di Franco Ricciardiello
Nel crudele mese di aprile si sovrappongono due anniversari fatali nella storia della Cambogia contemporanea: il 15 la morte di Pol Pot (1998) e il 17 la caduta di Phnom Pénh (1975) dopo cinque anni di guerra civile. Una superficiale inclinazione a semplificare attribuisce tutte le responsabilità della dolorosa storia del Novecento a singoli individui: il nazismo è Hitler, il fascismo Mussolini, il comunismo sovietico Stalin, e così per “Papa Doc” Duvalier e Saddam Hussein fino a Osāma bin Lāden. Non fa eccezione Pol Pot, esecrato come mostruoso ispiratore dei campi di sterminio dove, tra il 1975 e il 1979, furono fisicamente eliminati centinaia di migliaia di cambogiani. Un fatto tuttavia è incontestabile: la guerra civile cambogiana terminò immediatamente dopo la sua morte.
In teoria, la biografia potrebbe aiutarci a comprendere un genocidio che ha scaraventato nelle fosse comuni un cambogiano su cinque. Pol Pot è il nome di battaglia di Saloth Sar, nato nel 1925 da una famiglia con entrature alla corte cambogiana: una sorella è addirittura concubina di re Monivong. Le scarne testimonianze riportano un’infanzia anonima, la predilezione per il gioco del calcio (abbastanza bravo, pare) e per il violino (non altrettanto bravo); il suo migliore amico nella scuola di Kâmpóng Cham, a nord della capitale, è il fratello minore del futuro dittatore Lon Nol. Dopo le elementari in una scuola cattolica, il tradizionale tirocinio khmer in monastero buddista e le superiori, nel 1949 Sar vince una borsa di studio per l’EFREI di Parigi: diventa così uno dei 250 cambogiani che in mezzo secolo hanno il privilegio di studiare all’estero. All’inizio mostra più interesse per il vino francese che per la politica; studia radioelettronica e abita in una stanzetta di pochi metri quadri in rue Letellier, nel XV arrondissement, che al suo ritorno in patria sarà rilevata da Son Sen, futuro ministro della Difesa e suo successore designato alla segreteria del Partito; nel 1997 Pol Pot ormai malato di cancro lo farà giustiziare con l’accusa di tradimento.
Alla fine dell’anno accademico 1950 Sar si reca in Jugoslavia: siamo in piena ricostruzione postbellica dopo l’occupazione nazifascista, vicino Zagabria un corpo internazionale di volontari sta realizzando la cosiddetta Strada della Fratellanza. L’entusiasmo per questa esperienza lascia il segno, al punto che potrebbe avere ispirato gli sciagurati lavori pubblici di massa dopo la rivoluzione.
Tra i borsisti cambogiani è già compreso quasi tutto il futuro governo rivoluzionario. Nessuno ricorda con precisione quando Saloth Sar aderisca a “Le cercle marxiste”, gruppo fondato a Parigi da Ieng Sary (futuro ministro degli esteri) diviso in cellule di pochi membri, che non conoscono gli altri iscritti per limitare i danni in caso di repressione. Sar si iscrive anche all’anticolonialista PCF, il Partito comunista francese. La borsa di studio scade, nel 1954 il mediocre studente Sar ritorna in Cambogia, dove il clandestino PRPK (Partito rivoluzionario del popolo khmer) riesce a infiltrarlo negli ambienti del Partito democratico. Le aspettative per una svolta liberale rimangono frustrate dalle elezioni del 1955, vinte in maniera poco limpida dal principe Norodom Sihanouk. I militanti di sinistra perdono la speranza nel sistema rappresentativo.
Il fidanzamento borghese di Saloth Sar viene rotto per volere dei genitori della ragazza, Soeung Son Maly, detta “reginetta di bellezza”; lei diventa l’amante del primo ministro Sam Sary, che si distingue per la brutale repressione degli oppositori di sinistra; lui sposa Khieu Ponnary, soprannominata “vecchia zitella” dai suoi allievi del prestigioso liceo Sisowath, il cui carattere è il contrario di quello del marito. Sar insegna francese in un liceo privato della capitale, gira su una Peugeot nera e sfoggia il suo sorriso ammaliante, l’arma segreta del carisma che eserciterà su piccoli gruppi fidati. Lo scrittore svedese Peter Fröberg Idling ha persino intitolato “Il sorriso di Pol Pot” (Pol Pots leende, 2006) il suo libro sulla Cambogia dei khmer rossi.
