di Angelo Orlando Meloni
“Fermati, Gianni”, ordinò il professor avvocato Onorevole Elio Sofferti al suo autista. “Fermati, ho detto”.
“Subito, Onorevole”.
Elio si fiondò in strada, lasciando Gianni alle prese con un concerto di clacson e con automobilisti pronti a tutto pur di percorrere altri dieci centimetri.
Il prof si chinò su di un cumulo di rifiuti. Sotto un paio di sacchetti puzzolenti si nascondeva l’oggetto che aveva intravisto dalla carreggiata: un amplificatore tutto rotto dal quale recuperò due valvole color rame. Si ricatapultò in macchina con il bottino in mano e cominciò a spolverarlo con le falde della sua giacca senza neanche degnarsi di rispondere ad alcune telefonate di vicecapitani d’industria, sotto-aiuti segretari e riepilogatori d’impegni di onorevoli, senatori e messi regionali. Solo un comando all’autista: “Andiamo”, e un mezzo sorriso alle valvole, anzi, la smorfia concentrata dei bambini quando defecano o giocano solitari, noncuranti del mondo.
L’auto blu avanzò a passo d’uomo e si inserì nel serpentone cromato che furoreggiava sotto i raggi del Sole. Era solo l’inizio dell’estate, ma già si schiattava dal caldo, l’università un forno a micro-onde tarato su misura per i saperi precotti dei suoi studenti. L’ultima lezione si era soffritta sul palato di Elio Sofferti, professore ordinario di diritto della navigazione e Onorevole in pole position nelle liste delle ultime trionfali elezioni, e le parole ne erano uscite come pietanze riscaldate con malagrazia. Con i nuovi, continui impegni alla Camera chi lo sa quando e se mai avrebbe fatto ritorno al dipartimento, ma tant’è, Elio scrollò le spalle. Aveva un bel volto, il professore, sbarbato e pulito, i capelli neri — qua e là qualche raro ciuffo bianco — ancora saldi sulla calotta, e gli occhi luminosi, piccoli, con l’iride che sembrava volesse estendere i confini dei bulbi e trasformare la sua spocchia d’avvocato castigamatti in un languore da gesuita in missione evangelica in Cina. Stava con la schiena dritta sul sedile, rigido, rapinoso, rapito, come se contasse i metri che lo separavano da casa.
“Ciao, Carla, sono tornato”, annunciò a sua moglie, quarantacinque minuti dopo, entrando nel superattico. La signora Carla Adusi in Sofferti gli si fece subito incontro, ma del marito trovò le tracce: un vago aroma di deodorante misto a sudore, la valigetta, il cellulare.
“Elio, ma dove sei?”
“Sono qui, amore”, udì lei da dietro la porta dello studio nel quale il marito passava tutto il suo tempo libero.
“Ma non hai fame? Non vuoi pranzare?”
“Mi basta un panino e un caffè, al solito”.
“Al solito…”
Carla represse un sospiro e andò in cucina. Disse a Estrella, la governante, di preparare un toast e accese il televisore. Fece zapping da una commedia stravista a un classico in bianco e nero, passando per altri cinque o sei film per i quali non provava alcun interesse. Spento il televisore, si contemplò nel riflesso sullo schermo. Gli occhioni da diva, i capelli sempre perfetti e qualche ruga che però le dava lo stesso un’aria sexy, non del tutto disprezzabile neanche dai giovanissimi. Tamburellò con le dita sul tavolo, si passò una mano sui capelli e sulla nuca, poggiò la sigaretta mezza smoccolata sul posacenere, si guardò intorno, accese un’altra sigaretta sottilissima e disse a Estrella: “Ma tu lo sai che starà facendo lì dentro?”
“Non so, signora”.
“Te ci sei entrata, nello studio?”
“No”.
“Nemmeno io. Non mi ci ha fatto entrare. Ha anche cambiato la serratura”.
“Il toast è pronto, signora”.
