– Forse dovremmo ripensarci.
– Non dire sciocchezze. E poi cosa vuoi ripensare arrivato a questo punto?
– Non so. Mi stanno venendo tanti dubbi.
– Ossignore. Ma sono mesi che stiamo lavorando a questa cosa, non potevi tirarli fuori prima questi dubbi? Guarda Miguel, non mi sembra proprio il momento. Sei fuori tempo massimo. E poi cosa vorresti fare? Continuare a vivere dentro questo incubo? Continuare a illuderti che sia vita la nostra? Le prove sono dappertutto. Questo posto è l’inferno. Dobbiamo andare via. Lo sai.
Miguel osserva la Linea dalla penombra, con determinazione e un improvviso senso di panico. Ha ragione Raúl. Non è proprio il momento di fare la mammoletta.
In lontananza le luci che illuminano la Linea sono bianche e fisse. Spaccano a metà il freddo gelido del deserto.
Tutti pensano che nel deserto faccia sempre caldo. Oddio non è che non ci fa caldo qui, però certe notti di gennaio, col vento che arriva da ovest, dal mare, che taglia l’aria e porta un gelo smisurato, antico, ecco in notti così il deserto si trasforma in un inferno.
Chi l’aveva detta questa cosa che l’inferno non è infuocato ma è un’eternità di freddo inimmaginabile? Miguel non lo ricorda più in che programma l’aveva sentito. Ma adesso lo capisce sotto alla felpa e al cappuccio, sotto a quel cappelletto da baseball che non copre un cazzo. Dentro a quei jeans troppo larghi che gli lasciano risalire su per le gambe dei rivoli di ghiaccio fuso su fino all’inguine e gli fanno raggrinzire l’uccello. “Pare una lumaca, hai visto?” e giù a ridere come matti con Raúl, dopo un bagno di ore nell’acqua brodosa di San Blas, “ti si fa l’uccello raggrinzito come una lumaca”. Adesso uguale. Però è anche la paura. La voglia di tornare indietro.
– Ok, dai lo facciamo. Ora lo facciamo. È stato un momento, così.
– Lo spero bene hermano, che qua se no si fa giorno. Ci becca la migra e sono cazzi nostri.
La migra. L’incubo di ogni migrante. Quelli che ti beccano e ti paralizzano col teaser. Quelli che ti riempiono di mazzate. L’ha già assaggiati Miguel i manganelli della migra. Gli sputi, gli insulti. “Mangiatacos del cazzo. Te la facciamo passare noi la voglia di fare il furbo” gli hanno gridato mentre qualcuno lo riempiva di mazzate. “Siete dei fottuti scarafaggi siete. Ma adesso te la do io una bella raddrizzata. Dov’è adesso la tua vergine di Guadalupe?” questo gli diceva la migra mentre qualcuno gli ammanettava mani e piedi con catene.
Il silenzio avvolge la Linea illuminata di bianco. Non si vede nessuno e le piccole siepi del deserto hanno smesso per un momento di frusciare.
Raúl a pochi metri è concentrato e teso. Miguel nasconde un panico che non riesce proprio a togliersi di dosso. Forse sarebbe meglio rinunciare ma è troppo tardi. È l’occasione della vita. Al di là di quella barriera c’è un mondo diverso. C’è un mondo di opportunità, di felicità, di balocchi. Al di là di quel muro si può tornare a vivere.
Il rischio è molto grande, è vero, e Miguel fino a poco fa era disposto a correrlo con più coraggio di Raúl, ma chissà cosa gli gira in quel cervello matto. Da piccolo una volta una maestra aveva detto ai suoi genitori che aveva un cervello, com’è che era il suo cervello? “Immaturo. Vostro figlio ha un cervello immaturo. Di sicuro non farà molta strada nella vita” aveva detto quella troia della maestra.
E lui invece di strada ne aveva già fatta tanta. A suo modo. Certo però che ogni tanto quel suo cervello gli faceva strani scherzi. Come adesso per esempio.
Raúl si muove leeeeeeentameeeeeente come un bradipo che si arrampica sull’albero. Quello sì che se lo ricorda dove l’ha visto. Il bradipo. Dentro uno speciale su discòvericiannel. O forse su nètgio. Ora proprio non gli viene in mente esattamente dove, perché questa cosa di dover saltare sul muro e buttarsi a pesce dall’altra parte comincia a sembrargli una gran cazzata.
