di Alessandro Bresolin
Tra il luglio 1955 e il febbraio 1956 Albert Camus ha scritto una serie di testi, pubblicati su L’Express, dal cui denso linguaggio traspare il tentativo di dialogare con l’opinione pubblica e il mondo politico francese e arabo. La Guerra d’Algeria non aveva ancora raggiunto livelli insormontabili di violenza e Camus credeva ostinatamente a una soluzione pacifica. Imputava la responsabilità politica del conflitto alla madrepatria, esortando la comunità pied-noir a prendere in mano il proprio destino al di là della Francia stessa: «I francesi che, in Algeria, pensano che possiamo far coesistere la presenza francese e la presenza araba in un regime di libera associazione, che credono che questa giustizia renderà giustizia a tutte le comunità algerine, senza eccezione, e che sono sicuri in ogni caso che essa soltanto può salvare, oggi dalla morte e domani dalla miseria, il popolo dell’Algeria, questi francesi devono assumersi le loro responsabilità e predicare la calma per rendere il dialogo nuovamente possibile. Il loro primo dovere è di chiedere con tutte le loro forze che sia instaurata una tregua per quel che riguarda i civili».
Quando decise di lanciare ad Algeri il suo «Appello per una tregua civile in Algeria», le autorità gli negarono le sale da lui richieste e fu così che, grazie alla sua amicizia con lo sceicco El Hokbi, il 22 gennaio 1956 riuscì a organizzare un incontro pubblico al Circolo del Progresso, luogo simbolo del movimento islamista degli Ulema, nella parte bassa della Casbah. All’esterno, migliaia di militanti della destra francese occupavano la piazza scandendo slogan a favore della repressione e contro ogni intesa al grido «A morte Camus!». La proposta che aveva lanciato nel luglio 1955, «Algeri capitale federale», appariva loro come un vero e proprio sacrilegio: «Visto che si prevede una modifica costituzionale dell’Union Française, bisogna approfittarne per preparare la Fédération Française, per darle le sue istituzioni, prevedendo la costituzione ad Algeri di un parlamento federale dove tutti i territori federati invieranno i propri rappresentanti. L’Assemblea Algerina, come i parlamentari degli altri Paesi federati, avrebbe competenza per l’amministrazione interna, mentre al parlamento federale, nel quale l’Algeria sarebbe ancora rappresentata, spetterebbe la gestione dei problemi che riguardano la Federazione.»
Camus era convinto che una simile riforma federale avrebbe potuto evitare la guerra; e la sua propensione a una politica democratica e federalista per l’Algeria non era occasionale, ma l’esito naturale di una responsabile sensibilità politica socialista e libertaria, che risaliva agli anni della sua formazione.
La Kabilia e il melting pot algerino
Nell’Algeria degli anni trenta la comunità indigena era soggetta allo statuto coranico, detto anche codice dell’indigenato, che relegava i cittadini arabi a una categoria giuridica di serie B, separandoli de facto dalla popolazione di origine europea. In quest’epoca cominciò a manifestarsi nell’opinione pubblica democratica, araba e francese, l’esigenza di superare tale divisione, attuando una politica di integrazione e cittadinanza. La presa di coscienza politica da parte del popolo arabo aveva portato alla nascita di partiti politici d’ispirazione nazionalista, socialista, liberale e islamista, mentre anche i dirigenti del PCF, preoccupati per la scarsità di iscritti tra gli arabi, cominciavano a discutere della compatibilità tra islam e comunismo. Camus conosceva poco l’islam ma chiedeva una certa elasticità in ambito religioso; forse per questo il partito lo incaricò di occuparsi della propaganda tra gli arabi. Ciò gli permise di seguire da vicino la nascita del nazionalismo algerino, di conoscerne i movimenti e i protagonisti: dal liberale Ferhat Abbas all’islamista riformista El Hokbi fino a Messali Hadj, fondatore dell’Etoile Nord-Africaine (ENA), che nel 1935 aveva aderito al «Rassemblement Populaire» insieme al PCF, al PS, ai Radicali e alla CGT, contro la destra fascisteggiante del Fronte Nazionale.
Nel 1936, la vittoria del Fronte Popolare in Francia aprì una fase di grandi speranze per quanti auspicavano delle profonde riforme democratiche in Algeria. Camus fu tra gli ideatori del «Manifesto degli intellettuali d’Algeria a favore del progetto Violette», che prevedeva la concessione dei diritti civili e politici a un’élite arabo-musulmana di circa 60.000 persone. Ma questa riforma, vista come un primo passo verso «l’integrale emancipazione parlamentare dei musulmani» , non venne nemmeno approvato per la dura reazione della destra e delle lobby coloniali. Con la caduta del governo del Fronte popolare cadde anche la speranza riformatrice in Algeria e il risentimento arabo si coagulò intorno alla figura di Messali Hadj, che nel 1937 aveva fondato il Parti du Peuple Algérien (PPA). Il programma del PPA mostrava un’importante evoluzione politicam rispetto al populismo degli esordi; si sosteneva la necessità di evolvere i rapporti con la Francia in chiave federalista: «Il Partito del popolo algerino lavorerà per l’emancipazione totale dell’Algeria, senza per questo separarsi dalla Francia. […] L’Algeria emancipata, usufruendo delle libertà democratiche che avrà acquisito nel corso della sua azione, avendo così un’autonomia amministrativa, politica, economica, si integrerà liberamente in un sistema di sicurezza collettivo francese nel Mediterraneo».