“Portaglielo tu, che io proprio non è giornata… ah, Estrella, più tardi tua sorella e tuo cognato ci sono, vero? Mi raccomando, è una cena importante per… per Elio… Ma che caldo, però, che fa oggi”, improvvisamente colta da un flashback, l’estate ’82, i campioni del mondo, la marijuana al circolo, gli amici socialisti. Elio era bello, così bello.
“Sì, signora”.
“Cosa, che fa caldo?”
“No, signora, che mia sorella e mio cognato stasera vengono”.
“Ah, perfetto…”
Appena Estrella uscì dalla cucina Carla le fu dietro. Vide suo marito che apriva appena la porta dello studio, recuperava toast e tazzina e richiudeva senza dare alla domestica, e tanto meno a lei, il tempo di sbirciare dalla fessura.
“Oh, adesso basta! Elio, insomma, che stai facendo?”
E dalla porta chiusa: “Niente”.
“Ma come niente? Sempre niente mi dici. Dai, voglio vedere. Elio…”
“Elio?”
“Elio!”
Ma in risposta solo il silenzio e qualche colpo di martello come scagliato sulla cristalleria o pestato su una lamiera.
“Elio ma perché non capisco, Elio insomma!”
La sceneggiata andava avanti da un paio di settimane, da quando cioè l’onorevole, fulminato sulla via di Damasco, aveva cominciato a trafficare in segreto. Carla ogni giorno insisteva per qualche minuto, quindi, sconfitta, si sdraiava sul letto e aspettava che il marito uscisse dallo studio. Ma a quel punto Elio le dava una solenne ripassata, come raramente faceva da che gli impegni si erano moltiplicati, e Carla si ammorbidiva. In effetti la sig.ra Sofferti da quel punto di vista non aveva di che lamentarsi per le stravaganze del marito, se non fosse che tutto quel mistero, alla lunga, la stava facendo ammattire.
“Elio ti prego di farmi entrare…”
“Dai, amore, non ho tempo. Devo assolutamente finire”.
“Ma finire cosa?”
Carla diede un pugno sulla porta, una muta imprecazione; e la minuta Estrella sembrò compartecipare con uno sguardo penoso. Ma fu solo un attimo, i rispettivi ruoli si imposero in pochi secondi. Carla impartì le istruzioni per la cena e si andò a coricare, in fondo sarebbe potuto andarle peggio, avrebbe potuto sposare il Ghinelli e finire i suoi giorni a fare marce della pace e a prendere manganellate sulle gengive.
La bella signora sognò di essere a una festa dove c’erano solo mogli di parlamentari di destra. Erano tutte vestite come principesse e portavano veli di sete preziose e gioielli pesantissimi a forma di manette, enormi cipolloni a 24 carati, falchi stellari d’argento e titanio appollaiati sulle spalle; e si scambiavano doni l’un l’altra e leggevano passi dei protocolli dei savi anziani di Sion. Ma l’argomento più gettonato erano le dimensioni del pene degli onorevoli mariti. Il 13,2 di Elio era assai imbarazzante di fronte allo strabiliante 29,6 del ministro dell’Ambiente. Carla ne fu davvero dispiaciuta e pianse sommessamente, ma la calata del Figlio del Futuro riscosse gli animi, non solo il suo. Il Figlio del Futuro aveva una soluzione per tutti i mali e sorrideva beato da sotto il suo cranio splendente: tutti presero a ballare una suadente e spensierata Lambada…
Carla si rigirò nel letto.
A svegliarla era stato Elio, che con il trapano elettrico stava perforando qualcosa a tutta manetta. Carla si drizzò sul letto, accese un’altra sigaretta e trattenne la pipì. Elio trapanava e trapanava. Zizz-zizz. La bella signora spense la cicca e si lasciò cadere piano piano sul cuscino.
