di Dziga Cacace

Non per ti contraddicere, pastore…
Vittorio Gassman in
Brancaleone alle crociate

DDV2301.jpg275 — Il digestivo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, Italia 1979

Ci piglia la febbre del sabato sera e si opta per pizza deluxe (io indulgo in speck, brie e colesterolo a mille) e videocassetta di contorno. Con Alessandra un lampo di turpitudine ci attraversa gli occhi: sul desco riposa intonsa la vhs uncut di Cannibal Holocaust e per un momento abbiamo quindici anni e sentiamo prepotente il sapore del proibito. Ci buttiamo e mo’ vi racconto tutto, ma proprio tutto tutto: una spedizione di giovani giornalisti si spinge all’interno dell’Amazzonia per testimoniare la vita degli ultimi indios cannibali. Però la missione non fa ritorno e dalla cosiddetta civiltà viene mandato il prof. Munroe per un improbabile salvataggio. Vengono recuperate solo le bobine del materiale girato e lo sviluppo, a New York, rivela l’atroce verità. I quattro spregiudicati esploratori, per ottenere materiale sensazionale, non hanno esitato a provocare le reazioni degli indios dando fuoco, uccidendo e violentando, in un crescendo di allucinante follia. Sinché i poveri cannibali non si son rotti comprensibilmente i coglioni e hanno reagito con elegante compostezza e — uno a uno — si sono magnati tutti i bianchi cattivoni. Il caso ha voluto che qualcuno avesse sempre una cinepresa accesa e la cruenta libagione è rimasta impressionata su pellicola. E non è finita: una rete televisiva vuole mandare tutto in onda e allora, rifiutandosi di partecipare allo sconcio, l’ormai mitico prof. Munroe commenta: “Sometimes I wonder who the real cannibals are”. Applausi.


Film shock volutamente estremo, rifiutato dalla critica e abbracciato dal pubblico tanto da ottenere un clamoroso successo internazionale che ha dato la stura a una miriade di imitazioni, Cannibal Holocaust ha un sacco di motivi d’interesse. Innanzitutto la storia (né più né meno Blair Witch Project vent’anni prima, ma qui c’è l’evidenza, là la suggestione) col “manoscritto ritrovato”, la pellicola che ci mostra quattro giovinastri che provocano la realtà, trasformandosi in assassini. A un diverso livello c’è il prof. Munroe che è disgustato dalla pratica professionale dei sedicenti giornalisti ma anche da quella della tivù che vuole mandare in onda il raccapricciante materiale raccolto. E infine c’è il livello reale con Deodato che mette in scena (vero falso e falso vero, mescolando ambiguamente) cercando anche lui la sensazione forte, il colpo basso, oltrepassando i limiti del buon gusto e dell’etica (cos’è lecito mostrare?). Ed è qui che il film ha per me un valore notevole (al di là che, narrativamente, tenga bene): ha il fegato (e l’astuzia e il pessimo gusto) di oltrepassare ogni limite. L’obiettivo è shockare e viene raggiunto. Che i motivi siano bassamente alimentari e discutibili, va da sé, non cambia molto i termini della questione: c’è lo sforzo di raggiungere il pubblico con una cosa diversa, inedita, andando incontro a scandali, magari giocandoci, ma comunque prendendosi il rischio, sfidando qualunque correttezza politica. Deodato ci riesce nonostante attori canissimi, ambientazioni infernali e mancanza di materiale girato; e ha coraggio perché il film repelle sul serio e non è così facile come sembra (e repelle oggi, a distanza di vent’anni dalla produzione). Tra i momenti clou del film spicca l’aberrante uccisione live della tartaruga, letteralmente sgusciata (le interiora ricordano la pizza appena mangiata, e non è il massimo, digestivamente), e infastidiscono molto anche le scene di violenza e stupro ai danni degli indios. Tutta l’allegra vicenda è impreziosita da un contagioso motivo musicale di Riz Ortolani, straniante perché melodico e saccarinoso come solo nei Settanta, alternato a gravissime note sinistre. Uno degli attori principali è l’impunito Luca Barbareschi (che ammazza un porcellino) e direttamente dal Festival degli sconosciuti di Ariccia c’è anche Francesca Ciardi (nella fondamentale parte di Faya Daniels). L’unico attore vagamente già visto è Robert Kerman che impersona il professor Harold Munroe, attore porno noto ai più come Richard Bolla, ancora attivo nel genere nel 1997 (secondo l’Internet Movie Database, non ho esperienze dirette). A fine visione Barbara e Alessandra sono abbastanza sconvolte dall’esperienza. Io no, ma lavoro a Mediaset. E poi gli animali fatti secchi, anche Bertolucci e Olmi etc., etc., e poi: se sei un autore è consentito e se sei un cialtrone no? E bla bla. Vabbeh. Poi su La7 abbiamo decompresso con Asino chi legge di Pietro Reggiani, corto che avevo visto vincere il primo Genova Film Festival 4 anni fa. Ancora grazioso, aggettivo che non userei per Cannibal Holocaust. (Vhs originale; 11/5/02)

