di Dziga Cacace
Ero chiamato il solista delle paraléle!
Peter Sellers in La pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau
264 — L’orrido I Tenenbaum di Wes Anderson, USA 2001, e i film che si fa la Fallaci
Pasquetta e primo d’aprile, e non sarà un caso. E io ci casco in pieno: dopo orrido svacco svoltiamo decidendo per un film ben recensito dai quotidiani e dai settimanali. Il ragionamento è: week end lungo e milanesi fuori dalle balle. Sbagliato, clamorosamente! Il cinema è pieno del bestiale pubblico dei giorni festivi, al cubo: un tragico impasto di fresconi che come noi si bevono le recensioni dei quotidiani, affollano le sale e poi s’infilano in pizzeria. E il film orrendo va di conseguenza: la commediola estetizzante che accontenta il pubblico pretenzioso. O dovrebbe, (qui potete mettere la vostra imprecazione di riferimento). I Tenenbaum sono una famiglia newyorchese afflitta dalla genialità, o così ci viene premesso, anche se poi, a vederli agire, sembrano tutti affetti da cretinismo delle valli. Royal Tenenbaum (Gene Hackman), avvocato, s’è bruciato tutti i suoi soldi. Vuole essere riaccolto dalla famiglia dopo aver lasciato la moglie 17 anni prima e allora si fa passare per malato terminale. I tre figli hanno idee diverse in proposito. Chas, genio degli affari già sconvolto per aver perso la moglie, non ne vuole sapere. La figlia adottiva Margot — un’autrice teatrale spostata che fuma di nascosto da 22 anni (e qui si dovrebbe ridere) — non s’oppone. Richie, ex campione di tennis che vive vestito da Bjorn Borg, è d’accordo. Dalle tensioni che nascono dall’ospitalità prima concessa e poi negata (etc. etc.), scaturisce questa trama abulica in cui s’incrociano anche l’amore del commercialista nero per Etheline, la moglie separata di Royal Tenenbaum, e quello di Richie per Margot. Divertente come addentare un fico d’india. Intero.
Le poche cose che fanno sorridere un nanosecondo sono gli abbigliamenti strampalati (di Richie ho detto; Chas e i suoi due figli vestono unicamente tute Adidas rosse). Per il resto c’è poco da divertirsi. Il film è lento perché vuoto e tutto congiura per farne un cult. Ma non è vero niente ed è solo uno squallido pesce d’aprile. Belle le ambientazioni, colorata la fotografia e ritmata la musica; e decenti anche gli attori (tolta la Paltrow, penosa), però è tutta confezione e niente sostanza. Un filmetto apparentemente svagato ma furbacchione, superficiale e senza polpa, scritto con boria e astuzia tale da pigliare per il naso tanti criticonzi obnubilati dai lustrini. Non dategli retta: per fare un film serve una storia e per costruire dei personaggi non bastano dei costumi e qualche tic. Vabbeh. Durante le vacanze ho poi finalmente trovato il tempo per leggermi l’infausto articolo della Fallaci apparso sul Corriere all’indomani dell’11 settembre, con le risposte di Eco, Terzani e Maraini e nessuna vera rispostaccia, purtroppo. La cosa più incredibile di questa congerie di puttanate che qualcuno ha già definito “saggio” (di intolleranza, però) è il continuo ricorso al concetto di “mia terra”, contro chiunque voglia invaderla o semplicemente “praticarla”, culturalmente o fisicamente. E questo aberrante concetto va confusamente di pari passo alla condanna di Arafat (cui la terra l’hanno vagamente fottuta) e all’esaltazione della democrazia USA (che la terra se l’è rubata fin dalla sua nascita), con una consequenzialità totalmente sfuggente. La Fallaci sproloquia appoggiandosi non a dati o fatti oggettivi ma alle sue esperienze personali (determinate anche da un carattere orgogliosamente merdoso), confondendo islamismo e fondamentalismo, negando totalmente una valenza alla cultura di quei quattro saraceni straccioni, procedendo per luoghi comuni imbarazzanti e scenette che lasciano stupefatti. Tipo il doganiere che ti sorride nell’aeroporto USA: sì, voglio vedere se arrivi col turbante, cara Oriana. L’articolo è una chiamata alle armi che non ammette dubbi e non tollera domande. Di questa schifezza degna di una pescivendola ne faranno un instant book e la Fallaci venderà una milionata di copie, vedrai: è facile da leggere, è coinvolgente e conferma gli atroci pensieri meschini dell’uomo mediamente stupido e sommamente ignorante. Poi dicono che la colpa è della televisione: ma vaffanculo, va’. E aggiungo: a me questa irrita da mo’, mica dall’altroieri, perché pure Un uomo è uno sproloquio su se stessa, altro che su Panagulis, mio idolo di gioventù mortificato da una descrizione dove sembra che non faccia altro che piagnucolare “libertà, libertà” e sia figo soltanto perché innamorato di questa insopportabile virago che scrive maree di aggettivi. (Cinema Brera, Milano; 1/4/02)