Gli sembra la più grossa cazzata della storia. Probabilmente peggio di quando aveva rubato quei soldi dalla giacca di suo padre, a quattordici anni, per andare a farsi un tatuaggio come i suoi amici tamarri del barrio. Quella Santa Muerte tatuata sull’avambraccio sinistro. Enorme. Faceva paura. I suoi amici del barrio erano così soddisfatti di lui. Non era una mammoletta come pensavano. Strano che suo padre l’avesse preso a cinghiate per ore. Sulle gambe le cinghiate gli avevano fatto uscire le piaghe. Forse perché si era accorto che gli aveva rubato i soldi. Sulla schiena le cinghiate gli avevano fatto uscire il sangue. O forse non gli era piaciuto il tatuaggio. Sulla faccia le cinghiate gli avevano fatto una specie di sorriso sinistro che tuttora giustificava quel soprannome buffo. “El Joker” gli dicevano. Miguel “El Joker” Ramírez. Forse aveva solo bevuto un po’ troppo quel vecchio stronzo di suo padre e aveva voglia di scaricare un po’ la tensione ecco tutto.
Adesso però quella cazzata lì di tanti anni fa sembra una sciocchezza senza importanza. Perché qui si paga con la tortura, e poi dopo la tortura con la vita. Se ti va bene ti ammazzano in fretta. Se no è roba anche di qualche settimana. Qualche settimana di inferno. Quell’inferno di sangue e dolore che prelude al gelo eterno.
Raúl è pronto. Gli fa il segnale concordato. Non c’è più tempo per discutere.
Raúl è un’ombra nella notte, un ninja, un fulmine.
Miguel arranca qualche secondo di troppo. Poi si alza e inizia a correre. Il muro gli corre incontro nella sua luce di latte. Miguel non sente più il freddo. Il cappuccio scopre la testa di capelli neri, facendo volare il cappellino dei Padres di San Diego.
Raúl è scomparso dal campo visivo. La notte di ghiaccio è un ricordo. Il presente è correre. Il presente è solo un muro che si fa enorme. Il presente è terra secca sotto i piedi.
Afferrare l’acciaio ghiacciato. Le mani si appiccicano sul metallo per il freddo intenso. Solo due secondi. Sembrano anni. Miguel inizia a scalare il muro. Dall’altro lato la gioia. Dall’altro lato il giardino dell’Eden. Sente da qualche parte ansimare Raúl. Null’altro. Sente il suo cuore impazzire. Sente le dita acchiappare l’acciaio rosso del muro. Pochi metri pochi metri pochi metri. Sembra non finire mai. Lamiere che si usavano in guerra, come piste di atterraggio per gli elicotteri in Iraq, per gli aerei in Afghanistan. Riusate per costruire questo muro. Che separa il nord dal sud. Che lo separa dalla sua nuova vita.
Pochi centimetri pochi centimetri pochi centimetri. Si vede già l’altro lato. Si vede già il mondo nuovo.
Il morso lacera la carne. Il morso è una tenaglia. Il morso è una scarica elettrica.
Miguel grida ma non sente la sua voce gridare. Non sente i cani latrare intorno a lui. Miguel vede solo la luce di latte che illumina il muro illuminare il suo viso. Benevola. La luce sorridente.
Miguel cade sulla schiena. Lo schianto al suolo lo tramortisce ma non gli fa perdere i sensi. Tutto diventa distante. I cani che lo annusano, i volti della migra, i fucili spianati, il ghigno delle facce avvolte nei giacconi neri. Parole senza senso lo circondano. Da qui non si esce. E sulla faccia stampato quel sorriso da Joker.
Raúl non è con lui. Raúl è riuscito a passare. Raúl è saltato a pesce dall’altro lato. Non si è guardato indietro. Non era previsto.
Raúl ha raggiunto la meta. È riuscito a scappare. A uscire da quel mondo violento, impossibile, da quel controllo assoluto, da quella dittatura mascherata.
Raúl è riuscito a lasciarsi alle spalle quell’orrore. San Diego è ormai alle sue spalle. Gli Stati Uniti sono solo un ricordo. Di fronte a Raúl la calma, la possibilità di una vita. Davanti a Raúl l’amata Tijuana.