di Alberto Prunetti
Stefano Boni, Culture e poteri. Un approccio antropologico, Milano, elèuthera, 2011, 15 euro.
Da tempo sono in atto dei percorsi di ibridazione tra antropologia e pensiero anarchico. I punti di interconnessione sono affiorati in Francia e negli Stati Uniti, su linee non sempre convergenti. In Francia emerge negli anni Settanta l’opera di Pierre Clastres, l’autore di Le società contro lo stato, ma anche di stimolanti saggi su potere, guerra e violenza pubblicati anche su Interrogations, una rivista libertaria internazionale. Negli anni Ottanta è una curiosa e interessante pubblicazione autoprodotta, Invariance, curata da un eretico postbordighista come Jacques Camatte, a riprendere certe tematiche di antropologia cognitiva e di etnologia per montarle in un progetto che tenta di illustrare l’uscita della specie umana da un percorso comunitario in una fittizia unità sancita dallo stato.
Negli Stati Uniti ancora negli anni Settanta vedono la luce una moltitudine di produzioni etnografiche che contribuiscono a ribaltare l’immaginario sulle società di caccia e raccolta.
Gruppi umani come gli Inuit, i Boscimani o gli Hazda sono descritti nelle opere di Lee e Woodburn come circuiti sociali con un basso differenziale di potere, con leadership inesistente o spontanea e rapporti di genere migliori dei vicini che praticano la pastorizia o l’agricoltura. Su questa letteratura negli anni Ottanta l’anarchico John Zerzan svilupperà le sue tesi anarcoprimitiviste, interrogandosi tra l’altro su problematiche cognitive con lieve anticipo sull’opera di Camatte.
In Inghilterra si era occupato di rapporti tra anarchia e antropologia già nei primi anni Ottanta Barclay, autore di People without a Government: an Anthropology of Anarchy(1982), anche se la sua produzione era ancora legata al tema classico delle società acefale. Più di recente si sono moltiplicate Oltremanica sia le influenze primitiviste collegate alla Deep Ecology e al Green Anarchism, sia la riflessione accademica di taglio anarchico e radicale (si veda in tal senso la pubblicazione della rivista Radical Anthropology).
Questi rapporti tra elaborazione teorica anarchica e metodologia e letteratura antropologica hanno continuato a rafforzarsi e intrecciarsi, anche se con linee di fuga non sempre convergenti. Ad esempio, in genere il primitivismo anarchico è molto diffuso a livello di piccola editoria e autoproduzioni e rimane sganciato dall’ospitalità accademica. In altri ambiti la riflessione è più di tipo metodologico, oppure ci si interroga sullo statuto del pensiero anarchico e il ruolo dell’antropologia e dell’accademia. Il caso più eclatante, negli stati Uniti, è quello di David Graeber, antropologo anarchico autore di Frammenti di antropologia anarchica (Milano, elèuthera, 2006), un breve e brillante testo che si interroga sui limiti dell’accademia. Limiti consistenti, se la pubblicazione gli è valsa il licenziamento da Yale (e il salto atlantico verso Londra, dove è stato ingaggiato dal Goldsmiths College). Graeber ha applicato tra l’altro la metodologia di ricerca dell’etnografia a un gruppo di attivisti no global: azione diretta e osservazione partecipante, in un volume di quasi 700 pagine, Direct Action pubblicate dalla storica AK Press, editrice antiautoritaria di Edinburgo.
Mentre all’estero si infoltiscono e diramano le connessioni tra questi due ambiti di riflessione in Convegni anarco-accademici, quali quelli di Loughborough (UK), organizzato dalla Anarchist Studies Network, in Italia va segnalata l’interessante pubblicistica della storica casa editrice libertaria elèuthera (prossima ai festeggiamenti per il 25° anno di attività) che sta pubblicando opere di antropologia radicale su alcuni filoni quali il post-anarchismo, l’anarchismo post-strutturalista, l’opera di Graeber, la riflessione sui camuffamenti dei gruppi subalterni di fronte all’autorità di James Scott (oltre all’opera di Marc Augé e agli scritti di La Cecla e Laplantine).
Ed è proprio dai tipi di elèuthera che arriva adesso un testo di Stefano Boni che si muove su questa intersezione: Culture e poteri. Un approccio antropologico (Milano, elèuthera, 2011). La pubblicazione è importante perché, sulla base di una concezione foucaultiana del potere, ne rimette in discussione quell’immagine monolitica spesso diffusa in ambiti libertari e antagonisti, (potere solo come stato, governo e istituzioni) e cerca di tracciare invece quei meccanismi in cui i poteri (diffusi, incalzanti e riproduttivi) diventano senso comune attraverso pratiche egemoniche che inibiscono la realizzazione di un’alternativa reale alle società autoritarie in cui viviamo.
