di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVII n. 4, aprile 2011)
[Pubblichiamo l’articolo senza le note, che potranno essere rintracciate nel numero indicato de Il Ponte.]
Il prossimo 1° maggio, Karol Wojtyla sarà beatificato. Il clima di ovvietà è tale, che chi legge questo scritto non allineato può mettersi a suo agio: da questa parte, a differenza che nei luoghi dell’agiografia, si sta larghi. Si sono viste folle, prima nel 2000 per il giubileo, poi nel 2005 per l’agonia del papa, e per la sua morte, l’esposizione della salma, il funerale. Proprio nel 2005, lo slogan «santo subito», di dubbio conio, ha chiesto la rapida canonizzazione. Sicuramente un giorno certe nebbie si diraderanno, collocando il personaggio e il contesto in una dimensione più realistica. Quanto tempo occorrerà? L’attesa potrebbe essere lunga, quindi bisogna vedere subito qualche elemento.
Per cominciare, è utile l’apologo che mi ha raccontato un partigiano romano. Durante la guerra mondiale, un tedesco sta per sparare a un polacco. Voce dal cielo: «Non ucciderlo!». Il tedesco: «E perché?». «Sarà papa». Il tedesco: «E io?». «Tu, dopo». Un partigiano può permettersi intuizioni spregiudicate, per vedere chiaro. Appunto, chiaro come il cielo. Qui, senza pretesa di certezze siderali, proviamo ad approfondire.
Nel conflitto sociale che percorre il Ventesimo Secolo si possono leggere due estremi: la rivoluzione del 1917 e la fine del blocco socialista. Una fase determinante per l’esito, è negli anni Settanta: alla decolonizzazione e alla rivoluzione cubana, seguono la stagnazione politica e il lento sorpasso tecnologico con cui il capitalismo lascia indietro il modello avversario. È in quel clima, che un furbo dosaggio di fondamentalismo e di violenza militare viene usato per fronteggiare i movimenti rivoluzionari, per gestire i contraccolpi della decolonizzazione e per volgere il contenimento dell’Urss nella sua dissoluzione. Così gli Usa, mentre nell’America del Sud appoggiano i fascismi, in Oriente alternano il sostegno a regimi dittatoriali con quello al radicalismo islamico. Soprattutto, sul finire degli anni Settanta una larga strategia a tenaglia opera su due fronti geopolitici, distanti ma accomunati da un elemento: la religione, anzi le religioni. Vediamo meglio.
A Roma, nel 1978 è eliminato il presidente del partito di maggioranza relativa, Aldo Moro, non sufficientemente allineato con gli Usa. Il papa che forse ha cercato di salvarlo, Montini, già alla Segreteria di stato durante la guerra mondiale, muore. Gli succede Luciani; se ne intravedono alcuni tratti moderati, ma dura qualche settimana. Molti sono convinti che sia stato assassinato. Giovane e aggressivo, il nuovo papa Wojtyla inizia presto una linea di ingerenza anticomunista diretta anche all’Est, e alla nativa Polonia. A seguire, ci sarà il regime militare a Varsavia, un irrigidimento che non servirà a fermare la mobilitazione politica e sindacale cattolica, sostenuta dal Vaticano e da tutta la destra (soprattutto da Ronald Reagan a Washington e da Margaret Thatcher a Londra) con appoggi mediatici e coperture di ogni tipo.
In Asia Centrale, gli Usa appoggiano con armi, mezzi e denaro il fondamentalismo islamico, che in seguito avrà fra le sue versioni più dinamiche, per militarismo e proselitismo culturale, i talebani. L’obiettivo è fare in modo che l’Urss invada l’Afghanistan, come dichiarerà anni dopo Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza di Carter e cofondatore della Trilaterale. A chi gliene chiederà conto, intervistandolo dopo l’11 settembre 2001, Brzezinski risponderà con cinismo: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano riottoso o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». La trappola funziona, e l’Urss si impantana in un conflitto da cui uscirà vinta nel 1989. Va detto per inciso che dove è stata sconfitta l’Armata rossa, già vincitrice della Seconda guerra mondiale, gli Usa e i loro alleati inizieranno una nuova guerra nel 2001, ancora in corso, dimostrando che lo spargimento di sangue può essere per alcuni esiziale, e per altri un affare, a seconda del modello politico ed economico.