265 — L’amaro Sweet Movie di Dusan Makavejev, Canada/Francia/RFT 1974
Bello! Non avrei mai detto che dall’infame collezione dei Film Proibiti dell’Espresso uscisse un film realmente intrigante e spiazzante. Sweet Movie, il dolce film, di dolce ha molto poco perché in chiave allegorica dipinge un mondo amarissimo stretto tra il tradimento del comunismo e l’illusione del capitalismo. La logicità non è uno dei requisiti di sceneggiatura e ci sono due vicende che scorrono parallele: una è quella di Miss Mondo 1984 (Carole Laure) che, vergine, va in sposa a un capitalista che ha pure l’uccello d’oro. Lo fugge e finisce tra le forzute braccia di Mr. Muscolo. Ma anche lì non è amore. Si accoppia finalmente con Mr. Macho, un attorucolo, e rimane incriccata da un fatale colpo della strega. Dopo aver trascorso un po’ di tempo in una comunità hippie, finirà a fare pubblicità erotica al cioccolato, vittima del consumismo. L’altra vicenda vede un barcone con a bordo tutte le vittime dell’utopia comunista. Il battello è guidato da Madame Planeta (Anna Prucnal), animata dalle migliori intenzioni ma incapace di esimersi dal sacrificare (e mangiare) tutti gli altri comunisti che accoglie a bordo. Film coraggioso, visionario, ipercromatico, composto da scene riuscite e altre meno, ma in ogni caso mai banale sia per invenzioni che per messaggi e comunque dotato di un bel ritmo, con frequenti cambi di passo. La mia copia era sicuramente tagliata dal censore e si avvertono alcuni passaggi che di logico hanno pochissimo (per non parlare di scene, tipo quella in cui vengono sedotti i bambini, sforbiciate senza curare minimamente le giunte). Due scene passano alla storia; una per tenerezza e senso di morte: l’amplesso tra Planeta e l’ultimo marinaio della Potemkin (Pierre Clementi), che si consuma nello zucchero e finisce nel sangue. L’altra vede Miss Mondo pucciarsi nella cioccolata in maniera altamente erotica, cosa che è rara vedere al cinema (il cinema erotico è solitamente ipocrita e ci ammorba con cameriere zoccole, ereditiere ninfomani e casalingue insoddisfatte; prima o poi ne riparliamo). Bravo Makavejev. (Vhs originale; 8/4/02)
266 — L’accecante Duello al sole di King Vidor, USA 1946
Ho dieci giorni di libertà mentre Barbara è via per motivi di studio, ma il lavoro e gli impegni già presi mi tolgono ogni possibilità di scorribande nei miei 3 metri cubi di vhs. Sino a stasera e infatti mi tolgo uno di quegli sfizi leggendari: imbozzolato in una coperta, con davanti vassoiata di pistacchi iraniani, litrata e 1/2 di Lemonsoda a 4 gradi e salame chiantigiano di Greve calibro 35 (diametro; come lunghezza, siamo sul Siffredi andante) io mi vedo un film del 1946, là! Trattasi del mitico Duello al sole, film eccessivo che racconta il destino sfortunato della meticcia Pearl. Il padre ha ammazzato la moglie indiana zoccola ed è finito appeso. E così Pearl è stata affidata ad Arabella (una amante del padre, ma si scoprirà in seguito e la cosa provocherà qualche altro momento melodrammatico). Arabella (Lillian Gish) vive a Piccola Spagna, un Ranch nel cuore del selvaggio Texas, e ha due figli: il buon Jack, corretto, studioso e aperto allo sviluppo, e Lewis, zoticone cow-boy che ama far nulla. Siccome Pearl dalla madre qualcosa ha ereditato, eccola che subito flirta con Jack, per fare poi la smorfiosa con Lewis. Ma mentre Jack è serio, Lewis tromba. E Pearl, per tutto il film, sarà combattuta tra l’accettazione nel mondo dei bianchi, lei “bastarda”, inseguendo