Boni illustra le pratiche di socializzazione che contribuiscono al mantenimento di una sociopolitica stratificata, con forti disuguaglianze, qual è quella delle società contemporanee. Una sociopolitica che non è tanto o solo repressiva, ma che produce orientamenti di senso euforizzati e altri oggetto di pratiche di disvalore. Si produce un comportamento sociale solo quando riproduce una sociopolitica egemonica che non ammette pratiche alternative e le stigmatizza o sanziona pesantemente. Il dissenso è represso solo in casi estremi, altrimenti viene inibito e depresso. Il conformismo è incoraggiato. Il risultato è una società standardizzata e omogeneizzata, dove il potere è accentrato e pervasivo. Il dominio pubblico del potere si estende in ambiti dove un tempo regnava la consuetudine personale, familiare o comunitaria. Dove le decisioni collettive erano prese in maniera spontanea, transitoria e sperimentale, sempre reversibile.
Diventa fondamentale a questo punto riuscire a muoversi su quel piano simbolico su cui si struttura il senso comune, ovvero quel piano cognitivo di operazioni retoriche che producono una “naturalità” artificiale, costruita, di assunti incontrovertibili sulla realtà. Operazione in cui politica e retorica si intrecciano per creare un campo discorsivo ufficiale al di fuori del quale non c’è spazio per nessuna critica.
Per Boni la politica retorica si struttura secondo alcune regolarità: si afferma come campo unico della legalità (escludendo ogni contraddizione nell’illegalità, o nel terrorismo); è scissa dal piano sociale, dai bisogni primari delle persone; riflette e sostiene i tratti dell’ideologia dominante; costruisce attraverso il proprio campo d’azione preferito, i media, un immaginario pubblico che si fa senso comune e che suscita un sentimento di identificazione tra le persone. Un immaginario volto a consolidare la credibilità politica delle retoriche ufficiali che lo hanno prodotto e a inibire proposte alternative di distribuzione del potere.
Una retorica talmente diffusa nella contemporaneità da produrre come effetti innanzitutto un aumento del differenziale di sociopotere tra ricettori e creatori dei flussi comunicativi pubblici, e in secondo luogo un’invadenza nella vita dei cittadini senza precedenti nella storia dell’umanità (si veda in appendice un estratto di Boni, pp. 140-143) insieme a un forte senso di impotenza nelle persone.
L’immaginario collettivo costruito dai media si configura inoltre attraverso una para-antropologia di senso comune, che favorisce rappresentazioni parziali di soggetti presunti altri o diversi attraverso processi di esotismo, amplificazioni della diversità, naturalizzazione biologica o ontologica di fenomeni storici, eccessiva culturalizzazione (vedi Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004), l’occultamento di forme ibride e di affiliazioni identitarie multiple. Il risultato è un dilagante razzismo differenzialista, che produce enunciati per cui “i marocchini sono così”, “i musulmani fanno questo”, “gli indù fanno quest’altro”… “sono le loro tradizioni, la loro cultura”…. “insomma, devono quindi stare a casa loro”, etc.
Discorsi da bar, o da programmi televisivi del pomeriggio, o da telegiornali, apparentemente stupidi ma in realtà potentissimi dal punto di vista retorico perché naturalizzati da un fuoco comunicativo pervasivo, che mistifica la realtà e occulta ogni critica. Discorsi che ormai hanno saturato il campo sociale in maniera egemonica e che potranno essere smontati con elaborazioni retoriche, con la produzione di un immaginario alternativo che resista all’egemonia culturale che ci pervade. Immaginario che però deve nutrirsi di realtà. La stessa realtà che ti obbliga a svegliarti la mattina per fare un lavoro ripetitivo o precario, o che ti spinge a attraversare il mediterraneo su una zattera, può essere un motore reale e simbolico per rovesciare il senso comune costruito sulle discese in campo e i reality show.
PS: a proposito di elaborazioni libertarie acrata, colgo l’occasione per segnalare la pubblicazione di un estratto degli atti di un convegno ospitato dal Centro Studi Libertari di Milano lo scorso 6 novembre, sul tema della Rivoluzione (argomento tutt’altro che vetusto, visto quello che è successo nei mesi successivi in Nordafrica). L’opuscolo — scaricabile anche on line qui) riproduce alcuni interventi (quelli di Andrea Breda, Andrea Staid, Tomás Ibañez, Antonio Senta e Eduardo Colombo). Posizioni diverse tra loro, ispirate appunto da una parte al lifestyle anarchism e al post-anarchismo, dall’altra dal recupero della tradizione libertaria e alla sua innovazione, a confronto.