Torniamo a fine anni Settanta e agli anni Ottanta. Fra Medio Oriente e Asia Centrale il potere capitalista, mentre nella guerra Iran-Iraq mette il fondamentalismo islamico e il totalitarismo arabo l’uno contro l’altro, curando che il conflitto renda denaro e impedisca qualsiasi democrazia, contemporaneamente fomenta l’islam radicale nell’Afghanistan che l’Urss tenta invano di controllare, e guarda anche alle repubbliche sovietiche caucasiche, dove la popolazione è musulmana (sono terre di petrolio, e già la Germania voleva assumerne il controllo; forse persino la battaglia di Stalingrado va letta tenendolo presente). Negli anni Ottanta, la propaganda nei paesi Nato insiste su una versione mitizzata: l’Urss atea e tecnologica non riesce a controllare un paese arcaico e religioso perché gli afghani, musulmani osservanti, si battono con fierezza per le loro tradizioni. Chi dal 2001 ha ascoltato una nuova propaganda, con i musulmani afghani diventati barbari e oscurantisti, ha avuto l’impressione di vivere un incubo orwelliano.
Una tenaglia, dunque. In Europa il cattolicesimo, in Asia l’islam. Perché? Di fatto, il blocco socialista riuniva una moltitudine di popoli, parlanti innumerevoli lingue, scritte in parecchi alfabeti. Approfittando delle differenze religiose, un’astuta geopolitica del divino ha fatto leva su problemi irrisolti, ruggini identitarie, crisi economica. Il sorpasso tecnologico (insieme ad alcuni rovesci, come Chernobyl) ha fatto il resto. Senza Wojtyla non sarebbe stato sconfitto il comunismo, ha detto l’ultimo presidente dell’Urss, Gorbaciov. L’affermazione è un po’ esagerata, la realtà è più complessa. Ma certamente coloro che vogliono attribuire la vittoria al cosiddetto «santo subito» non sono disposti ad ammettere che se fosse così, dovrebbe condividere il successo con l’islam radicale: della tenaglia, sarebbe solo una delle due metà. Dall’altra parte, c’è Osama Bin Laden (attivo in Asia Centrale sin dall’inizio del papato di Wojtyla). Gli eroi fanno comodo in imprese solitarie, non in società con azionisti caduti in disgrazia.
Com’è avvenuta, in concreto, la mobilitazione della Polonia? Sul malcontento hanno fatto presa un uso massiccio della propaganda mediatica, specialmente radiofonica, e una mobilitazione capillare del clero cattolico. Ma c’è stato anche altro. Ne dà un’idea quanto rivelato di recente da un personaggio chiave del mondo spionistico di quegli anni: Francesco Pazienza, protagonista del Sismi deviato. Pazienza ha descritto come dal Vaticano veniva finanziato il movimento di opposizione polacco, con oro nascosto nel doppiofondo di autovetture, condotte da chierici dall’Italia a Varsavia. La fonte va presa con cautela, si tratta di un uomo condannato per depistaggio; ma se qualche dettaglio è opinabile, c’è poco da dubitare sulla sostanza. Ancora più inquietante, è l’interrogativo sulla provenienza dei fondi, specie se si considera che in quegli anni, con l’incremento di tutte le attività della delinquenza organizzata in Italia (anche traffico di stupefacenti, estorsioni e sequestri di persona), cresceva il volume della liquidità criminale. Di certo, in questo ha avuto un ruolo decisivo lo Ior: uno dei più importanti pentiti ha rivelato come il denaro della mafia fosse investito proprio attraverso l’istituto. Il potente Paul Marcinkus, al suo vertice sino al 1989, ha sostenuto movimenti di destra in Europa e nell’America del Sud, e il Vaticano l’ha protetto dalle inchieste della giustizia italiana. Chi un giorno riuscisse a ricostruire tutto il percorso economico con cui è stato finanziato il sabotaggio del blocco socialista, scoprirebbe le radici melmose di certe rispettabilità.