il rispettabile Jack, e la continua tentazione passionale di Lewis, delinquente, ingannatore eppure così maschiaccio. Acciderbolina, che bel quesito esistenziale! I due infoiati moriranno assieme, sparandosi vicendevolmente e spirando abbracciati, incapaci a rinunciare l’uno all’altro, ma troppo selvaggi per risolvere la questione in maniera civile e pure rammaricati che non ci sia stato il tempo per l’ennesima copula infuocata nel pietrisco. Che dire di questo Duello al sole? Beh, che è tutto nella fotografia densa in maniera eccessiva che apre il film: Duello al sole è sovraccarico, è il grande spettacolo dove ti viene servito amore, tradimento, sparatorie, inseguimenti e sentimenti; e poi ci sono la consueta domestica nera che parla gutturale, i messicani unti che gozzovigliano, i cavalli recalcitranti, Caino e Abele, le sottili tensioni edipiche, la sensualità della natura e quella di chi ragiona con cazzo e patata. Insomma, un film divertente, girato con gusto, scritto col mestiere di chi sa come tenerti sveglio per due ore. La fotografia è in ogni caso bellissima, puramente artificiale, e, come la musica di Dimitri Tiomkin, irrompe nella narrazione, gettando una luce onirica e fiabesca nelle parti meno credibili del racconto. Attori in parte (anche se la Jennifer Jones che interpreta Pearl ha momenti di rara cagnaggine recitativa) e regia funzionale, con spartani ma efficaci movimenti di camera: dei 6 registi che si alternarono (tra cui anche Von Sternberg e Dieterle), al di là dell’attribuzione formale, quello che prevalse fu il produttore David O. Selznick e che sia il vero autore è anche evidente dal ricorrere ossessivo del suo nome nei titoli di testa. Godibile filmaccio. (Vhs da RaiTre; 13/4/02)
267 — L’hippie de noartri Terzo canale… avventura a Montecarlo di Giulio Paradisi, Italia 1970
Nel giorno del grande sciopero generale, dopo il mio dovere in piazza da contraddittoria partita IVA che lavora a Cologno, mi concedo un musicarello beat veramente curioso, di cui sono principali protagonisti i Trip, magnifico gruppo progressive e hard rock a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Guidati dal tastierista virtuoso Joe Vescovi, i Trip prima maniera erano degli hippie nostrani, diretti discendenti di una masnada di musicisti inglesi (tra cui Ritchie Blackmore) calati in Italia qualche anno prima. All’inizio degli anni Settanta non esisteva MTV e per i paleo-clip musicali dell’epoca l’unico mezzo di diffusione era il cinema. Si metteva su una trama e con qualche bel pretesto s’infilavano dei numeri musicali. Qui c’è una scuderia musicale completa: oltre ai Trip, ci sono anche i New Trolls, Mal e i Primitives e i Ricchi e Poveri (con Marina Occhiena!). La trama è splendida nella sua sconcertante semplicità: i Trip vogliono raggiungere Montecarlo per esibirsi sul terzo canale televisivo. Le picaresche vicissitudini (molto poco hard rock) li riportano ogni volta alla partenza, a Roma: infine suoneranno nel tripudio generale al festival di Caracalla, organizzato da Radio Montecarlo (capito l’equivoco?). Ogni pretesto è buono per infilare qualche esibizione dei personaggi succitati e di altri (per me) illustri sconosciuti e la pellicola scorre veloce, con tante ingenuità ma pure qualche bella botta d’inventiva a partire dall’ambientazione psichedelica della casa dei Trip, sorta di ambasciatori del peace and love. Emblematicamente i Trip devono affrontare i burini (che credono che sia arrivato l’arcangelo Gabriele): è l’eterna tenzone tra modernità e reazione, tra conoscenza e ignoranza, tra città e campagne, tra rock e mazurca. Ma c’è anche consapevole autoironia, perché i Trip non sono altro che dei ladri di polli, bastevolmente scarsi per essere costretti a suonare per un grasso avicultore (cosa che dà occasione per tre minuti di surrealismo campagnolo con i ricchi imprenditori, grassissimi, che cacano uova, prontamente raccolte da un laido pretonzolo). Terzo canale è una gemma pop, chissà quanto intenzionale, che risente dei diversi stimoli d’oltreoceano, dei film dedicati alle band e dei raduni alla Woodstock. E c’è pure un po’ di sesso (suggerito, non messo in scena) facendo casto riferimento alle groupies. Nato come musicarello, rimane un documento abbastanza unico, ruspante, colorato, sbarazzino, dove i pochi soldi non limitano le invenzioni. A un certo punto i fin troppo umili Trip si chiedono: “A noi chi ce lo fa fare un film, con queste facce di merda?”