di Alejandro Brittos
[L’intervista a Luis El Nono Ortolani, uno dei superstiti della fallimentare evasione dei guerriglieri argentini da un carcere della Patagonia nell’agosto 1972, è stata pubblicata in italiano, nella traduzione dello scrittore Marino Magliani, sul periodico “Il Reportage“, numero 1, gennaio-marzo 2010. La riproduciamo su Carmilla ringraziando il traduttore e l’editore] A.P.
Luis “el Nono” Ortolani fu uno dei fondatori del Partido revolucionario de los trabajadores (Prt) nel 1965. Partecipò allo storico IV Congresso del Prt che nel 1968 inizia il cammino della lotta armata in Argentina con la creazione dell’Ejercito revolucionario del pueblo (Erp), di cui fu anche membro del Comitato Centrale. Fu lui a trattare con l’esercito argentino la resa dei carcerati politici che tentarono una clamorosa, fallimentare e tragica fuga di massa dal carcere argentino di Rawson, nel deserto della Patagonia. Era il 15 agosto del 1972, un anno di attacchi durissimi della guerriglia argentina contro la dittatura di Lanusse. I fuggitivi erano divisi in tre gruppi: i capi militari dell’Erp, delle Far e dei Montoneros nel primo, 19 rivoluzionari nel secondo, 85 nel terzo. I primi riescono a fuggire e a salire su un aereo che li porterà nel Cile di Allende e poi a Cuba. Quelli del secondo gruppo non ce la fanno e verranno fucilati dai militari, dopo estenuanti trattative anche in diretta tv, in una sala dell’aeroporto il 22 agosto. Quelli del terzo gruppo, rimasti in carcere, si barricano dentro e si arrendono il giorno 16.
Luis, qual era il suo ruolo all’interno dell’organizzazione al momento della sua detenzione?
Quando venni catturato a Cordoba, nel 1972, facevo parte di un gruppo dell’Erp insieme alla mia donna di allora, Liliana Delfino, sorella di Mario Delfino, fucilato a Trelew, e un altro paio di compagni che sono scomparsi. Ricordo che pubblicavamo due giornali, “El Combatiente” e “Estrella Roja”, rispettivamente del Prt e dell’Erp. Ci occupavamo anche dell’organizzazione della “Escuela de Cuadros”, nella sierra di Cordoba, un posto che si chiama Salsipuedes.
Chi erano gli “equipos” dell’Erp?
Le cellule militari, i gruppi di base dell’Erp. Ciascun gruppo contava su un uomo del partito che non era il capo militare, ma una sorta di commissario politico, colui cioè che garantiva la linea del partito, però discutendo con tutti. Il combattente più abile era, invece, il capo dell’equipo.
Dopo la sua detenzione a Cordoba cosa le è successo?
Siamo stati catturati nel febbraio del 1972 da agenti della polizia della provincia di Cordoba. Io, mia moglie e mio figlio di due anni. Da lì io sono poi stato trasferito alla città di Rosario. Capo della polizia di Rosario era il comandante maggiore di gendarmeria – congedato – Carlos Agustin Feced. Questo signore sicuramente aveva sopravvalutato la mia importanza politica, non conoscendo molti cambi avvenuti nell’organizzazione. Venne personalmente a Cordoba a prelevarci con un apparecchio e quella notte stessa cominciò a torturarci nella questura di Rosario, anche personalmente. Naturalmente eravamo bendati e incappucciati, ma la sua voce grossa era facilmente identificabile, quando faceva domande o quando diceva ai suoi subalterni “regolare il voltaggio, regolare il voltaggio”. Ometto i dettagli, l’opinione pubblica è già stata abbastanza scossa da questi racconti di horror.
Quando arriva al penitenziario di Rawson?
Verso la fine di aprile o principio di maggio del ’72 mi trasferiscono al carcere di Rawson. In quel momento Rawson si stava trasformando nel maggior centro di detenzione di prigionieri politici. Vi portavano quelli che consideravano i più pericolosi perché si supponeva che fosse impossibile scappare.
Chi erano i prigionieri, com’erano organizzati?
C’erano quasi tutti i capi della guerriglia argentina. Santucho, Gorriaràn, Vaca Narvaja, Roberto Quieto, Marcos Osatinsky. In un padiglione c’erano tutti loro, quelli che consideravano i dirigenti, nell’altro padiglione stavano gli altri prigionieri.