Qui è necessaria una digressione, perché se la tenaglia geopolitica è facilmente distinguibile, più difficile è percepire una profonda differenza fra i suoi due estremi. L’Afghanistan è sempre stato l’Afghanistan, ma la Polonia no. Il tema è spinoso, e va accennato con cautela.
Nella crisi politica del blocco socialista la Polonia ha avuto un ruolo determinante, era il paese con l’opposizione più organizzata. Negli altri, o mancava una religione unica, o prevaleva quella ortodossa, non soggetta al papa, o addirittura mancava una lingua unica (così era in Cecoslovacchia); in nessuno, era così forte una religione governata da una guida posta nell’altro blocco. Non era così neppure nelle società socialiste di religione islamica: né le guide religiose del Cairo per i sunniti, né quelle iraniane o irachene per gli sciiti, sono per i musulmani ciò che è il papa per i cattolici.
La Polonia dopo la Seconda guerra mondiale è un’entità nazionale profondamente cambiata: è diventata, caso raro in Europa, un paese monolitico dal punto di vista etnico, linguistico e religioso. In passato, la presenza di un elevato numero di ebrei, oltretutto poveri e per lo più distanti dal nazionalismo polacco sin dal Diciannovesimo Secolo, e anche di tedeschi, ne faceva un paese percorso da profonde differenze. Sterminati gli ebrei, ed espulsi i tedeschi dopo la vittoria sovietica, la Polonia del secondo Novecento è il risultato di una pulizia etnica e religiosa senza precedenti.
La storia non si studia coi se, ma è impossibile sfuggire a una domanda atroce. Come avrebbe potuto, la mobilitazione politica della chiesa cattolica, possedere efficacia capillare, contare su un vasto appoggio di popolo, e soprattutto non avere alcun contraddittorio, se la Polonia non fosse stata un paese tutto polacco e cattolico? Senza lo sterminio degli ebrei e l’espulsione dei tedeschi, che seguito avrebbe avuto il papa polacco, contro il comunismo? Allora la lunga, sanguinosa operazione durata dal 1939 al 1989 potrebbe essere leggibile così: prima la rivoluzione sovietica ingoia un boccone avvelenato, poi ne subisce gli effetti. Con la vittoria militare costata all’Urss tremende distruzioni e milioni di morti, il blocco socialista cresce ma ingloba un paese sensibile a un capo carismatico posto nel campo avverso; decenni dopo, quel capo non è più l’italiano filotedesco (Pacelli), né il vivace uomo del Concilio vaticano secondo, coevo alla decolonizzazione (Roncalli), e neppure l’intellettuale manovriero cresciuto nella Segreteria di stato (Montini), né il suo precario successore (Luciani). Nel 1978, chi è? I tempi sono maturi, il sorpasso tecnologico è in atto: arriva un polacco. E il cavallo di Troia apre il ventre sulla Vistola, mentre una destabilizzazione pilotata costringe i sovietici all’intervento in Afghanistan, all’orizzonte si affacciano Reagan e Thatcher, e nell’Europa della Nato un altro cavallo di Troia si insinua nella sinistra: Bettino Craxi, che farà comodo a Wojtyla per il nuovo Concordato, e a Reagan per gli euromissili.