. Ma ve lo farei fare io, se vi ritrovassi! Per il momento dei Trip ho solo i dischi e — credetemi — sono bellissimi. Nel film viene fuori anche la bravura clamorosa dei New Trolls più rockettari, mentre Mal si conferma il simpatico uomo-tronco che avevo conosciuto durante irripetibili crimini televisivi. (Vhs da beta; 16/4/02)
268 — Il capolavoro Prima di mezzanotte di Martin Brest, USA 1988
Questo è un film che amo senza ritegno: un buddy-movie con due protagonisti superlativi. Prima di mezzanotte è il classico film yankee scritto perfettamente, in equilibrio tra comicità, thrilling e commozione, senza un calo di tensione e con una cura speciale nella caratterizzazione dei personaggi secondari. È il film, insomma, che consiglierei a ogni aspirante sceneggiatore per capire cosa significa fare un bel film commerciale (perché è possibile, oh sì). Dialoghi precisi, musica trascinante, regia economica. Jack Walsh (De Niro, smagliante) è un ulcerato bounty killer che ha poche ore per assicurare alla giustizia il ragioniere della mafia Jonathan Mardukas, detto il Duca, un inoffensivo contabile che però sa troppe cose. Walsh becca subito Mardukas e inizia l’avvincente fuga dei due attraverso l’America, inseguiti dalla mafia del temibile Jimmy Serrano, dalla FBI e da un altro bounty killer, il credulone Dorfler. Tra i fuggitivi c’è un’iniziale antipatia, poi poco a poco nasce anche un rapporto di stima. Walsh ha parecchi fantasmi del suo passato da esorcizzare (lasciò la polizia per integrità, è separato dalla moglie e gli manca la figlia) e il Duca riesce a insegnargli qualcosa sulla vita con la sua pignoleria, la sua capacità di mentire subdolamente, il suo ingannevole fare dimesso. Lo splendido Grodin dimostra tutto il suo sottoutilizzato talento e non sfigura per niente di fianco a De Niro. Il thriller scorre veloce come una pallottola tra un limite temporale da non sforare, dei traumi familiari da ricomporre, una dignità da preservare e qualche considerazione etica da rispettare. Finisce bene, ma c’è un prezzo terribile: la coppia di amici deve spezzarsi. “Ci vediamo nell’altra vita” dice il Duca a Walsh e le strade si dividono: IMMENSO! Ho sempre sognato che esistesse un seguito con questi due straordinari personaggi, ma forse è meglio così, che l'”altra vita” rimanga solo nei nostri sogni di spettatori. Prima di mezzanotte è un capolavoro di cinema “medio”, una macchina da divertimento perfetta con la lacrimuccia nel momento giusto, la pausa comica, il dialogo brillante, i caratteristi azzeccati, le battute ficcanti, la lieta fine, le magnifiche canaglie e il cattivo veramente cattivo. Ci sono due scadimenti nel farsesco (durante gli inseguimenti, quando al regista americano scappa sempre la mano), ma tutto il resto si regge su un perfetto equilibrio di umorismo e azione. Tra i personaggi da ricordare anche l’agente FBI Alonso Mosley, un poliziotto nero incattivito dalla vita. Bello score musicale di Danny Elfman con molto rock e blues. Grandissimo film a cui sono legato affettivamente e che rivedo ogni volta che posso (ed è un film che fa godere di bestia anche mio padre). Mi manca già. (Diretta su Retequattro; 21/4/01)
269 — L’incerto Casomai, ma proprio casomai, di Francesco D’Alatri, Italia 2002