ddv2302.jpg276 — La fuga di Logan in pigiama di Michael Anderson, USA 1976

E ora un bel film di fantascienza seventies, quella naïf, coi costumini aderenti e i colori pastellati. Siamo nell’anno 2274; si vive sibariticamente felici e ottusi sotto una cupola che protegge dal mondo esterno, ma c’è un problema: si arriva fino ai trenta, poi, ciccia, si fa spazio agli altri. Logan 5 è un Guardiano che presiede alla procedura e lo incaricano di investigare sui ribelli che sfuggono all’eutanasia forzata, ma lui non ci sta, si ribella e — toh! — comincia la sua fuga. Attento allo spoiler: i ribelli in realtà diventavano la pappa per chi rimaneva nella città e là fuori è tutta una giungla, cresciuta sulla terra devastata dalla guerra nucleare. Quando Logan torna in città a raccontare le news non lo crede nessuno e il super computer che gestisce tutto va in (con)fusione. La cupola si apre e siamo tutti liberi e belli, anche se voglio proprio vedere cosa si servirà per cena. Boh: una fantascienza pre Blade Runner, dove sembrano tutti a un pigiama party, con aggiornamento stilistico al gusto tardo hippie e al design coevo. Allora era moderno e futuribile l’uso di specchi, le superfici lisce e uniformi, la pulizia, lo splendore delle cromature. Oggi fa sinceramente schifo, così come i patetici modellini in plastica e gli effetti speciali infantili (che nonostante tutto valsero pure un premio Oscar). Mah: è un filmetto molto interessante sulla carta e oggi un po’ spompato, con un futuro dove si pratica — per dire — ancora lo struscio serale per trombare. Qualche guizzo c’è, come il centro dell’eros con torme di lascivi figuri che si lanciano indemoniati su chi vi si avventura (evidentemente lo struscio è per i timidoni). Oppure la critica alla fede religiosa (a trent’anni si “rinasce” rimanendo fulminati come una zanzara sulla resistenza elettrica nel magnifico Carousel). E non sono niente male le location reali (architetture moderne di Dallas, Arlingon e Forth Worth). Il protagonista Michael York ha una assurda faccia di pongo ma gli si perdona tutto essendo stato l’indimenticabile Beau Geste di uno sconclusionato film di Marty Feldman. La figa di Logan è l’insipida Jenny Agutter e c’è pure una fugace apparizione phonatissima di Farrah Fawcett. A conti fatti si tratta di un film mediocre nella realizzazione, che oggi difficilmente potrebbe incantare un bimbo, figuriamoci un adulto. E poi dura una bella mezz’ora di troppo. L’ascendenza letteraria, tanto per cambiare, non la conosco e a quattordici anni ho letto soltanto la riduzione a fumetti, uscita in Italia per l’Editoriale Corno. Bei tempi. (Vhs da beta; 12/5/02)

ddv2303.jpg278 — Cosa c’è Oltre il giardino secondo il grande Hal Ashby, USA 1979