Nel 1960 i comunisti cambogiani si affrancano dall’influenza del PC vietnamita ed eleggono segretario generale l’ex monaco Tou Samouth, che l’anno successivo viene clandestinamente assassinato dalla polizia segreta di Sihanouk. Il successore dovrebbe essere il vice segretario Nuon Chea, ma sospetti di irregolarità nella gestione economica fanno sì che il congresso del 1963 elegga al suo posto Saloth Sar, già entrato in clandestinità. Il comitato centrale del PRPK chiama la popolazione rurale alla resistenza armata e cerca l’aiuto di Hànội; i nordvietnamiti tuttavia hanno promesso a Sihanouk di non fomentare una sollevazione in cambio del transito dell’esercito sul suo territorio per la guerra contro gli americani (il cosiddetto sentiero di Hồchíminh). La lotta armata rimane inefficace per anni, ma si alimenta con gli errori del governo. La repressione spinge i contadini nelle file dell’opposizione; il principe Sihanouk dichiara in un’intervista di avere fatto assassinare 1500 comunisti mentre era al potere. È lui stesso a battezzare i guerriglieri con il nome che li renderà famosi nel mondo. La storia politica della Cambogia è piena di colori: ci sono i conservatori khmer blu; gli irredentisti del delta del Mekong, khmer bianchi; i partigiani antifrancesi khmer issarak. Khmer rouge è invece un attributo di corte del principe Sihanouk, che lo affibbia per scherno ai guerriglieri comunisti; d’ora in poi saranno conosciuti come khmer rossi.
Il gruppo di ex studenti parigini monopolizza la gestione del PRPK, e nel settembre 1966 ne cambia il nome in PCK, Partito comunista di Kampuchea: il fatto viene mantenuto rigorosamente segreto perfino agli iscritti. La circospezione imparata da Saloth Sar nei circoli marxisti in Francia, indispensabile per salvarsi la vita durante la clandestinità in Cambogia, si trasforma in una paranoia ai limiti dell’ossessione, finché nel 1968 la direzione del PCK non è di fatto più collettiva: Sar si circonda di guardie del corpo e plasma il partito a sua volontà. La leadership è in mano alla piccola borghesia agraria, ma si accettano esclusivamente iscrizioni di contadini.
La guerra civile precipita nel 1970: per interrompere i rifornimenti ai việtcộng, il presidente americano Richard Nixon ordina l’invasione della Cambogia. Un colpo di stato targato CIA costringe Sihanouk all’esilio, la dittatura militare del maresciallo Lon Nol perseguita la guerriglia con inaudita ferocia. È in questo momento che Saloth Sar assume il nome di guerra di Pol Pot, senza fornire spiegazioni. Un’interessante teoria sostiene che sarebbe l’abbreviazione di “politique potentielle”; c’è da considerare che Sar insegna letteratura francese quando a Parigi viene fondata l’OuLiPo (l’“officina di letteratura potenziale” che vanterà la partecipazione di Perec, Queneau e Italo Calvino) con l’obiettivo di immaginare nuove vie, nuove formule per superare la letteratura del passato. Forse per analogia Saloth Sar vede nella Cambogia il laboratorio di una politica potenziale della quale si sente il precursore. Volendo scrivere in fila i nomi delle vittime di questa magnifica utopia, si riempirebbero 34 volumi di 300 pagine ciascuno.
La guerra civile dilaga sul modello vietnamita. Dall’esilio, il principe Sihanouk si appella al suo popolo perché aiuti i khmer rossi. Grazie alla repressione militare e ai criminali bombardamenti americani, le masse contadine passano dalla parte della guerriglia, che in cinque anni diventa un movimento di massa: un esercito di combattenti con la divisa nera e la tradizionale sciarpa khmer a quadretti. Molti sono convinti di battersi per il ritorno di Sihanouk. Gli Stati Uniti sganciano milioni di tonnellate di bombe sul territorio controllato dalla guerriglia, che nel 1973 occupa il 70% della superficie e il 50% della popolazione. La politica dei khmer rossi è favorevole ai contadini poveri, anche se già si intravede la durezza con cui affronteranno qualsiasi opposizione, compreso il ricorso alla tortura. A ogni modo, il successo della rivoluzione è da imputare agli americani; in particolare, nel 1973 la VII Air Force scatena bombardamenti così devastanti da uccidere 16.000 dei 25.000 combattenti che assediano la capitale. I khmer rossi non lo scorderanno.