Sognò di nuovo del gran ballo delle gran donne della destra democratica. Ma la fisarmonica che ricamava la Lambada era diventata una specie di strumento elettrico a bassa fedeltà non meglio identificato. Delirio industriale di pistoni, frinire di campi magnetici terrifici come gli insetti la notte senza Luna. Il Figlio del Futuro avvolse la signora Carla Adusi in Sofferti in una stretta di ferro. Tenendola ben salda con i suoi bracci, il Figlio del Futuro vomitò pece e rise ticchettando, bomba a orologeria innescata. E gli occhi suoi diabolici cominciarono a roteare…
Carla spalancò gli occhi, fece un tiro schifoso dalla sigaretta spenta, rassettò il letto e si toccò il basso ventre. Elio aveva finito con il trapano e si stava concedendo qualche altra martellata. Carla andò al bagno. Seduta sul water riaccese il mozzicone e, a cose compiute, aprì la finestra per cacciare il fumo. Fuori, alla sua sinistra, c’era il balconcino dello studio con la porta-finestra aperta e la serranda quasi completamente chiusa. Era al quinto piano. Dieci forse quindici metri fino a terra, dove il cortiletto prometteva morte certa a chiunque fosse in vena di equilibrismi. Ma dalla finestra del bagno al balcone dello studio non c’era più di un braccio di distanza. Facciamo due.
Carla dovette fumarsene un’altra, fissando lo spazio vuoto finestra-balcone e pensando chissà che un tiro dopo l’altro, seguendo le volute di fumo che colmavano il baratro come se fosse la cosa più naturale del mondo. Buttata la cicca sul selciato, e liberatasi dell’infradito, arrotolò la maniche della camicetta e controllò la tenuta delle sigarette nella tasca dei pantaloni. La parte più difficile consisteva nello sporgersi sul davanzale, strettissimo, per prendere lo slancio.
“E uno, e due, via!”
Fece un salto scomposto e atterrò con la pancia sul passamano, per metà in salvo e per metà in aria. Un momento prima di scivolare all’indietro strinse le mani sulle sbarre. Lentamente, sollevò una gamba appoggiando il ginocchio sulla sommità della ringhiera e scavalcò con un movimento felice e silenzioso. Ne aveva ricavato un’unghia rotta, qualche livido e un po’ di tachicardia.
“Però”.
La serranda, ora. Carla la prese dal basso, infilando le mano nella fessura che rimaneva disponibile, e tirò su con uno strattone deciso. La serranda, quasi uscendo dalle guide, si alzò e si piegò con un rumore secco. Carla fu subito dentro. Il Professor Avvocato Onorevole Elio Sofferti, attonito, indossava un camice bianco e teneva in mano martello e pinze. Ai suoi piedi v’erano trapano elettrico, saldatore a stagno, cacciaviti, chiodi chiodini dadi lamiere vetri pennelli e bulloni, spruzzatori, colle, solventi, carta abrasiva, filo di ferro, spago, fili elettrici, scassume. Sul tavolo, al centro dello studio, c’era una carcassa metallica.
“Carla? Mi hai fatto prendere una paura, ma che ti sei impazzita? D-da dove… non mi dire, no, ma che hai scavalcato…? Almeno stai bene, ti sei fatta male? Come hai potuto fare una cosa così pericolosa…”
“Sto bene. Ho fatto un saltino”.
“Un saltino? Ma neanche al circo!”
“Ah, sta’ zitto. Fammi vedere, dai”.
“Vedere cosa?”
“Quello”, indicando la carcassa metallica.
Elio Sofferti si intromise tra il tavolo e la moglie: parve rifletterci. E si grattò la testa con la parte biforcuta del martello.
“Vabbe’, tanto tra poco l’avresti visto comunque. Era una sorpresa. Guarda”,
con orgoglio allargò le braccia e fece schioccare la pinza. “Guardalo.”
Stava disteso sul tavolo, assemblato alla bell’e meglio, sopra un lenzuolo — il lenzuolo buono di mamma ormai imbrattato di grasso e polvere. E sembrava sereno, sì, davvero serafico. Allungato sul tavolo e inerte. Come se per miracolo sapesse qualcosa senza capirci niente e tenendosela in ogni modo per sé. Bambini più dotati l’avrebbero costruito con maggiore accuratezza, più bello e più saldo, non così, che sembrava tenesse insieme per caso. Ma soprattutto, signori, sembrava assolutamente inutile. Insomma, come riassunse con efficacia la signora Carla: “Elio, ma che cazzo è?”
