di Gioacchino Toni
Con l’articolo Il garibaldino Nino Biperio, su L’Espresso, Umberto Eco intende evidenziare come la Scuola pubblica italiana non sia poi così allo sfascio come vorrebbero tanti luoghi comuni. In tale scritto lo studioso cita alcune esperienze personali (in veste di giurato a concorsi di scrittura rivolti a studenti delle Scuole medie superiori) da cui emerge come nella denigrata Scuola pubblica italiana si trovino esempi di eccellenza. Nulla da eccepire sulle conclusioni a cui giunge. Insegno nelle Superiori da ormai quindici anni (da precario, ovviamente, assunto il primo giorno di scuola e licenziato l’ultimo senza vedermi riconosciuti in busta paga gli scatti d’anzianità), dunque non è una novità sapere che le eccellenze esistono, eccome, nelle nostre scuole.
Da buon precario cambio quasi ogni anno luogo di lavoro passando dai licei agli istituti tecnici e professionali, ciò mi permette una visione d’insieme del panorama scuola che, forse, a tanti manca. Leggendo l’articolo di Eco ho sviluppato alcune considerazioni che ha perfettamente messo nero su bianco, anticipandomi, il caro amico e collega Marino Bocchi in una semplice e stringata lettera inviata a una mailing list di insegnati. Condividendo in pieno questo intervento, mi limito a riportarlo.
«(…) Condotta con questi argomenti, la difesa di Eco della scuola pubblica rischia di portare acqua al mulino della Mastrocola, le cui tesi ne legittimano il de profundis in atto. Voglio dire che la scuola pubblica la si tutela a partire dal “basso”, dal corpaccione che non sono i licei, che ne costituiscono una minoranza, ma i tecnici e i professionali. E se è così, le brillanti eccellenze rivendicate da Eco non possono diventare il modello della scuola pubblica, la quale ha il compito sì di insegnare che Bixio e Biperio non sono la stessa persona, ma anche di tener conto del fatto che i bisogni di moltissimi alunni che la frequentano sono di carattere socio-culturale e l’eccellenza è raggiunta da quelle scuole che, per esempio, adottano strategie efficaci di contenimento della dispersione, lavorando sulla relazione, oltre che sui contenuti, e sull’educazione all’emozione oltre che sulla Storia del Risorgimento. A questo proposito, voglio qui richiamare le due pagine della sezione Cultura su Repubblica di oggi (02/04/11), entrambe centrate sulla complessità della razionalità come metodo privilegiato di approccio alla conoscenza. Sia Edgar Morin che David Brooks insistono sul fattore emotivo e questo non lo misuri coi test (leggi Invalsi), né con le categorie della ragione autosufficiente e pura. Come dice Brooks: “Cresciamo i nostri figli focalizzando tutta la nostra attenzione sugli aspetti misurabili attraverso i voti o i test attitudinali, ma spesso non abbiamo nulla da dire sugli aspetti più importanti, come il carattere o il modo di gestire i rapporti”.
Sono convinto ovviamente che Eco sarebbe del tutto d’accordo circa il fatto che é solo dall’intreccio di queste diverse eccellenze che si valuta la qualità o meno della scuola, perché senza il fattore emotivo e relazionale che supporta il lavoro scientifico e creativo non si forma il pensiero critico. Ma andrebbe detto e ripetuto. Se non si vuole correre il rischio di ridurre il sapere a una corretta trascrizione del nome di Nino Bixio.»