Camus non riuscì ad accettare la successiva criminalizzazione di Messali Hadj da parte dell’amministrazione e prese le sue difese al processo. Queste posizioni lo esposero all’eresia politica e all’esclusione dal Partito comunista. Conosceva i militanti messalisti e nel 1939, dopo le elezioni del 23 e 30 aprile, vinte da un candidato del P.P.A., le commentò così: «Per la prima volta nella storia dell’Algeria, un proletario arabo, rappresentante di un partito che chiede per la colonia lo statuto di dominion, parteciperà ai lavori di un’assemblea ufficiale».
La sua rete di contatti tra i militanti arabi gli permise di organizzare il viaggio che lo porterà a scrivere il reportage «Miseria della Kabila», pubblicato su Alger républicain tra il 5 e il 15 giugno 1939. Riportando le rivendicazioni degli esponenti delle comunità locali, proponeva l’estensione di una delle poche riforme attuate nel 1937, che aveva consentito a un certo numero di comuni il passaggio ad amministrazione diretta da parte indigena. Bisognava accordare ulteriore autonomia amministrativa: «Si troverebbe così realizzata nel cuore della Kabilia una sorta di piccola repubblica federale ispirata ai principi di una democrazia veramente profonda. E una visione così lucida delle cose, un così grande buon senso mi apparivano, ascoltando il presidente degli Oumalous, come un esempio per molti dei nostri democratici ufficiali».
Trasformare la Kabilia in un’entità autonoma e federata a un’Algeria a sua volta federata alla Francia, per garantire le diversità sociali algerine, come quella del popolo berbero, dotato di lingua e cultura proprie, voleva dire riparare a un guasto del colonialismo: «Perché questo statuto siamo noi ad averlo imposto ai kabili arabizzando il loro paese attraverso il caidato e l’introduzione della lingua araba. E non possiamo oggi rimproverare ai Kabyles quello che noi gli abbiamo imposto».
Il federalismo interno e l’occasione persa del dopoguerra
Nel giugno 1940, quando il regime di Vichy cercò la collaborazione di Messali Hadj proponendogli clemenza in cambio dell’abbandono della sua intransigenza, questi rifiutò sdegnato e al processo si difese esponendo il suo pensiero: «Noi non vogliamo la separazione, ma un’emancipazione con la Francia, nel quadro della sovranità francese.»
Nel 1942, dopo lo sbarco anglo-americano in Algeria, Ferhat Abbas presentò alle autorità alleate il « Manifesto del popolo algerino », stilato insieme a Messali Hadj, che prevedeva la fine della colonizzazione e la concessione di una costituzione che garantisse: «La libertà e l’uguaglianza assoluta di tutti i suoi abitanti senza distinzione di razza o religione; la soppressione della proprietà feudale con una grande riforma agraria; il riconoscimento della lingua araba come lingua ufficiale, allo stesso titolo della francese; libertà di stampa e diritto di associazione; l’istruzione gratuita e obbligatoria per i ragazzi dei due sessi ».
Il tutto nel quadro di un’Algeria autonoma e federata alla Francia. Anche le autorità francesi fecero sapere che si trattava di una buona base di discussione e il governatore Peyrouton si dichiarò favorevole alla trasformazione dell’Algeria sul modello dei dominium britannici. Questo però andava contro le pretese dei grandi coloni che, dopo violente pressioni, lo costrinsero alle dimissioni nel giugno del 1943. Al suo posto, il generale Catroux normalizzò la situazione tornando a promettere una vaga politica assimilazionista. Ma alla festa del I° maggio 1945 si svolsero manifestazioni in diverse città algerine, le proteste continuarono e l’8 maggio a Setif le forze dell’ordine spararono sulla folla. Ne scoppiò una rivolta, che portò all’uccisione di un centinaio di civili francesi e che scatenò una dura repressione, conclusasi con il massacro di circa ventimila arabi. Tra le conseguenze politiche, l’arresto di Ferhat Abbas, dell’ulema El Okbi e di Messali Hadj. Camus si precipitò ad Algeri, dove trovò un quadro politico mutato. La politica dell’integrazione non bastava più, perché «la storia, giustamente, è andata avanti. C’è stata la disfatta e la perdita del prestigio francese. C’è stato lo sbarco del 1942 che ha messo gli arabi in contatto con altre nazioni e ciò gli ha dato il gusto per il confronto. […] Tutto ciò fa si che un progetto che sarebbe stato accolto con entusiasmo nel 1936, e che avrebbe potuto sistemare molte cose, oggi incontri solo diffidenza. Siamo ancora in ritardo».