Lo sfollamento delle aree urbane è già sperimentato negli anni precedenti, quando i khmer rossi si accorgono che le città liberate conservano le abitudini “capitaliste” del libero mercato; l’intera popolazione di Krâchéh viene scacciata in campagna nel 1973, lo stesso accade a Odongk e parzialmente a Kâmpóng Cham a mano a mano che il cerchio si stringe intorno alla capitale. Il Comitato centrale del Partito approva nel 1974, quando si intravede il crollo del regime, l’idea di Saloth Sar per l’abbandono di tutte le aree urbane dopo la vittoria. Phnom Pénh cade il 17 aprile 1975, al termine di un lunghissimo assedio; entro due giorni i vincitori rispediscono un milione di profughi nelle campagne di origine: fra di essi anche quattro fratelli Saloth, ignari che al vertice della rivoluzione ci sia il mite, fascinoso Sar. Il primogenito Chhay, che è stato il suo modello da bambino, muore di stenti durante la marcia forzata. Il ministro degli interni Hou Youn, che si oppone all’evacuazione, viene assassinato.
La guerra è finita, Sihanouk ritorna formalmente al suo posto ma senza autorità. Si porta alle estreme conseguenze il concetto marxiano di “abolizione dello stato”, che viene immediatamente annullato e sostituito dall’angkar, l’“organizzazione” (l’esistenza del Partito è ancora segreta). Netta è la rottura con la tradizione marxista-leninista che vuole l’unità di operai e contadini: soltanto questi ultimi hanno un posto nell’utopia agraria di Pol Pot, il cui ideale è riportare la Cambogia a una mitizzata età d’oro della civiltà rurale. La ricostruzione inizia dall’Anno Zero, il 1975; prima la parola cambogiana per Rivoluzione era bambahbambor, “insurrezione”; dopo si usa pativattana, “ritorno al passato”, all’impero di Angkor, la splendida civilizzazione khmer che nel medioevo dominava nel sudest asiatico. La civiltà moderna deve essere estirpata, chiunque svolga un’attività sconosciuta nel XII secolo è inutile al pativattana, quindi candidato all’eliminazione.
Il 5 gennaio 1976 la nuova costituzione cambia il nome dello stato in Kampuchea Democratica; il principe Sihanouk, che dichiarerà di subire personalmente il fascino di Pol Pot, è posto agli arresti domiciliari; capo di stato al suo posto è Khieu Samphan, il più famoso tra i khmer rossi, ma chi comanda davvero è il Fratello numero 1, il misterioso Pol Pot che sembra senza passato. La popolazione viene classificata in gente base, a pieni diritti, e candidati (o “nuova gente”), intendendo come tali gli sfollati dalle città, per i quali non è prevista riabilitazione. La radio dichiara che per l’utopia (potenziale) del comunismo agrario sono sufficienti uno o due milioni di contadini; è evidente che la sopravvivenza degli altri non è prevista. È la condanna a morte per la “nuova gente”. Le masse contadine sono costrette al lavoro comune nei campi o nell’ambizioso e inutile sistema di irrigazioni. La produzione alimentare crolla, il raccolto agricolo è gravemente insufficiente. Su 7 milioni circa di abitanti, le stime di mortalità durante il governo di Kampuchea Democratica variano tra 1.700.000 e 2.500.000. Il Centro di documentazione della Cambogia ha riesumato 20 mila fosse comuni, calcolando 1.386.734 vittime di esecuzioni, escluse malattie e denutrizione.
Serpeggia la ribellione; Pol Pot scatena la repressione all’interno del Partito; le celle di tortura della prigione S-21 si riempiono di quadri comunisti. Gli obiettivi di produzione sono irrealistici per una popolazione sottoalimentata; invece di correggerli al ribasso, si uccide indiscriminatamente con l’accusa di boicottaggio: vengono sterminati gli ex funzionari di Lon Nol, i monaci theravada, gli intellettuali, le minoranze etniche e religiose, e tutta la prima generazione di khmer rossi.
Nel dicembre 1976 Pol Pot comunica comitato centrale del PCK che il Vietnam deve essere considerato “paese ostile”; il 30 aprile 1977 (secondo anniversario della caduta di Sàigòn) l’esercito cambogiano spalleggiato dall’artiglieria varca il confine per un’incursione intimidatoria; seguono nuovi raid nel mese di settembre, con la distruzione di villaggi e il massacro di contadini. Il 29 settembre Pol Pot ufficializza l’esistenza del Partito comunista di Kampuchea. Solo ora il mondo apprende che il vero leader non è Khieu Samphan, bensì Saloth Sar; persino i suoi fratelli vengono a saperlo da un manifesto propagandistico.