“Come, che cazzo è…?”
L’Avvocato Professore Onorevole Elio Sofferti poggiò pinza e martello sul bordo del tavolo e fece scivolare le mani sulla sua creatura. Vibrando di pura emozione ne sfiorò l’appendice superiore destra, che consisteva in un tubo di quelli delle condutture riverniciato color oro, con una guarnizione posta al centro, a simulare l’articolazione del gomito, e che terminava in una tenaglia a V, ricavata da due tavolette di plastica smaltata che sembravano trappole per topi, collegate all’arto tramite un groviglio di spago a triplo e quadruplo nodo. Le mani del Sofferti percorsero tutto il braccio artificiale fino alla spalla, giunta al corpo con alcune molle di cinque-sei centimetri, e raggiunsero la cassa toracica: cioè la vecchia stufetta dell’Ottocento che, Carla la riconobbe subito, il marito doveva aver rubato dal casale del cugino Mantegazzi. Lo sportellino della stufa era aperto. Il prof. Avv. On. prese delicatamente da un nido di materiali d’imballaggio le valvole che aveva trovato qualche ora prima. Le contemplò invitando la moglie a godere con lui della nobiltà del materiale, lucidato e rinnovato con sapienti spennellate, le calò dentro il torace della creatura e chiuse lo sportellino.
“Guardalo, guarda quant’è bello”.
Elio si piegò sulla stufetta per auscultarvi gli inesistenti battiti del torace e baciò il metallo. Con lascivia, si strusciò sulla creatura, ne indicò le gambe, per lui possenti e tremende, degne di un colosso mitologico: tra le gambe e il torace, innanzi tutto, un radiatore, inchiavardato sulla stufetta e sporgente, come paramento da cavaliere o metallico kilt, sui femori, rappresentati da quattro barattoli dipinti di azzurro cielo e saldati a due a due, che a loro volta fornivano la base per inserire, tramite adeguati buchi, gli stinchi, ossia una scopa, quella la cui scomparsa era stata denunciata dall’incolpevole Estrella, segata in due parti uguali incassate nei barattoli. E quindi i piedi, gli zoccoli olandesi di legno comprati da un lungimirante Elio nell’estate 1985 nella piazza di Groningen, coperti da due veli di taffetà che davano inspiegabilmente alla creatura un’aria a metà tra il moschettiere e il cardinalizio, unico vezzo concessosi dall’avvocato.
Infine, la testa. E cosa se non un vecchio televisore 16 pollici, bianco ridipinto azzurro, a bordini verdi e neri, con un microfono anni ’70 incastonato all’altezza della bocca e due vecchi obiettivi incollati con l’adesivo universale come occhi? A destra e a sinistra, invece, quali cibernetici orecchi il Sofferti aveva applicato due sezioni di bicchieri di plastica, anch’essi pitturati in tinta, e in cima un’antenna che aveva piantato con cura dopo averla spruzzata d’oro.
“È bellissimo”, concluse gemendo e urtando con l’avambraccio il martello, che cadde sul suo alluce destro con un rumore secco, di unghia spezzata.
Carla liberò una sedia di chiodi, viti, scotch, interiora di apparecchi stereofonici, batuffoli di cotone insanguinati, fogli di appunti e progetti, un diorama, una lente d’ingrandimento, un ventaglio squarciato, un sestante, una bussola, una calcolatrice lire-euro, un goniometro, un compasso spuntato e una “Gazzetta dello sport” letta e riletta. Rovesciò tutto per terra e si accasciò sulla sedia.
“È il mio super robot”.
Carla fissò il pavimento di marmo, ingombro e lordo. Si passò una mano sulla fronte sudata. Strabuzzò gli occhioni, le ciglia ripiegate agli angoli. Girò e rigirò un dito per i capelli. Respirò forte mentre il sole di tra le fessure della serranda mitragliava la sua schiena e la stanza. I raggi solari colpivano il volto di Elio Sofferti sparandogli sugli occhi centomila watt di abbacinanti domande, ma questi non batteva ciglio. Era assente. Stava officiando il mondo e la galassia sulla schiena del super robot, volava verso Aldebaran, aveva già superato Proxima Centauri; l’universo era enorme e buio, il suo araldo meccanico lo avrebbe protetto.