Certo, il ruolo della Polonia nella crisi del blocco socialista è più complesso di una mobilitazione di sacrestie. Eppure è difficile, per i sostenitori del cosiddetto «santo subito», ammettere che il terreno per l’attivismo papale sia stato dissodato dallo sterminio e dalla guerra. Chi lo vuole, un gregge selezionato da un pastore imbarazzante? È brutto, riconoscere un debito nei confronti di Adolf Hitler. La croce si è mostrata uncinata solo nella zuffa, poi ha ritratto gli artigli. Ed è confortante, attribuire all’uomo tutto nero la sconfitta, e all’uomo tutto bianco la vittoria. Ma vanno citate, quanto a chiarezza, le parole del segretario del Pci Natta a novembre 1989, direttamente nella sede del partito: «Qui cambia il mondo, cambia la storia. Ha vinto Hitler».
Nel 1939, minacciato dalla Germania ma restio ad accettare aiuti dall’Urss, il governo di Varsavia scelse l’equidistanza; un ministro disse che la Polonia coi tedeschi avrebbe perso la libertà, e coi russi l’anima. Se oggi Hitler e Wojtyla potessero parlarsi, forse il primo sosterrebbe di aver dato alla Polonia un’anima, e il secondo di averle restituito la libertà. Mentirebbero entrambi: il primo voleva cancellarla, il secondo l’ha trasformata in un satellite degli Usa. È prudente, chi mette l’uno fra i dannati e l’altro fra i beati: un abisso incolmabile previene certe pericolose conversazioni. Ma adesso, torniamo sulla terra.
Rigido sulla dottrina cattolica, Wojtyla si schiera contro la «cultura della morte», un concetto in cui è riassunta la gestione scientifica, e per questo impegnativa e opinabile, dell’inizio e della fine della vita biologica. Eppure, più volte approva la guerra, parlando sin dai primi anni Novanta di «intervento umanitario», «diritto d’intervento per la salvaguardia delle popolazioni», «reazione ferma e concertata». Del resto, rivolgendosi al Nato Defence College a febbraio 1994 (quando è già iniziata la liquidazione della Jugoslavia), è ancora più esplicito, chiamando l’istruzione militare «la vostra formazione e le vostre abilità professionali». Tutte queste sue affermazioni sono notate con favore dalla rivista dei gesuiti. E ancora, in vari rapporti del 1991 dell’ambasciata Usa presso il Vaticano risulta che ufficiosamente quest’ultimo approva la guerra in Iraq («In privato, il ministro degli esteri della Santa Sede ha espresso comprensione per la nostra posizione»). Ancora, si segnala il pronto riconoscimento della Croazia da parte del Vaticano a gennaio 1992, un gesto che legittimando la dissoluzione della Jugoslavia contribuisce ad aprire la strada alle guerre dei Balcani.
Ma c’è stata un’altra guerra, diffusa e nascosta. Quali sono state le conseguenze dell’arrivo del capitalismo nell’Est europeo e nell’Urss? Secondo la rivista di medicina «Lancet», il passaggio dall’una all’altra economia ha causato un milione di morti. Ma secondo l’Unicef i morti sono tre milioni, e secondo uno studio del 1999 dell’agenzia Onu Undp si tratta addirittura di dieci milioni di persone. Sono morte di denutrizione, di freddo, di stenti. Sull’abito candido che Wojtyla ha lasciato al suo successore, invano si cercherà una sola goccia di questo sangue. Certo, si possono ricordare le sue dichiarazioni contro le ingiustizie del capitalismo. Ma in concreto, contro il capitalismo è stato detto, e contro il comunismo è stato fatto. Non è stato usato denaro del Vaticano (e di provenienza sporca), per destabilizzare gli Usa o per staccare un paese cattolico dalla Nato.
Adesso, i contraccolpi di quella guerra nascosta si fanno sentire, anche se si stenta a coglierne l’origine. Gli operai italiani malpagati e costretti a dure condizioni con la minaccia di trasferimento degli impianti in Polonia o in Jugoslavia, faticano a capire che questi ricatti sociali non sarebbero possibili, se appunto non fossero mutate le condizioni geopolitiche. Per colmo di beffa, Wojtyla è beatificato il 1° maggio, festa del lavoro.
A proposito di memoria, è illusorio sperare che gli ebrei ricordino meglio. La partita geopolitica ha coinvolto anche loro.