Camus definiva il movimento sorto intorno al «Manifesto del popolo algerino» come «il più originale e il più significativo che sia apparso in Algeria, dagli inizi della conquista». Bisognava prendere atto della «sconfitta della politica di assimilazione e la necessità di riconoscere una nazione algerina, unita alla Francia, ma munita di caratteristiche proprie.[…] Questa tesi fondamentale è accompagnata da rivendicazioni sociali, che mirano tutte a far entrare la democrazia più completa nella politica araba».
Così Ferhat Abbas, fortemente sostenuto da Camus, in un articolo apparso su Combat il 26 giugno 1946: «La nostra evoluzione non potrà effettuarsi che attraverso un parlamento algerino che non rappresenti solo la popolazione autoctona, ma tutti gli abitanti d’Algeria. Non è mai stata nostra intenzione creare uno stato musulmano. Noi perseguiamo la creazione di uno Stato algerino, con diritti civili uguali per tutti, senza distinzione di religione o di razza».
Alle elezioni del giugno 1946 il partito di Abbas, l’Union Démocratique du Manifeste Algérien (UDMA), ottenne un trionfale successo che produsse un nuovo slancio riformatore. Ma le timide misure adottate dal parlamento francese nel 1947-’48 apparivano come nuove definizioni per un colonialismo che non voleva cambiare.
Il rifiuto di obbedire alla violenza
Allo scoppio della guerra l’FLN non era molto radicato sul territorio. I suoi quadri si erano formati nella clandestinità o all’estero e i suoi metodi violenti erano tutt’altro che egemoni. Camus, conoscendo bene la complessità della politica algerina, sapeva che le diverse tendenze politiche, laico-liberale, democratica, comunista, socialista, islamista, potevano riassumersi in un Fronte unico ideologicamente islamo-leninista solo con la violenza. Cercò di sviluppare una terza via al di là del terrore coloniale e anticoloniale, e in questo come abbiamo visto non era affatto isolato. La Francia doveva trovare degli interlocutori arabi, che a un dato momento avrebbero potuto essere Ferhat Abbas o Messali Hadj, ma appunto «l’errore del governo francese dall’inizio degli eventi è stato di non distinguere mai niente, e di conseguenza di non parlare mai in modo netto, cosa che autorizzava qualsiasi scetticismo e qualsiasi rilancio tra le masse arabe. Il risultato è stato di rinforzare da una parte e dall’altra le fazioni estremiste e nazionaliste».
Consapevole che l’era della colonizzazione era finita Camus rifiutava ostinatamente di obbedire alla violenza e all’odio inter-etnico, perciò era contrario a un’indipendenza forgiata sull’identità islamica-sovietica. Riteneva necessaria la costituzione di una nazione algerina federata alla Francia e federale al suo interno che garantisse l’uguaglianza, il pluralismo politico e la sopravvivenza della comunità francese, composta per l’80% da ceti popolari. Camus non era quindi il difensore di un’Algeria francese, chiedeva piuttosto un diverso processo di costruzione nazionale, incruento, che salvasse quel melting-pot che, con tutti i suoi difetti, rappresentava una ricchezza per il paese. Certo bisognava operare delle riforme strutturali, delle modifiche alla centralista costituzione francese, ma «l’unico regime che, allo stato attuale delle cose, renderebbe giustizia a tutte le parti della popolazione, mi è parso a lungo quello della federazione articolata con istituzioni analoghe a quelle che fanno vivere in pace, nella confederazione elvetica, delle nazionalità diverse.Mais credo che bisogna immaginare un sistema ancora più originale. La Svizzera è composta da popoli diversi che vivono su territori diversi. Le sue istituzioni mirano solo ad articolare la vita politica dei suoi cantoni. L’Algeria, al contrario, offre l’esempio rarissimo di popolazioni diversi intrecciate sullo stesso territorio. Quello che bisogna associare senza fondere (poiché la federazione è innanzitutto l’unione delle diversità) non sono più due territori ma delle comunità dalle personalità diverse».
Una posizione che solo la cecità della Francia e il contesto geopolitico segnato dalla guerra fredda ha reso utopica. In realtà il progetto federale non prevedeva ne più e ne meno che la nascita di un commonwealth francese. Oggi purtroppo possiamo solo immaginare l’importanza che avrebbe avuto dotare l’Algeria, già dal ’45, di un parlamento realmente rappresentativo e di una vera costituzione democratica e federale che rispettasse un popolo etnicamente e culturalmente eterogeneo. Ciò avrebbe consentito che qualsiasi evoluzione successiva della situazione algerina sarebbe partita da solide basi costituzionali, anziché dal terrore e da una violenza il cui prezzo ancor oggi lo sta pagando il popolo algerino.