Finalmente a Genova! A fine maggio l’aria è già calda ma non troppo. Senti l’odore dei pitosfori e montare sulla Vespa al tramonto è un piacere indicibile, mentre la città annega in una luce dorata. Quando entri in sala c’è più fresco di fuori e il cineclub Lumière mi sembra più piccolo; io sono sicuramente più grasso e l’odore della moquette bagnata m’inebria ancora. Ci saranno una quarantina di persone e l’occasione è data dalla proiezione di un film che — in qualche maniera — parla di tivù e allora sono venuto come un figliuol prodigo a presentarlo assieme a un collega, autore di lungo corso e responsabile anche di più di una vaccata dalla grande audience. Chance Gardiner (tradotto Chance “il giardiniere”, come se non fosse il cognome, vabbeh) deve affrontare il mondo perché è morto il principale da cui è stato a servizio sin dalla nascita. Tutto quello che sa lo ha imparato dalla tivù, imitandone la già banalizzante rappresentazione del mondo. Ma l’ingenuità di Chance è vincente in un mondo che ha bisogno di eroi semplici e puri. Chance ripete, quindi rassicura. Dice frasi che possono essere interpretate in mille modi, tanto da diventare perfette metafore per le masse. Da uomo ignorante senza passato diventa presto l’uomo più popolare della nazione, forse lo faranno anche presidente. Oltre il giardino è un film sul Potere e sulla sua amministrazione attraverso la tivù. Ma non solo, troppo facile, però il problema è che non sono ancora riuscito a inquadrarlo bene. Narrativamente Ashby ha qualche lentezza ma costruisce per piccoli particolari (come in Harold e Maude), obliquamente. La cura fotografica e un certo humour sommesso impreziosiscono il film, ma la cosa che più fa godere è la musica. Quando Chance viene al mondo, uscendo per la prima volta di casa, Ashby mette a commento la versione funky jazz di Così parlò Zarathustra di Deodato (non Ruggero di cui sopra; un brasiliano allegro, stavolta), azzeccatissimo abbinamento che rimanda con bella ironia a 2001. E sono splendide anche le sinistre composizioni pianistiche e orchestrali di Satie. Notevoli i titoli di coda, con i salti di sintonia televisivi che diventano una composizione astratta di colori (e santo il Lumière, dove il film si vede fino alla fine). Come ne L’ultima corvée e in Harold e Maude anche Oltre il giardino è la storia di un disadattato che deve trovare il suo posto nel mondo; là un cleptomane o un depresso, qui un candido per cui il mondo è semplice come glielo ha mostrato la tivù e la vita è solo uno stato mentale. Il film ha la sua bellezza nel non avere una tesi predefinita, ma vallo a spiegare a chi ci ascolta. Il famigerato dibattito però parte e si parla in libertà di tivù, di politica e chiaramente di cosa abbia comunicato il film. A me scappa una pipì bestiale e soffro. Non ci sono pose intellettualistiche, nessun luogo comune indimostrabile (tipo “la tivù era meglio una volta!”) e nessuna sterile disputa etico-filosofica. Per questo è bello il Lumière: ognuno può dire la sua — pure io! — e se ne discute tranquillamente. Ma del film, alla fine, qualcosa mi sfugge. (Cinema Lumière, Genova; 17/5/02)

ddv2304.jpg279 — Il terremotante Super 8 Stories di Emir Kusturica, Germania/Italia 2001