Com’era la situazione nel penitenziario durante il tempo precedente la fuga?
Considerando che, teoricamente, era un carcere di estrema sicurezza c’era molta libertà. Noi avevamo un servizio d’informazione che aveva verificato ogni cosa a proposito del direttore del carcere. Così, un giorno, Quieto va a fare un’amabile chiacchierata con lui perché capisca che sappiamo e gli dice:
“Che bella era sua figlia quando usciva dalla tal scuola con il tal vestito e anche il suo figlioletto che va a giocare nel tal club”. Il direttore resta pietrificato. E così Quieto gli propone un accordo. Lei non ci rompe i coglioni a noi e noi non li rompiamo a lei. Per questo era molto flessibile la convivenza. Ad esempio, riuscimmo a far sì che ci lasciasse stendere le lenzuola dentro le celle perché si sporcavano con il vento della Patagonia. In questo modo le guardie non riuscivano a vedere cosa stavamo facendo. Ad esempio il tunnel che fu il primo piano di fuga.
Che cosa prevedeva quel piano?
Dietro dell’ultimo padiglione c’era un campo di calcio. Siccome non c’era molta distanza dall’ultima cella si pensò a un tunnel. C’erano 15 metri fino al muro. Il coperchio del tunnel fu talmente ben fatto che passò indenne le due dittature e fu scoperto casualmente durante una revisione di prigionieri comuni. Il tunnel fu fatto fino a metà perché la terra di Rawson è una terra di merda, piena di pietra e sabbia e bisognava avanzare lentamente e ricorrere a una struttura per puntellare.
Cosa ne facevate della terra?
Come ho detto eravamo riusciti a far sì che ci lasciassero far asciugare le lenzuola dentro le celle. Dentro le celle c’era gente che giocava a scacchi e se si apriva una porta si metteva a cantare una canzone. Le ragazze avevano fatto degli zaini con una cerniera. Riempivamo gli zaini di terra e quando uscivamo nel cortile gettavamo la terra, qualcuno poi passava e la schiacciava per bene e così via. Ma era troppa la terra che dovevamo togliere e per questo si cambiò piano.
Chi lo studiò?
In Rawson c’era una buona parte del comando delle tre organizzazioni armate più importanti di quei tempi. Vaja Narvaja e Quieto dei Montoneros, Santucho e Gorriaran dell’Erp, Osantinsky delle Far (Fuerzas armadas revolucionarias). Loro pianificavano e poi a ognuno di noi rivelavano la parte di piano in cui veniva coinvolto.
Com’era questo piano B?
Era un piano molto audace, consisteva essenzialmente nel prendere il carcere dall’interno. Nel frattempo, i compagni di fuori dovevano sequestrare un aereo di linea a Comodoro Rivadavia e farlo atterrare nell’aeroporto di Trelew, che è vicino a Rawson. Dopo aver preso il carcere un gruppo doveva andare in auto, due gruppi su altrettante camionette, fino all’aeroporto, dove avrebbero preso possesso dell’aereo.
Quanti eravate?
In totale eravamo 110 prigionieri, divisi in tre gruppi. Il primo gruppo, quello che partiva in automobile, era fatto dei sei capi, che alla fine riuscirono a scappare, presero l’aereo e si diressero in Cile e poi a Cuba. Era la guida politica dell’organizzazione. Il secondo gruppo era quello dei 19 che rimangono intrappolati a Trelew. Tutti gli altri facevano parte del terzo gruppo. Se i camion arrivavano, il secondo e il terzo gruppo partivano in camion. C’era un piano d’emergenza nel caso non fosse filato tutto liscio: il primo gruppo se ne sarebbe andato con un mezzo proprio, il secondo su taxi e macchine a noleggio con autista. Per questo doveva essere un giorno festivo, perché c’erano le visite ed era normale che dal carcere si chiamassero così tanti taxi e remise. Tornando al giorno della fuga, diciamo che tutto era pianificato, ma c’erano cose che dovevano funzionare bene: una era che coincidessero l’orario dell’aereo e quello dell’operazione, un’altra che ci fosse una buona luce perché per l’operazione bisognava fare un segnale dall’esterno che si vedesse dall’alto del padiglione delle ragazze per segnalare che i compagni che dovevano prendere l’aereo a Comodoro erano partiti.
Perché 110 fuggitivi?
Non è un numero arbitrario, si spiega perché l’aereo da dirottare aveva 114 posti e siccome i compagni che salivano a Comodoro Rivadavia erano quattro questo era il numero.