UN ESTRATTO DA “Culture e poteri” DI STEFANO BONI, pp 140-143:
“Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo nei campi che elenco di seguito probabilmente non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione, in circuiti culturali di altri luoghi e tempi. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i seguenti campi. È stato codificato come e dove i cadaveri possono essere seppelliti. Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati certi giochi di carte, pur senza utilizzo di soldi. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, tra cui la bistecca con l’osso e il salame tagliato a mano, attraverso normative che rendono illegali certe composizioni e modalità di produzione del bene; ad esempio, sono stati regolamentati in maniera restrittiva i fermenti lattici utilizzabili per fare il formaggio (cf. Herzfeld 2004: 20). È stata vietata la macellazione, se non presso ditte autorizzate. È reato urinare in qualunque luogo che non siano bagni predisposti. In diverse città le norme urbanistiche sono ferree ed arrivano a specificare una ristretta gamma entro cui scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica statale. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio sia pubblico che privato, sia finalizzato alla produzione che all’abitazione, sia agricolo che commerciale, è stato sottoposto a una sterminata, capillare, ossessionante serie di vincoli e certificazioni che riguardano l’areazione dei locali, l’altezza dei soffitti, i materiali con cui devono essere fatti gli impianti elettrici e le modalità di apertura delle porte. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana e di tutte le droghe non legalizzate. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Per raccogliere i funghi è richiesta una autorizzazione. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi, anche se in condizioni di assoluta sicurezza. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare e ottenere una autorizzazione. È illegale utilizzare diversi oggetti e strumenti (cinture per le macchine, seggiolini per il trasporto di bambini, camper, caldaie, uscite di sicurezza, ascensori e innumerevoli altri) anche se funzionanti, se non approvati tramite autorizzazione e certificazione. Questo elenco è, ovviamente, incompleto. Potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali.
Va riconosciuto che oggi, rispetto ad altri contesti culturali, viene esercitato un uso della forza limitato e una invadenza contenuta in certi ambiti (costruzione identitaria, vestiario, preferenze sessuali, libertà di espressione). Allo stesso tempo, questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti: «l’amministrazione, come lo Stato moderno (a cui la sua crescita può essere associata) ora viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza» (Shore e Wright 1997: 4). Le sanzioni colpiscono la diversità proprio negli ambiti (il lavoro, la distribuzione proprietaria, la capacità di esercitare un peso politico, la gestione del territorio) che abbiamo delineato come essenziali nel processo di standardizzazione (§1.2.).
Le leggi dei sindaci
L’estensione dei divieti è tuttora in corso, in fase di accelerazione. Nell’Agosto 2008, tramite il decreto Maroni (GU n. 186 del 9-8-2008) viene consentito ai sindaci di passare norme finalizzate a promuovere la ‘sicurezza’, sanare il degrado, reprimere la prostituzione, impedire occupazioni, perseguitare l’accattonaggio, criminalizzare il consumo di alcol e combattere danneggiamenti al patrimonio. Nel giro di qualche mese, senza una reale distinzione di schieramento politico, vengono promulgate ordinanze locali che assoggettano vissuti, limitano libertà e spingono, sempre più, a dipendere dal mercato, vietando forme aggregative, ludiche e di sussistenza come mostra questo parziale elenco. Ad Assisi il sindaco ha vietato accattonaggio e nomadismo; a Eboli sono interdetti atteggiamenti amorosi in auto; a Taormina, Capri, Amalfi, Riccione, Forte dei Marmi, Venezia e Alassio può essere multato chi gira a torso nudo fuori dalla spiaggia; bando agli zoccoli di legno a Capri e Positano; vietati i picnic in spiaggia o in strada a Positano, Venezia, Capri e Firenze; proibita la vendita abusiva di qualsiasi merce sulle spiagge; multati i giochi in spiaggia in diverse località e persino i castelli di sabbia a Eraclea; proibiti i massaggi da personale ambulante sui litorali toscani e romagnoli; a Voghera è reato sostare, in più di 3 persone, su una panchina dopo le 23; a Novara, vietato sostare in più di due persone nei parchi pubblici dopo le 23.30; per combattere i pedofili, Trento proibisce di filmare i bambini in piscina; in diverse città italiane è vietato dare da mangiare ai piccioni; a Firenze proibito sdraiarsi per strada, lavarsi le ascelle nelle fontane pubbliche, legare la bicicletta a una panchina e sbattere tovaglie sui balconi. E per chiudere il cerchio, l’Alto Adige vieta di danneggiare i cartelli di divieto. Questa moltiplicazione di normative sembrano avere due principali finalità: a- implementare nuovi e più repressivi codici estetici e di decenza in un processo di musealizzazione degli ambienti; b- estinguere la possibilità di una socialità (giocare, riposarsi, mangiare, bere, dormire, amoreggiare, chiacchierare, commerciare, lavorare) gratuita per incanalarla in spazi appositi, a pagamento. […]”