Una vera sorpresa! Premetto: mi piace Kusturica. Non tanto quello posato, che fa il poetico e che si trascina per le lunghe (e anche lì c’è roba buona). No, preferisco quello energico, cazzone, travolgente, che asseconda il terremoto musicale balcanico che gli fa da colonna sonora. E aggiungo: mi è piaciuto tantissimo l’album della band di cui fa parte Emir, i No Smoking. Quando è uscito questo film, però, ho temuto il pacco alla Wenders: un film anemico che vive solo della sponsorizzazione e di un po’ di buona musica. E lo proiettava l’Anteo: insomma, l’ho evitato. Poi, una visione da Tele+ non la si rifiuta a nessuno, dài. E allora mi sono avventurato e, sorpresa, qui c’è un film vero, pulsante, vivo, zozzo. C’è una regia, un progetto, un racconto, un inizio e una fine. L’occasione è data da alcuni concerti della No Smoking Band. Conosciamo la loro storia e le loro ascendenze musicali attraverso i ritratti dei vari componenti, musicisti straordinari. La musica è un geniale mix di melodie slave e turche con le sonorità del rock, gli strumenti della tradizione, l’anarchia del punk e la capacità d’improvvisare del jazz. Ne nasce una contagiosa anarchia che coniuga musica tzigana da matrimoni e funerali, Boccherini e Santana. ‘Na bomba, insomma. Il film — come la musica — non è al risparmio come un Buena Vista Social Club, dove ci si limitava a riprendere. Là c’era la grandezza di Ry Cooder che aveva trovato dei personaggi incredibili, annegati però in una narrazione afasica e per nulla curata dal punto di vista estetico. Qui Kusturica gioca con le immagini (da vecchi super8, vhs, Dv e altro) e la musica stessa. Non ti annoi mai, c’è ritmo, ci sono sorprese e non ci si affida alla scappatoia del concerto con brani interminabili per fare minutaggio (vedi sempre l’esiziale parte finale di Buena Vista). La No Smoking Band funziona come una squadra di calcio, col consueto machismo da spogliatoio che conferma i tutti i luoghi comuni sulla vitalità slava: bevono, sono corpulenti, si menano amichevolmente, si commuovono e piangono calde lacrime, sono maschilisti e maneschi, si abbracciano, ballano ubriachi, ridono da morire. Per dire: Kusturica e suo figlio Stribor si pizzicano continuamente, sfidandosi a chi butta l’altro per terra e giù ceffoni, pugni sulla nuca, ditate negli occhi e rappacificazioni struggenti, pronti a ricominciare. La regia osserva tutto, sorniona, e coordina il materiale. Musicalmente Emir si concede qualche strimpellata di chitarra a volume bassissimo e non parla mai di musica, palesando il suo utile ruolo di padrino per niente occulto. Bel film, insperato. E meritato. Fan schifo solo i sottotitoli, affidati a un gonzo che non sa chi sia Django Reinhardt. Un Dio. (Vhs da Tele+; 18/5/02)

280 — L’undergroundissimo A mosca cieca di Romano Scavolini, Italia 1966

Il caso fa trovare a un tizio una pistola dentro una macchina in sosta, e questo — altrettanto a caso — decide di ammazzare qualcuno. È, più o meno, la storia dello sconosciuto ammazzato per diventare ricco, ma non c’è compenso, solo desiderio di sentirsi — paradossalmente — vivo. Bocciato nel ’66 dalla censura (per una zinna della Troschel), oggi è gentile omaggio di Fuori Orario. Sembra un Godard alla Bertolucci (c’è qualcosa di Prima della rivoluzione): molta grafica, molto movimento della macchina da presa, molto montaggio, anche in colonna sonora (stacchi improvvisi o innaturali). Poche parole, tante didascalie, tantissime ripetizioni. La narrazione non è il fulcro e decido che non ha senso dar retta ai dialoghi ma conviene farsi prendere dal vortice delle immagini, spesso prese di nascosto, rubate in estrema libertà. Alienazione, consumi, perdita d’identità: il delitto gratuito è un prodotto della società del benessere, fatto dalla massa contro la massa in un supremo gesto di autoaffermazione. O magari no. Protagonista è un Cecchi giovane e sfrontato che ammazza un tifoso calcistico (mentre s’accascia — in parallelo, genialata — è montata una parata a terra del portiere) e che, dopo avere ucciso, guadagna un’identità (si fa le fototessera). Le ultime scene sono misteriosissime: degli sfuocati super8 casalinghi con facce nuove, tra cui quella inusitata di Pippo Franco. (O il film era già finito? Boh! Comunque prima c’era anche il grande Remo Remotti). A mosca cieca è sperimentazione dura, underground, suggestiva, che punta dritta al nostro inconscio e io dovrei scrivere queste noterelle in sogno. Ma non mi sembra una sperimentazione presuntuosa: questo è un film anarchico, folle ma vitale. Una o due volte all’anno sto al gioco, m’intriga, e qui si trovano alcune soluzioni linguistiche curiose e originali. Quando uno trova una pistola pensa subito come utilizzarla. Qui il protagonista la smonta (ben prima di Dillinger è morto). Forse m’è piaciuto per questo. (Vhs da RaiTre; 20/5/02)

ddv2306.jpg281 — Il repellente Star Wars Episode II — L’attacco dei cloni di George Lucas, USA 2002