Al calar del sole, un’ora dopo, un’ora silenziosissima che sembrò durare una decina di secondi, Carla si strappò una ciocca rossa senza batter ciglio, annodandosela al dito.
“Il tuo super robot”.
La bella signora conservò la ciocca in una tasca, infilò la mano nell’altra e cavò fuori sigarette e accendino.
“Ed è pronto! Appena in tempo”.
“Appena in tempo per cosa, Elio”.
“Come, non capisci? È la Parola, è scritto, sai, prima che siano trascorsi cento giorni verrà il tempo dei super robot”.
“Elio, tu stai impazz… No, scusa, non volevo…”, forse non era troppo tardi, Carla si alzò e andò verso l’Onorevole marito per abbracciarlo. “Troveremo un dottore. Anzi, no. Una vacanza. Un mese, due mesi, tutto il tempo che vuoi”.
Ma non era così semplice.
“Carla, sei tu che stai impazzendo. Adesso ti pigli quattro gocce, ti dai una sistemata e non ci pensiamo. Ma stasera non vorrai mica rovinarmi la festa?”
Il prof. avv. on. E. Sofferti massaggiò la moglie dietro le spalle, facendole distendere la braccia, e asciugò con un dito una lacrima.
“È tutto a posto. È tutto sotto controllo. Ora ti fai la doccia e ti vesti. Nessun problema”.
Carla fissò il marito, i suoi capelli forti, la fronte ampia e liscia, gli occhi sinceri. Cosa c’era di sbagliato in quell’uomo dolce e sicuro di sé? Posò lo sguardo sul tavolo. La creatura stava lì, immobile coacervo di cazzate legate da spago, colla e scotch.
“Elio, ma non è una cosa normale”.
“Certo che non lo è. È il super robot”.
“No, cazzo! Elio hai costruito un giocattolo. Un feticcio che non serve a niente. Che cos’è?”
“Ma quante volte te lo devo dire, è il super robot”.
“E a che serve? Perché?”
“A che serve? Ma sei così stupida da non capirlo da sola?”
“No, non lo capisco”, Carla aveva preso il martello. “E sai che faccio? te lo distruggo, il tuo super cacchio!”
“Nooo!”
Il prof avv si frappose a Carla e al robot e riuscì a bloccare il braccio della moglie.
“Sei pazzo!”.
“No, tu sei pazza”.
E un attimo prima che potessero azzuffarsi per davvero, una voce.
“Signori…”
Carla e Elio sgranarono gli occhi bisognosi di un prodigio.
“Signori, scusate”.
Ma non era il microfono del super robot. L’avv. professore socchiuse la porta.
“Sì, Estrella, che vuoi?”
“Sono arrivati gli ospiti”.
“Accidenti, ce l’ho fatta per un pelo”, esclamò saltellando sul posto e spalancando la porta. “Dove sono, dove sono?”
“Stanno salendo, signore”.
“Bene, bene… ma non c’è nessuno ad accoglierli?”
“Mia sorella è già pronta, Onorevole”.
“Benissimo”.
“Elio, ma che, non vorrai fargli vedere…? Chiudiamo tutto, presto. E levati quel camice. Io faccio ancora in tempo a mettermi una gonna…”
“Carla per piacere non è il momento”.
“Ma Elio, c’è il ministro, e il sottosegretario, e il segretario personale dell’arcivescovo, il conte e la contessa, e il sottosegretario alla depenalizzazione, e le signore mogli… Carlo, ma ti vuoi… ci vuoi rovinare?”
Il gran corteo era arrivato. Entrarono uno alla volta, e con loro i regali, fiori, gioielli, soprammobili d’argento e d’oro, vini più pregiati del sangue umano e una reliquia di santa Lucia, una scheggia di unghia, gentilmente donata dall’arcivescovo Cinciglione de Grandis IV. Un tourbillon di baci, abbracci e salamelecchi che vorticava di colori blu e verde, porpora e nero, fra coccarde e bandierine tricolore.