La dirigenza comunista di Hànội perde la speranza di ricomporre la situazione, e comincia a lavorare per rovesciare il governo cambogiano. Nel maggio 1978 i khmer rossi delle province orientali, le più vicine al Vietnam, insorgono. Il 10 maggio la radio di Pol Pot sollecita la “purificazione delle masse popolari” e “lo sterminio di 50 milioni di vietnamiti”; nei sei mesi successivi si contano almeno 100 mila esecuzioni. Nel dicembre 1978 infine l’orrore dell’oppressione comunista è rovesciato da un altro governo comunista: il Vietnam invade la Cambogia. Pol Pot e i suoi irriducibili fuggono nelle foreste al confine con la Thailandia.
La situazione alimentare è spaventosa, la carestia provocata dai khmer rossi infierisce sui sopravvissuti al genocidio. Una delle pagine più buie è imputabile alla comunità internazionale, che non riconosce il nuovo governo filovietnamita: il 21 settembre 1979 l’Onu vota per mantenere ai khmer rossi di Pol Pot il seggio della Cambogia: 46 paesi assenti o astenuti, 35 contrari, 71 favorevoli, compreso il governo italiano (presidente del consiglio il democristiano Francesco Cossiga).
La guerriglia continua a oltranza, sostenuta dalla Cina e indirettamente dagli Stati Uniti. Nel dicembre 1981 il PCK viene sciolto e sostituito dal nuovo Partito della Kampuchea Democratica, segretario generale Pol Pot. Segue a breve la rinuncia al marxismo-leninismo; Pol Pot dichiara in un’intervista: “Abbiamo scelto il comunismo per liberare il nostro paese. Abbiamo aiutato i vietnamiti perché erano comunisti. Adesso però i comunisti combattono contro di noi; per questo dobbiamo rivolgerci alle potenze occidentali e imboccare la loro strada.” Gli occidentali, intenzionati a contrastare i vietnamiti alleati dell’URSS, ricambiano la simpatia.
La cronica schizofrenia di Ponnary, la moglie di Pol Pot, degenera in una paranoia totale; lui divorzia e sposa una ventiduenne, con la quale avrà una figlia. Nel 1985 dà le dimissioni dalle cariche di partito, ma continua a guidare l’irriducibile guerriglia alimentata da cinesi e americani e formalmente guidata dal principe Sihanouk. A dicembre i vietnamiti riescono a distruggere l’ultima base dei khmer rossi, Pol Pot fugge oltre confine mettendosi sotto la protezione dell’Unità Speciale 838 dell’esercito thailandese. Passa formalmente il potere a Son Sen e si reca in Cina per curare un cancro al viso. Nel frattempo l’esercito vietnamita si ritira per permettere il processo di ricomposizione nazionale sotto Sihanouk; i khmer rossi rifiutano di partecipare, e visto che sono l’unica forza militare, la stabilità del paese è minata per altri dieci anni. Nel 1995 un colpo apoplettico paralizza parzialmente Pol Pot; l’anno successivo iniziano le prime diserzioni. Son Sen tenta un approccio con il governo; il 10 giugno 1997 Pol Pot ordina l’esecuzione del suo più vecchio amico, colui che ha rilevato la sua stanzetta in affitto a Parigi, il braccio destro di sempre: insieme a lui vengono trucidati la moglie Yun Yat (ex-ministro della cultura) e dodici figli e nipoti. È la fine, i suoi seguaci non tollerano oltre; Pol Pot viene finalmente arrestato dai khmer rossi e condannato agli arresti domiciliari a vita. Il costituendo Tribunale speciale a sostegno internazionale ne chiede la consegna; la sera del 15 aprile 1998 radio Voice of America annuncia l’assenso di Ta Mok, nuovo comandante dei khmer rossi. Pol Pot muore durante quella stessa notte; il medico personale parla di insufficienza cardiaca, la frettolosa cremazione del corpo lascia adito a sospetti di suicidio o avvelenamento. Le foto post mortem lo mostrano con i capelli tinti, forse in vista di una progettata fuga in Thailandia per evitare la consegna alla giustizia.
Ci vorranno ancora 13 anni perché finalmente nel febbraio 2011 inizi il processo contro i leader ancora in vita: il Fratello n. 5 Khieu Samphan; il Fratello n. 3 Ieng Sary e sua moglie Ieng Tirith; il Fratello n. 2 Nuon Chea. Il Fratello n. 1 invece non c’è più. “Il letame vale più di quanto valga lui,” dichiara Ta Mok, il Fratello n. 5; “quello almeno lo si può usare come concime”.