Ogni tanto una puttanata fa fin piacere: ridà il giusto valore ai bei film ed è come una purga disintossicante che ti libera delle tossine accumulate. Ma alle cagate c’è un limite e questo cazzo di Attacco dei cloni è campione del mondo di schifo. Siccome il cinema è sotto casa, ci andiamo pensando che magari il film è brutto, ma in fondo son due orette e vedrai che ci divertiamo. Macché: in un film così mi accontenterei anche solo di begli effetti, di una pura suggestione estetica che impacchettasse l’effimera funzione ludica del prodotto. Invece il problema di questo pessimo Star Wars Episode II è che ci sia una trama insistita e interessante come una conferenza sulla brugola, che gli effetti speciali non impressionino in particolar modo e che la caratterizzazione dei personaggi serva unicamente a vendere qualche bambolotto made in Taiwan. Il primo tempo è narcotico, infantile e ridondante. La storia d’amore poi è un ibrido bestiale tra Harmony e il peggio di Urania, con la rigogliosa e dolciastra Naboo che scopriamo essere sul lago di Como: ma quanto è credibile un pianeta che si trova a mezz’ora da Baranzate, dài!? Tra dialoghi didascalici e rimandi a monachesimo zen, etica samurai e generica filosofia da Baci Perugina, il film si consuma lentissimamente, smarronandoci del tutto. Dietro di noi, schierato, c’è pure il pubblico di disadattati, tipo quelli che vanno alle convention vestiti da guardie imperiali, che tifa e commenta. Poi mi si viene a dire della televisione. L’unica cosa buona che trovo in ‘sta ciofeca è una certa attenzione alle scenografie futuribili: Tatooine sembra la città di Arcosanti di Paolo Soleri. Nelle altre rappresentazioni urbane ci sono rimandi a Iofan, a Insolera, a Ozenfant e al futurismo italiano. Ma non basta leggiucchiarsi e scopiazzare un qualunque manuale di architettura moderna, perché uno stronzo, anche se lo condisci con aceto balsamico di Modena DOC, sempre stronzo rimane. Per appassionarsi a ‘sta cosa servono tre anni mentali e io ci son cascato su consiglio di Riccardo che non appena sente parlare di Millennium Falcon perde le bave e non capisce più nulla. Per la cronaca eravamo con Alessandra che, a causa di coliche ha vomitato più volte. Ma secondo me la colpa era del film. (Cinema Orfeo, Milano; 20/5/02)

ddv2307.jpg282 — Il gutturale La terra trema di Luchino Visconti, Italia 1948

In una serata troppo tranquilla decidiamo di fare gli intellettuali e andiamo al Circle Culturel Français, ou la la!, a vederci uno dei capisaldi del neorealismo italiano. Mal ce ne incoglie perché la proiezione è al limite del ridicolo con il quadro soffocato nel mascherino del cinemascope, segato in alto e in basso: roba da chiodi. In più non ci sono sottotitoli e il film è recitato da attori non professionisti nel loro strettissimo dialetto. Duri e puri, però, rimaniamo fino in fondo (e La terra trema dura tre ore secche). Provo ad andare dal proiezionista ma costui non capisce letteralmente un cazzo. È italiano, parla italiano, ma evidentemente non lo capisce nonostante scandisca lentamente le parole. Proiettare è il suo mestiere; come, non gli importa e il concetto di mascherino risulta indifferente al mentecatto. Aggiungiamo che la pellicola è tremendamente rovinata e non c’è intervallo per prendere ossigeno. Insomma: abbiamo visto il film in condizioni da tortura della Gestapo, poveri cinéphiles abbandonati a loro stessi e allo spregio del cinema d’autore. La terra trema è comunque un film potente, dal lirismo tozzo, e in qualche maniera ne avvertiamo il fascino e il valore storico. Ma così come l’abbiamo visto noi non lo consiglio a nessuno. (Circolo Culturale Francese, Milano; 22/5/02)