L’Avvocato Onorevole professore Elio Sofferti disse: “Cari ospiti, cari amici, bando alle ciance. Accomodatevi pure nel mio sancta sanctorum”, e allontanò la moglie con uno spintone.
“Siamo rovinati…”, pensava Carla. Cosa sarebbe stato di loro, coppia felice e rampante, dopo che quegli individui molto influenti avessero visto il risultato della follia del marito? Era la fine. Ed Elio, poverino, lo avrebbero ricoverato in una clinica. Altro che veglioni in Costa Smeralda. Ogni anno un passo dopo l’altro, volevano sempre di più, ed ecco il risultato: la follia, il fallimento. Derisi e compatiti da tutti. Sì, inevitabile, la fine.
“Oooh!”
Quale coro di ammirata sorpresa, amici.
“Oooh!”
Una fuga di “O” deliziate, inaspettate, provenienti dallo studio. Carla vi si fiondò immediatamente. Suo marito era al centro dell’attenzione e stava mostrando i segreti del robot. Illustrava i passaggi tortuosi che aveva dovuto intraprendere per venire a capo dei numerosi problemi costruttivi, e come la soluzione fosse sempre a portata di mano, ovvia ma nascosta, provocando risolini compiaciuti. I suoi amici lo guardavano estasiati e riservavano un sentimento ancora più nobile per la creatura.
“Che bella”, dicevano le dame. “E che bravo lui. Un galantuomo”.
Il segretario personale dell’arcivescovo si schiarì la voce e proclamò: “Prima che trascorressero cento giorni venne il tempo dei super robot”; e spruzzò di alcune gocce di acqua santa il testone a 16 pollici, sfiorandolo leggermente con le labbra.
“Evviva!”
“Bravo il nostro Onorevole!”
La contessa avvolse Carla con la sua stola di seta pitonata.
“Caara. È meravigliooso. E come sta beene, lei”.
“Sì, contessa, meraviglioso”.
“Un applauso all’Onorevole!”
Tutti battevano le mani. Furono stappate le bottiglie. Carla vide gli autorevoli ospiti che mandavano giù i primi e i secondi bicchieri.
“Ognuno avrà il suo super robot. Ogni cittadino. È un concreto impegno del governo”, dichiarò il ministro. E ancora applausi e brindisi. La contessa non voleva mollare Carla.
“Ma che ha, mia cara signora. È emozionaata?”
“Be’ contessa… insomma… non me l’aspettavo”.
“Oh quanto è dolce lei, così giovanile e beella. Il futuro è suo, suo e di suo maarito!”
La fine. Forse tutto è cominciato con quei mondiali di Spagna. Non avremmo mai dovuto vincerli, mai, ci siamo montati la testa. Si disse Carla accettando un bicchiere di prosecco. Era buio, fuori, e l’indomani sarebbe tornato, tremendo, il sole, senza pietà come sempre. Era solo l’inizio della lunga estate 2001 e chissà quante altre cose sarebbero successe prima che fosse finita; non era mica detto che lei dovesse capirle tutte, vero? È la fine, concluse, di un altro giorno. Carla appoggiò il calice alle labbra, sorridendo, e buttò giù il liquido cristallino.
Il prof. Avv. On. Elio Sofferti diede di gomito al super robot e fece l’occhiolino agli ospiti: “Stai buono tu, automa. Torno subito”.
Strinse la moglie fra le braccia.
“Allora, ti piace?”
“Sì, Elio”.
I due si abbandonarono l’un l’altra. Un bacio leggero ma pure appassionato. Poi la truppaglia attaccò a cantare in coro: “PERCHÉ NOI SIAMO… NOI SIAMO… I SUPER ROBOT!!”
(Nota: questo racconto è stato pubblicato, in una sua precedente stesura, su Nuova Prosa n. 38, Greco & Greco Editori 2003)