il fatto che fossero travisati non può ingannare il mio personaggio, un vecchio segugio sa riconoscere dalla postura, dall’atteggiamento, persino dal tipo di mascheramento un personaggio noto: come dimostra il fatto che i tre pischelli del Cattaneo (uno dei quali era alla sua prima manifestazione “violenta”) furono identificati in un batter d’occhio. Nella foto dei tre studenti del Cattaneo — nell’integrale, non nella versione tagliata che arriva ai giornali — scattata dal fotografo Fracchia ci sono, oltre al fotografo Bini (con l’impermeabile bianco), Ferrandi a destra e, a sinistra, Barbone, proprio sopra la mano destra di Sandrini. Marco Barbone, con i suoi calzoni chiari, compare in altre tre foto del rullino-Fracchia (all’interno del libro, sono quelle numerate come 3, 4, 6, 7).
Se il mio anziano segugio avesse a mano un infiltrato, gli chiederebbe conferma dell’identità non solo del Callaghan di via De Amicis, ma anche di quei personaggi cerchiati col pennarello rosso: il più fotografato dei quali, Marco Barbone, non era latitante né nell’autunno 1978, né nella primavera 1979.
Ma il mio personaggio è romanzesco.
E, come diceva Oscar Wilde, un romanzo che avesse personaggi realistici sarebbe del tutto inverosimile.