Serata di gala, con la prima di Casomai e siamo in molti amici per l’esordio su grande schermo di Fabio Volo. In platea anche tanti che più che per vedere sono venuti per essere visti o per criticare. La storia è quella di Tommaso, copy, e Stefania, truccatrice. Un matrimonio dove quel che conta, sembra dirci D’Alatri, dovrebbe essere la convinzione personale e l’abilità di mantenersi in equilibrio come due pattinatori sul ghiaccio: bisogna astrarsi da amici, lavoro, famiglia. I numeri del mondo d’oggi parlano contro il matrimonio. L’organizzazione familiare odierna lo contrasta, il lavoro (specie se autonomo e creativo) non lo aiuta così come un bimbo da accudire e le tasse da pagare ti portano presto a smettere di ciulare. È un horror! E quando sei depresso e sull’orlo del pessimismo cosmico, ecco la sorpresa: tutta questa collezione di sfighe non era altro che la messa in guardia del prete burlone che sta celebrando il matrimonio (ma il Donald Sutherland officiante in Piccoli omicidi era molto più simpatico). Dunque Tommaso e Stefania si dicono di sí da soli, perché non c’è bisogno di nessun altro. Escono dalla chiesa e tirano il bouquet. Fine. E sconcerto! Ma sai dove te lo metterei io, quel bouquet, caro D’Alatri? Casomai scorre grazie a due attori principali simpatici (non i giovani di contorno, tutti abbastanza cani e poco aiutati dal copione), però… Durante il film Tommaso vince un premio pubblicitario con uno spot con sorpresa finale e Casomai funziona un po’ così, con un capovolgimento che ristabilisce tutte le premesse positive iniziali e mette il cuore in pace a chi credeva che si fosse tramutato poco a poco in un film dell’orrore sulla vita di coppia. Casomai è un fastidioso spottone al “bel” matrimonio, quello veramente sentito, quello che “non si fa più”, velatamente cattolico. Mah! Magari me lo sogno io. E come Tommaso cerca di spacciare professionalmente quest’idea di nuova famiglia, anticonformista, che sceglie nuovi valori e sapori, così mi sembra che D’Alatri cerchi di vendere lo stesso prodotto a noi spettatori. Boh. O forse ero stanco e di cattivo umore, chissà. Fabio è bravo, però mai pensi a Fabio che fa Tommaso, è lui e basta. Detto del film, che anche a una prima sbaglino il mascherino e ti costringano a una visione monca, è cosa che non ha bisogno di commenti. (Cinema Colosseo, Milano; 23/4/02)
270 — L’urfido Panic Room di David Fincher, USA 2002
Io non so quanto sia colpa dei miei pregiudizi, ma anche stavolta, tant’è, l’ennesimo film di Fincher m’ha fatto proprio cagare. È un regista furbetto che odio e stasera ha cominciato a irritarmi fin dai titoli di testa. Una spacconata che non ha senso alcuno nella logica (già poca, per altro) del film. Infatti i nomi del regista e degli interpreti sono trattati come cartelloni e scritte pubblicitarie incastonati nello skyline di New York. E allora? Ma cosa cazzo mi significa? E già che c’eravamo, perché non scriverli su uno striscione attaccato a un aeroplanino? Secondo me in questa partenza c’è tutta l’essenza malata del cinema di Fincher: cinema dove il regista non si chiede il motivo delle cose che fa, ma punta solo a stupire lo stolido spettatore con qualche effettaccio. Così come quelle irritanti vaccate di Seven, The Game o Fight Club, film dove tutte le buone intenzioni si perdevano nella provocazione continua. In Panic Room c’è uno spunto discutibile e stavolta lo sviluppo non sorprende nessuno e ti spappola i coglioni subito: Jodie Foster va a vivere con la figlia in un lugubre appartamentone di Manhattan, che possiede l’inusuale benefit della panic room: una stanza blindata ma con un foro per far passare l’aria (come dire: una cassaforte col buco), senza viveri, senza campo per il telefono cellulare, con condutture per aria e telefono manipolabili dall’esterno. Una trappola per topi che solo un cretino si potrebbe mettere in casa. Anche perché — ragioniamo — se ti entrano dei ladri in casa, che fai? Scappi fuori, il più lontano possibile. Ovviamente agli americani preme la proprietà, non la vita, e allora s’inventano questo nipote minorato del bunker antiatomico, un’enclave da cui reclamare ancora la sovranità sul proprio territorio domestico, una panic room non per fuggire ma per dire che a casa mia sono ancora padrone, anche se mi invadono. Cioè, una solenne cazzata. Il film parte con un presupposto demenziale e man mano si sgretola. Il primo tempo è abbastanza da piangere, noioso, lento, ripetitivo; asseconda ogni stereotipo (il delinquente buono che è colpa della società, quello muy loco e quello cattivo; i nemici dentro — la figlia ha bisogno di zuccheri – e fuori) e ricorre al virtuosismo di photoshop per coprire la clamorosa mancanza di idee, con Fincher che si affanna a costruire movimenti di macchina impossibili. Li vedi e dici: embeh? Mah. Il secondo tempo prende un ritmo diverso e almeno intrattiene. Però prevale l’irritazione accumulata prima. (Sala, ho rimosso quale; e non sarà un caso; 25/4/02)