Come si stabilì chi avrebbe partecipato alla fuga, considerando che c’erano tre organizzazioni distinte?
La decisione fu presa di comune accordo. Tra le tre organizzazioni si stabilirono delle quote. Siccome noi dell’Erp eravamo quelli col maggior numero di prigionieri la nostra quota percentuale era superiore. Dopo ogni organizzazione ha messo i nomi a ciascun numero.
Lei che numero aveva e qual era la sua responsabilità nel piano?
Io avevo il numero 26. Se arrivavano i camion io ero uno di quelli che andavano. Se non arrivavano io dovevo chiamare i taxi per il secondo gruppo e poi restare al comando per negoziare la resa e consegnare il carcere. Cosa che alla fine feci.
Quale era il piano per prendere il carcere?
Pensavamo di prenderlo esattamente come lo abbiamo preso. C’era un gruppo, a cui appartevano i più duri, che possedeva una pistola col silenziatore. A proposito di questa pistola ho sentito due versioni. Una è che la introdusse un secondino di cognome Facio, che avevamo portato dalla nostra parte un po’ politicamente e un po’ corrompendolo. L’altra versione è che entrò in una latta di dolce. Credo che la più probabile sia la prima. Quella era l’unica nostra arma da fuoco, per il resto eravamo armati di punteruoli, come quelli che fanno i prigionieri comuni.
E come fu realmente la presa?
Osatinsky era quello con la pistola. Chiamano il secondino e chiedono di parlare con l’ufficiale. Quando questi arriva Osatinsky lo minaccia con la pistola, lo costringono ad aprire la porta, gli tolgono la chiave, imprigionano Facio, lo imbavagliano e lo legano in una saletta. Una volta fuori dalla cella, aprono tutte le porte degli altri tre padiglioni e legano la guardie, spingendo avanti l’ufficiale che ha la pistola col silenziatore puntata alla schiena. A poco a poco ciascun gruppo prende il controllo di ogni salone e padiglione e così si giunge alla sala del direttore, all’armeria e all’amministrazione. Dall’armeria portiamo via una grande quantità fucili automatici leggeri e altre armi da fuoco, passandocele di mano in mano attraverso una scaletta.
Cosa succede, nel frattempo, al primo gruppo?
Gli uomini del primo gruppo escono a cercare le auto, ma si accorgono che non ci sono i camion. Prima di uscire, però, nella parte esterna del carcere, s’imbattono in un picchetto di guardie che si mette a sparare, muore un secondino di nome Valenzuela. Lo scontro a fuoco e la ricerca dei camion fa perdere molto tempo.
Perché non riescono a scappare tutti?
Il problema maggiore è che non arrivarono i camion in tempo. L’incaricato di condurre il primo camion, che era delle Far, disse poi che quando stava arrivando vide un segnale fatto con una coperta da una finestra del primo piano e sentì uno sparo. Questo lo convinse che l’operazione era fallita. Il che non è vero. Primo perché non ci si era accordati su nessun segnale che indicasse che l’operazione era fallita e, secondo, nel posto dove lui vide sventolare la coperta non c’era nessuno. Al primo piano, infatti, c’erano solo uffici, era un giorno di festa e non stavano lavorando. Lui se n’è andato perché ha dubitato dell’operazione. Non è una questione di codardia. Ha detto di aver sentito uno sparo, questo gli ha fatto pensare che l’operazione era fallita. Il problema era che i compagni fuori dal carcere non credevano nell’operazione. Avevano talmente poca fiducia che i quattro che dovevano sequestrare l’aereo non lo fecereo. Ossia, salgono sull’aereo ma non lo prendono. Così come l’auto del primo gruppo, che ritarda facendo dei giri inutili alla ricerca dei camion. Quando la macchina arriva all’aeroporto l’aereo sta cominciando a partire. Che fanno, allora, i sei? Corrono alla torre di controllo: qui Vaca Narvaja, che era vestito da ufficiale dell’esercito, dice che i sovversivi hanno messo una bomba sull’aereo, che non lo lascino decollare. Quello della torre gli dice che l’aereo il permesso non ce l’ha. Allora loro vanno a prendere l’aereo, davanti Vaca Narvaja con la sua uniforme militare. I compagni della farc e dell’Erp sull’aereo non lo conoscevano, lui era un montonero, per cui quando vedono apparire un tipo dell’esercito, già mettono mano ai “ferri”, fino a che, dietro, quando non spuntano Santucho e gli altri. Quindi prendono l’aereo e fanno scendere i passeggeri. Tutto questo con tanta cortesia che il colonello Perlingher, un ufficiale dell’esercito che casualmente viaggiava su quell’aereo, quando lo intervistarono dichiarò che i guerriglieri erano stati dei signori. Una frase che gli costò gli arresti domiciliari per tutta la successiva dittatura Videla.
