di Valerio Evangelisti
[Questa è la mia postfazione a Richard Stark, Backflash. Ritorno di fiamma, trad. di A. C. Cappi, BUR, 2011, pp. 280, € 10,20]
Molti ricorderanno Lee Marvin, accigliato, che cammina lungo un corridoio interminabile in cerca di vendetta, mentre i suoi passi rimbombano e nella sua mente si accalcano gli episodi che lo hanno portato alla determinazione omicida. Era il film Senza un attimo di tregua (Point Blank, 1967), di John Boorman, e sotto il nome del personaggio interpretato da Marvin, Walker, si nascondeva in realtà Parker, figura possente e centrale del genere noir.
Il film era tratto da Anonima carogne (The Hunter, 1962), in cui Parker aveva fatto per la prima volta la sua apparizione, per poi proseguire la sua ambigua carriera in una trentina di romanzi. L’autore del libro era Richard Stark, alias Donald E. Westlake, alias Tucker Coe, più altri pseudonimi sparsi. Un maestro del giallo e del nero, morto nel 2008, vittima in vita di una curiosa schizofrenia: se le opere firmate Stark sono brutali e violente, e quelle firmate Coe tendono alla tetraggine e alla malinconia, i romanzi firmati Westlake sono invece in prevalenza umoristici, e spesso divertentissimi e garbati.
Nessun garbo, invece, nel Parker di Richard Stark, vista anche la natura singolare del suo mestiere. Parker è stato definito un gangster, ma la definizione è scorretta. Non ha nessuna gang attorno, si sceglie i complici a seconda della rapina che progetta, e li cambia tanto spesso quanto le donne che gli stanno attorno. Si direbbe anzi che detesti le strutture organizzate. A volte gli capita di affrontare la mafia, il potere politico, corporazioni irreprensibili dedite ad attività criminali. Senza tuttavia un programma ideologico, e meno che mai di giustizia. E’ in sostanza un solitario, anche se non un individualista. Non è certamente un ribelle: tutto ciò che gli interessa è guadagnare abbastanza da vivere comodamente per un poco, in attesa di preparare il colpo successivo.
Violento, avido, talora crudele, intelligente ma nei limiti della norma, quasi privo di cultura e di idee di portata generale. Così è Parker. Cosa lo rende simpatico a tanti milioni di lettori? Si consideri che il rapinatore uccide spesso, e non sempre si tratta di vittime peggiori di lui. Talvolta, anche se molto di rado, si tratta di innocenti o quasi. Parker, non particolarmente incline all’omicidio, vi fa ricorso senza remore quando serve ai suoi disegni, per considerazioni tecniche e non morali.
Ecco il fascino di Parker: la professionalità. Esegue il suo lavoro meglio che può, con una fondamentale onestà nei confronti di chi lo affianca. Rispetta e protegge i suoi complici finché sono leali, non è per nulla una macchina assassina. Eppure non si affeziona a nessuno, non ha amici veri, né una solidarietà da malavitoso vecchia scuola in stile Rififi o Grisbi. E’ efficiente, e questo è tutto.
Richard Stark non ci aiuta a penetrare in Parker. Descrive i suoi gesti, non i suoi pensieri reconditi. Memore in ciò della scuola classica del noir, e in particolare di quella facente capo a Dashiell Hammett, evita di soffermarsi sui risvolti psicologici. L’azione è tutto, e spiega quanto c’è da spiegare. L’atteggiamento che, più tardi, Jean-Patrick Manchette avrebbe definito behaviourista, con riferimento alla psicologia comportamentale.
Da un sottofondo del genere, spicca l’intreccio quale motore della storia. La rapina elaborata da Parker riuscirà? Se emergeranno complicazioni, saprà risolverle? A ciò si riducono i quesiti. In fondo i medesimi che lo stesso Parker si pone, senza ulteriori complicazioni introiettive. Adottato un simile punto di vista, l’identificazione col rapinatore è assicurata, perché fa tutt’uno con la trama e col fascino della sua complessità.
Stark / Westlake appartiene a una stagione del noir un po’ tardiva, rispetto a quella classica degli Hammett e dei Chandler. Oltre a lui è dominata da Mickey Spillane, dall’inglese James Hadley Chase, più tardi da Lawrence Block (altro scrittore capace di scivolare con disinvoltura dalla tragedia alla commedia) e da James Crumley.
Richard Stark — d’ora in poi chiamiamolo così, per semplificare — non indulge al sadismo gratuito di Spillane e di Chase, e al tempo stesso non è al livello letterario di Lawrence Block (per non dire di Elmore Leonard). Le avventure di Parker sono semplici, articolate in capitoli molto brevi. Ogni descrizione è in realtà un’enumerazione: c’era questo, e quell’altro, e quell’altro ancora. Il punto di vista, di solito imperniato sul rapinatore, conosce brusche virate. In questo stesso Backflash, al momento della rapina, lo sguardo che in precedenza era di Parker si sposta a quello dei comprimari, a costo di ingenerare confusione nel lettore. L’epilogo è poi alquanto artificioso. Oserei dire “tirato per i capelli”, con l’immissione senza preavviso di un personaggio imprevisto, capace di mandare all’aria un piano ben studiato.