271 — Il complicatino Apri gli occhi di Alejandro Amenábar, Spagna 1997
Vergo queste imprecise righe tre mesi dopo la visione, mentre sono a San Francisco, smentendo anche l’unico valore di questa raccolta di pareri isterici: l’ordine cronologico e il nitore neoclassico della scrittura. Non ho scritto al momento e oggi non ricordo un belino della trama. O meglio: ho ricordi paurosamente confusi di un plot che fa del casino uno dei suoi punti di forza. Ci provo. César ha tutto: soldi, gioventù e bellezza. E donne, tantissime. Ma una lo perseguita. In carcere, intanto, c’è un presunto omicida col volto mascherato e uno psicologo che prova a farlo ricordare. Le due (tre, quattro storie) sembrano non avere attinenze e piano piano, invece, si scopre una trama per niente lineare, ricca di sorprese, dove tutto quello che abbiamo ipotizzato viene continuamente smentito, dove sogno e realtà si confondono e si sostituiscono. Cos’è vero, cos’è falso? Cosa (ci) accade realmente? La vida es sueño? Le facce (come nei sogni, quando un tizio è quel tizio, ma con la faccia di un altro) si scambiano. Ci sono più finali e più sorprese, ma il gioco m’ha scocciato presto. Di positivo ci sono una regia non banale e Penelope Cruz, bellissima e pure biotta. Apri gli occhi potrebbe appassionare come irritare gli amanti delle realtà parallele e delle sceneggiature a scatole cinesi, quelli che pensano che il cinema sia un gioco enigmistico e un film è bello se ti frega. O anche no, magari solo se ti ribadisce che la realtà non esiste e tu vivi un mondo illusorio. Seee, e quello che caghi e puzza è frutto solo della tua immaginazione prigioniera di questo ricatto universale. L’han rifatto quest’anno con la regia di quel frescone di Cameron Crowe, la Cruz nella stessa parte e Tom Cruise in quella di César. Vanilla Sky: evitato ac-cu-ra-ta-men-te. (Vhs da beta; 2/5/02)
274 — Il devoto L’ora di religione di Marco Bellocchio, Italia 2002
Botta di vita intellettuale, al cinema per l’ultimo Bellocchio. Ernesto è un pittore ateo, serio, onesto. Gli piomba in casa tal Don Pugni, emissario del Cardinal Piumini e gli annuncia bello fresco che sua madre sta diventando santa. Ollalà! ‘Na bella botta, anche perché la beatificazione è un business e c’è tutta la famiglia che, per motivi diversi, si butta sull’affare. Ernesto deve confrontarsi con l’ex moglie, una zia invasata, il fratello pentito e pure quello matricida. E la madre santa, poi? Per Ernesto era una bella cretina, ma nel suo sorriso un po’ si riconosce. Mentre la famiglia arriverà in Vaticano per una canonizzazione che risolverà molti problemi (soprattutto economici), lui accompagnerà il figlio Leonardo a scuola, unico fedele alla propria integrità e devoto alla religione dell’uomo. Film ricchissimo, inquietante, profondo: un attacco all’attuale società dello spettacolo attraverso cui passa la fede (vedi certe ultime beatificazioni diventate eventi televisivi). Ma c’è anche tutta l’indignazione disperata per la disgregazione morale di questo paese e per il bigottismo politico di ritorno (i nobili duellanti “neri”). Montaggio con jump-cut molto belli, fotografia contrastata e ricca di chiaroscuri di Pasquale Mari. Castellitto è l’attore campione del mondo; Jacqueline Lustig, l’interprete dell’ex moglie, è al contrario l’attrice più disastrosa che abbia mai visto sullo schermo, ma veramente a un livello inarrivabile. A fine proiezione abbiamo fatto notare al proiezionista la consueta faccenda dello schermo tagliato. Ovviamente non gli risulta, “controlleranno”. Io sono maniaco, okay, ma loro coglioni. E tanto. (Cinema Eliseo, Milano; 6/5/02)
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(Continua — 22)