Tornando ai camion, cosa succede dopo nel carcere?
Il primo camion torna indietro e strada facendo incontra il secondo, guidato da un nostro compagno dell’Erp, che convince il primo autista a tornare al carcere. Quando arrivano, però, Rawson è già circondato dalle truppe dell’esercito.
Quanto tempo era passato dall’inizio della fuga?
Da quando ha inizio l’operazione fino a quando l’esercito non circonda il carcere, calcolo che non saranno passati più di 40 minuti. Saranno state tra le cinque e mezza e le sei del pomeriggio.
Dopo che circondano il carcere cosa succede a lei e al resto dei prigionieri?
Noi che eravamo rimasti dentro preparammo come potemmo una barricata dietro la porta con mobili e altre cose. Io mi piazzo in una scala di accesso alle caldaie, che distavano circa un cinque metri dalla barricata in fondo a un corridoio. Qui comincio la negoziazione con il direttore del carcere, credo. Prima cosa urlo che avevamo i fucili e che li sapevamo usare, che avevamo 25 ostaggi, ma che non volevamo dover ricorrere alla violenza. Un conflitto a fuoco sarebbe stato terribile per entrambe le parti. Dissi che ci volevamo arrendere con le garanzie dovute alla nostra integrità fisica. Perciò volevamo che venissero giudici e giornalisti.
Cosa vi hanno risposto?
Cominciava a far notte. Il tipo mi dice che la zona da Rawson a Trelew è stata dichiarata zona militare sotto il comando del generale Luis Betti. Io gli dico che chieda le garanzie al generale Betti e siccome potevo ascoltare la radio che ci diano le garanzie per radio.
Fino a che ora dura questa situazione?
Fino alle otto della mattina seguente. Nel mezzo io gli rendo noto che tra gli ostaggi ce ne sono tre civili: marito, moglie e la loro bambina che erano venuti a visitare un prigioniero comune ed erano rimasti, che non avevano niente a che fare con tutto questo e che non li volevamo tenere come ostaggi, ma loro non ci danno il permesso di farli uscire. Se avessero preso d’assalto il carcere, sicuramente questa famiglia, assieme a qualche prigioniero comune, sarebbero morti.
Durante la notte cosa successe?
Il dialogo fu lo stesso durante tutta la notte. Io proponevo e dall’altra parte ancora non arrivava nessuna risposta del generale. È chiaro che erano più concentrati sui compagni di Trelew. Nel mentre arrivavano elicotteri dai quali continuavano a scendere soldati. Le ragazze che erano di sopra vedevano che l’esercito si preparava ad assaltare il carcere. Quindi, ogni volta che si piazzava una nuova linea di soldati, io chiamavo di nuovo il direttore e gli dicevo che l’esercito voloeva attaccare. Noi moriremo ma voi avrete molti caduti. Ogni tanto l’arrivo degli uomini si fermava, ma dopo un po’ ecco altri soldati e nuovamente ricominciava la trattativa col direttore. Sarà successo dieci-dodici volte durante la notte. Fino a quando, circa verso le 7,30 del giorno 16 agosto, il generale Betti ci risponde. Dice, come in un ultimatum, che siamo in stato di ribellione nella carcere di Rawson e che se non deponiamo le armi darà l’ordine assaltare il carcere, ma se decidiamo di arrenderci avremo garanzie per la nostra integrità fisica.
Cosa decidete?
Chiamo il direttore del carcere e concordo con lui sul fatto che ci arrendiamo, che liberiamo le guardie e consegniamo loro le armi, dopodiché ciascuno di noi torna nella sua cella e alle otto e un quarto possono entrare. Il direttore risponde: perfetto, gli sembrava giusto che cominciassimo a ragionare e aggiunge che su chi non si trovava in cella dopo le otto e un quarto si sarebbe aperto il fuoco. Alle otto e un quarto eravamo tutti nelle nostre celle.
[Traduzione di Marino Magliani] A.P.