I rapporti diplomatici fra papato e Israele sono stabiliti nel 1994, dopo varie dichiarazioni di Wojtyla, sin dall’inizio degli anni Ottanta. Soprattutto, sono successivi alla formalizzazione delle piene relazioni fra il Vaticano e gli Usa, nel 1984. Attenzione alla tempistica: il decennio in cui sono stabilite le relazioni ufficiali prima con gli Usa, e poi con Israele, comincia poco dopo l’imposizione del regime militare in Polonia, e nel pieno della questione degli euromissili; termina dopo la fine del blocco socialista e durante la spartizione dei Balcani tra affaristi, criminalità e islam radicale. Nel frattempo, nel 1986 il papa va in sinagoga (che dopo pochi mesi Mordechai Vanunu sia rapito a Roma dal Mossad è una coincidenza, ma esprime bene la debolezza italiana).
In concreto, il punto di vista ebraico su Wojtyla è generalmente roseo. Non lo offusca neppure il fatto che il Vaticano unisca idealmente Wojtyla a un papa verso il quale la memoria ebraica ha ottime ragioni per essere critica: Pio XII. Anzi, a Wojtyla e a Pacelli sono state riconosciute contemporaneamente, a dicembre 2009, le «virtù eroiche» (la prima tappa ufficiale verso la santità). Dopo qualche scaramuccia polemica, le beatificazioni sono state sfasate nel tempo, per venire incontro al punto di vista ebraico senza cambiare quello cattolico. Un’ipocrisia davvero misera.
A conferma della vicinanza fra i due papi, sta il tipo di alacre impegno di Wojtyla (viaggiatore come Pacelli), sia in politica con l’appoggio ai regimi dittatoriali, sia nella religione con l’attacco alla Teologia della liberazione (uno zelo in cui a livello pratico si distinse anche Ratzinger). Eppure, quando Wojtyla nel 1983 visitò uno dei paesi più vivaci su quel fronte, e nella piazza della Rivoluzione a Managua non accolse la richiesta di pregare per le vittime dei Contras, i nicaraguensi protestarono: «Fra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione».
Qualche altro elemento avvicina i due. Di Pio XII, si sostiene senza riscontri che i nazisti ne avessero progettato il rapimento. E i sostenitori della canonizzazione di Wojtyla danno credito alla tesi che il suo rapimento l’avessero progettato le Brigate rosse («la Repubblica» e il «Corriere della sera» lo riferiscono senza una riga di critica). Ribadisce il legame, con intenti agiografici, una narrazione avallata anche dal «Giornale»: qualcuno prega Wojtyla per un miracolo, lui appare in sogno e invita a pregare Pacelli. L’invito è accolto e il miracolo è ottenuto.
Insomma, Wojtyla viene beatificato. Si potrebbe osservare che proprio il suo papato ha volgarizzato la santità ufficiale: pare che abbia beatificato più persone che tutti gli altri papi insieme (di certo, anche il fondatore dell’Opus dei e il criminale nazista Stepinac; ma non il vescovo Oscar Arnulfo Romero, assassinato dai fascisti). Ma l’osservazione è debole, perché il provvedimento ufficiale e il rito hanno un potere di suggestione che pesa e che resta. Comunque va sottolineata qualche particolarità: sono trascorsi pochissimi anni dalla morte, l’interessato e l’officiante sono stati nominati cardinali dalla stessa persona (Montini), e la beatificazione di un papa avviene a opera del suo immediato successore.
Il procedimento che ha portato alla decisione su Wojtyla protocolla il soprannaturale, e non tutti possono consultarlo per intero. Questo scritto, invece, è pubblico ed è solo a nome mio. Soprattutto, non è una sentenza: le condanne in effigie non servono, e spesso sono le sorellastre degli altarini. Mi piacerebbe invece che a distanza di tempo, non so quanto, venisse considerato fra i primi sguardi concreti sulla realtà. Come uno stropicciarsi gli occhi, per un sano risveglio.