Ogni avventura di Parker segue di solito un identico schema, ben descritto da Manchette (Notes sur l’usage du stéréotype chez Donald Westlake, in Chroniques, Rivages, Parigi 1996). Il delinquente progetta una rapina ingegnosa. Tutto sembra andare bene, finché l’insipienza di uno dei complici, o una casualità, non mettono a rischio il piano. A quel punto, Parker consuma la sua crudele, a volte crudelissima, vendetta. Qualche volta conquista il bottino, qualche altra no. Intanto si è lasciato alcuni cadaveri dietro le spalle, frutti dell’ira, del caso o della serietà professionale.
E’ quest’ultima che seduce. Parker è scrupoloso, metodico. Studia una rapina con cura, sceglie gli uomini giusti, le armi giuste. La reiterazione, romanzo dopo romanzo, diventa virtù — un poco, se il paragone non è troppo azzardato, come nei romanzi di Rex Stout con Nero Wolfe, in cui la ripetizione dei gesti e dei comportamenti si fa attrattiva. Amato il libro letto per primo, se ne cercano altri che gli somiglino. Né Wolfe né Parker, sotto questo profilo, lasciano insoddisfatti, nella loro radicale diversità.
C’è poco da fare: ci si affeziona. In più, Parker ha dalla sua un certo superomismo. Implacabile, inarrestabile, raramente si lascia scuotere o turbare, anche perché i suoi pensieri intimi non ci sono mai rivelati. Non conosce la paura, sembra non possedere lati fragili. Una volta che si sia messo sul sentiero di guerra, nessuno lo ferma. Somiglia al “giustiziere della notte” interpretato da Charles Bronson. Solo che non è un giustiziere. E’ un delinquente.
Facile da amare, forse proprio per questo sottofondo trasgressivo.
Backflash è come gli altri romanzi di Stark. Al centro c’è una rapina, questa volta a un casinò galleggiante che percorre il fiume Hudson. Parker stende un disegno meticoloso di assalto e cerca i complici che fanno al caso suo. La scelta è buona, in effetti, se non fosse per protagonisti “esterni” che bisogna necessariamente contattare — primo fra tutti l’ambiguo uomo politico che ha commissionato il colpo. Se si aggiunge un margine di imprevisto, nei panni di un testimone inatteso, è palese che non tutto filerà liscio.
Le domande sono però altre. Riuscirà Parker a chiudere le falle che minacciano il suo progetto? Come reagirà alle azioni dei nemici? Ce la farà a guadagnare qualcosa dopo tanti sforzi d’ingegno? Non posso anticipare altro, se non che il romanzo ha, in un certo senso, un “lieto fine”. Sempre che l’identificazione del lettore in Parker sia stata totale, come è praticamente inevitabile.
Più interessante è notare che, politico a parte (interessato alla carriera), sia esclusivamente la sete di denaro che muove Parker e comprimari, agiscano contro la legge o nel nome di questa. La stoffa morale del bandito è la medesima dei suoi nemici. Nessuno segue codici morali veri e propri, ognuno vuole semplicemente arricchirsi o conquistare potere.
E’ questa la sostanza “nera” del romanzo, e del genere noir propriamente detto (anche se in Italia è invalsa l’abitudine di definire “noir” anche il più tradizionale dei gialli). La corruzione ha preso il sopravvento, il “sistema” è un impasto di marciume. In un simile quadro, che ingloba polizia, magistratura, autorità e comuni cittadini, persino un Parker può diventare un eroe. Uccide a cuor leggero, questo sì, ma anche altri lo fanno, direttamente o indirettamente. In un’assenza completa di valori, in una girandola di tornaconti, anche lo scrupolo professionale può somigliare a una virtù. Ecco perché Parker, che non è affatto un Robin Hood, finisce inevitabilmente per piacere. Intorno a lui, come si suol dire, il più pulito ha la rogna.
Alla luce di quanto sopra, si intuisce meglio il valore della lingua stereotipata di Richard Stark, dei capitoli brevissimi, dell’azione a rotta di collo. Su che cosa si dovrebbe soffermare, Stark? Sta dipingendo un vuoto. Ogni parola destinata a dargli spessore sarebbe sprecata. Ogni orpello una falsità. Vuota è la società in cui vive il nostro antieroe. La criminalità si è fusa con l’ufficialità. Parker obbedisce a pochissime leggi elementari, ma a quelle si attiene con metodico rigore. Attorno a lui vige il delitto codificato. Come non simpatizzare con chi, belluino, sfida il coro di chi invoca un rigore democratico, senza crederci neanche per un minuto?
Parker è in guerra. Dei dieci comandamenti, pochi lo riguardano. Idem per il sistema, che finge di credere in essi. Poi quel sistema si dedica, su scala mondiale, a violenze d’ogni sorta. Meglio un furfante assassino che un agglomerato di potere ipocrita, altrettanto omicida senza ammetterlo. Meglio Parker di chi lo combatte. Non stupisce che la simpatia sia obbligatoria. In un mondo di zombies, anche chi cavalca un ronzino può somigliare a un cavaliere errante. Incluso un tagliaborse.
E’ bello abbandonarsi a Parker, seguirlo nelle sue imprese, condividere i suoi momenti di autentica ferocia. In sua compagnia ci si sente sicuri. Non perché sia la Legge — ne è l’antitesi — ma perché è comunque portatore di “una legge”. In un quadro sociale annerito dal predominio dell’arbitrio e della brama senza principi, affidarsi a un delinquente vero e al suo codice implacabile può riuscire persino consolante.