ddv2308.jpg285 — L’umido Kiss di Andy Warhol, USA 1963

Baci casti, passionali, bavosi, superficiali, profondi, seduttivi, teneri. Bacetti, bacini, baci lunghissimi, interrazziali, eterosessuali, omosessuali. Kiss è ripetitivo come una serie di Mao o di zuppe Campbell, ma ogni bacio è diverso, ha diversa passione, intensità e valore e l’unico tipo di bacio che non si vede è quello che l’iconografia pornografica ha reso gradevole anche al pubblico eterosessuale maschio: il bacio omosessuale femminile. Ma allora Warhol ancora non lo sapeva. Qui non c’è provocazione, c’è solo l’astrazione del primario mezzo di comunicazione affettivo, un’astrazione che innesca ricordi di baci dati, ricevuti e desiderati, baci cinematografici e televisivi impressi nella memoria, addirittura baci musicali: “I Just Want Your Extra Time And Your Kiss!”. È uno dei primi film di Warhol, che s’era appena comprato una 16 mm e cominciava a giocare, ed è in bianco e nero, senza commento sonoro, inframmezzato da lampi di pellicola bianca. Sperimentazione di quella cattiva con qualche sorpresa: un sorriso tra un bacio e l’altro, uno sguardo complice, due volti che mai avresti accoppiato. Probabilmente sorprese casuali. Una curiosità, via!, ma che intriga e fa curriculum, perché Empire (8 ore immote) te lo vedi tu, caro . (Vhs da RaiTre; 27/5/02)

ddv2309.jpg286 — Il silenzio degli innocenti dell’epocale, ma veramente, Jonathan Demme, USA 1991

Non ho controproposte potabili e Barbara mi obbliga a una visione in diretta TV e siccome si tratta di un capolavoro, tollero pure l’emissione Rai a tutto schermo, i colori ammosciati e il sonoro intubato. La storia credo che la sappiano anche i sassi per cui vado a illuminarvi con perle di saggezza critica di nessun valore. Il silenzio degli innocenti ristabilisce le coordinate del terrore e lo fa colpendo il cervello della critica e la pancia del grande pubblico: partendo da una più che dignitosa fonte letteraria (la cosa migliore scritta da Thomas Harris) Demme mette in scena paure classiche (il buio, gli insetti, il rapimento) e paure nuove (lo scotennamento del corpo — il feticcio degli anni Ottanta, l’ambiguità sessuale, la disgregazione familiare). Il cocktail — grazie anche all’abilità di rendere visibile e vivibile il disagio — è terrificante, con un cattivo — uno dei tanti, ma lui più degli altri — luciferino e paurosamente affascinante. Hannibal Lecter adora delibare carne umana, ma ascolta con estatico trasporto le Variazioni Goldberg. È “cattivo”, ma non lo è meno dell’ottuso e vanitoso direttore del manicomio criminale dove è recluso, il prof. Chilton; e meschine sono anche l’ultima rapita da Buffalo Bill e sua madre, una senatrice disposta a tutto pur di riavere la figlia. E cattivo è il potere che divide bianchi e neri, uomini e donne, carcerieri e carcerati, avveduti e ignoranti. Demme non rinuncia a tanti tocchi sapidi che impreziosiscono la trama thriller e trasformano Il silenzio degli innocenti da grande film di genere a capolavoro assoluto. E dobbiamo alla sua intelligenza anche la descrizione dell’America di provincia, delle piccole comunità stravolte dall’orrore quotidiano. Da un punto di vista puramente estetico si vedono i cascami del linguaggio del decennio precedente: ci sono zoom, neon, fotografia iperrealistica, rallenti e movimenti di camera sui particolari, ma non stonano. Un giorno diranno che il film è datato; ma come un classico degli anni Trenta, per conto mio. Lo score musicale è classico anche se qualche porcata col synth affiora qui e là. Bravissimi gli attori, dalla paffuta (allora) Jodie Foster all’inquietante Anthony Hopkins, senza dimenticare il padre putativo di Clarice Sterling, impersonato da Scott Glenn. E sono azzeccati pure i cameo (Charles Napier, Roger Corman, Chris Isaak e George A. Romero) o le piccole caratterizzazioni (i due entomologi). Rivisto per l’ennesima volta, me lo sono goduto come ai bei tempi, godendo di bestia ancora una volta per almeno due scene clamorose: la fuga di Lecter e Clarice che trova Buffalo Bill, sequenza montata in parallelo al fallimento dei suoi superiori. Il film ha dato la stura a una serie di pallide imitazioni (Il collezionista, Seven), neanche lontanamente paragonabili all’originale per fascino sinistro e cattiveria creativa. Svalangata di Oscar, meritati. Ah: chi vuol fare il figo va blaterando che Manhunter era splendido, mica come questo che è commerciale e altre vaccate da snob. Non è vero. Manhunter è un buon film, così come il romanzo (Red Dragon) era discreto, ma non c’è paragone praticabile con questo film, veramente. (Diretta su RaiTre; 30/5/02)

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(Continua — 23)