di Franco Ricciardiello
Il 2 febbraio 2011 si è finalmente aperto a Phnom Penh il processo internazionale contro i superstiti dirigenti di Kampuchea Democratica, il governo dei khmer rossi che da aprile 1975 a gennaio 1979 sprofondò la Cambogia in un olocausto di terrore. Quattro sono gli imputati che compaiono davanti all’ECCC, il Tribunale speciale della corte cambogiana sovvenzionato dall’Onu: Khieu Samphan, ex capo di stato; l’ideologo e “fratello numero 2” Nuon Chea; l’ex ministro degli esteri Ieng Sary e sua moglie Ieng Tirith, ministro degli affari sociali e cognata di Pol Pot. E proprio Pol Pot è il grande assente sul banco degli imputati: l’ex segretario del Partito comunista di Kampuchea è morto nel 1998 nella giungla, da dove dirigeva (con il fattivo sostegno internazionale) una guerriglia terroristica contro il legittimo governo cambogiano.
Una prima, significativa sentenza è già stata emessa dal tribunale nel luglio 2010: il comandante del centro di detenzione S-21, Kang Kek Iew, conosciuto con il nome di battaglia di Duch, è stato condannato a 35 anni di prigione. La linea di difesa di Duch, che ha oggi 70 anni e si è convertito al cristianesimo evangelico (creazionista e reazionario), è il classico “non avevo scelta”: ubbidire agli ordini, uccidere o essere ucciso. In effetti, migliaia di quadri comunisti finirono nell’ex liceo Tuol Sleng, trasformato nella prigione S-21, a mano a mano che si estendeva all’interno del Partito il dissenso verso l’angkar, l’Organizzazione che per quasi quattro anni trasformò la Cambogia in un immenso campo di lavori forzati e sterminio. A Tuol Sleng, l’intero edificio A era destinato alla detenzione dei quadri che si opponevano ai metodi imposti con il terrore da Pol Pot, il “fratello numero 1″.
L’aspetto più angosciante del Museo del genocidio Tuol Sleng è la sua apparente incuria. Nelle aule spoglie furono imprigionati, torturati e trucidati tra 14 e 20 mila cambogiani. L’esercito vietnamita, che il 7 gennaio 1979 liberò Phnom Penh dal tallone di ferro dei khmer rossi, rinvenne nelle celle le ultime 14 vittime torturate a morte dai carcerieri, che si accanirono sui reclusi fino al momento di fuggire precipitosamente davanti ai carri armati vietnamiti; solo 7 delle migliaia di internati sono sopravvissuti.
Le foto delle ultime 14 vittime sono oggi esposte nei locali del museo: crudi ingrandimenti in bianco e nero di cadaveri torturati, ancora legati alle brandine di metallo su cui venivano condotti gli “interrogatori”. Un terrore agghiacciante trasuda dalle stampe ingiallite, mai rinnovate da quando il museo del genocidio fu aperto nell’agosto 1979, mentre ancora le divisioni vietnamite combattevano contro i khmer rossi in rotta verso la Thailandia. Nelle aule riconvertite in cubicoli di detenzione, tra macchie di sangue ancora visibili e gli agghiaccianti precetti dell’angkar scritti in gesso sulle polverose lavagne verdi, sono esposte le riproduzioni delle foto trovate nei dossier. L’attività burocratica dell’S-21 era scrupolosa. Ogni internato veniva fotografato all’arrivo (e talvolta anche dopo i primi “interrogatori”), così che oggi dagli espositori di legno scolorito ci osservano migliaia di cambogiani trucidati nei campi di sterminio fra le risaie: giovani contadini magri con berretti da operai francesi; ragazzine dai capelli corti, un numero di serie spillato alle bluse nere; intellettuali con le braccia legate dietro la schiena all’altezza dei gomiti; contadini con mantelle a quadretti, destinati allo sterminio per il solo fatto di essere musulmani, così come i cittadini di origine vietnamita; madri con bambini in braccio, perché l’intera famiglia veniva trucidata con i “colpevoli”; quadri politici dall’espressione sconcertata, davanti ai cui occhi si apre l’abisso della macchina di morte che hanno contribuito a mettere in piedi.
Gli ingrandimenti fotografici nel museo spesso sono stropicciati, spiegazzati, ingialliti dal sole inesorabile del sudest asiatico. Riproduzioni di fantasmi. I ventimila fantasmi di Tuol Sleng sono solo una goccia nell’oceano del genocidio cambogiano: centinaia di migliaia di vittime dei devastanti bombardamenti americani dal 1970 al 1975, altri due milioni forse durante il regime dei khmer rossi, quando l’intera popolazione venne costretta a trasferirsi in campagna per un utopico piano di canalizzazione delle acque che si trasformò in una tragedia di proporzioni abnormi. Immediatamente dopo la conquista di Phnom Penh, il 17 aprile 1975 (due settimane prima della caduta di Saigon e la fine della guerra in Vietnam), tutti i contadini sfollati nella capitale vennero costretti a ritornare nei villaggi d’origine, e gli altri cittadini li seguirono subito dopo. Phnom Penh passò di colpo da due milioni a poche migliaia di abitanti. Vennero abolite la religione, la moneta e la scuola. Le famiglie furono smembrate, l’intera popolazione costretta a vivere in vaste comuni agricole, assoggettata all’arbitrio dell’angkar, un eufemismo che sostituì la definizione ufficiale di Partito comunista di Kampuchea. “Portato al cospetto dell’angkar” significava essere trascinati via di notte dai dormitori comuni per finire soffocati con un sacchetto di plastica avvolto intorno al capo, i gomiti legati dietro la schiena con il filo di ferro. La Cambogia è ancora oggi costellata di fosse comuni: nel 1979 i vietnamiti rinvennero cimiteri a cielo aperto in ogni risaia, piramidi di teschi con il cranio sfondato, distese allucinanti di ossa sugli argini. Sotto la direzione criminale di Pol Pot, l’angkar divise la popolazione in due categorie: da una parte chi durante la guerra civile aveva vissuto nelle aree dominate dalla guerriglia, dall’altra chi aveva subito l’influenza straniera sotto la dittatura militare filoamericana. Per i secondi non c’era possibilità di redenzione: erano destinati a epurazioni sanguinose, il loro futuro era la sepoltura sotto le palme per servire almeno da concime. I khmer rossi portarono all’esasperazione l’ideale millenaristico della Rivoluzione culturale cinese: una violenta discontinuità con il passato per dare origine all’Uomo Nuovo. L’idea inconfessata era riportare la Cambogia alla sua età dell’oro, individuata nell’impero medioevale di Angkor, con la sua civiltà di cittadini/contadini e le vaste opere di irrigazione razionale. Una società di insetti operosi al servizio di un fine superiore, un progetto quasi teleologico.
Angkor e angkar, la Nazione e l’Organizzazione. L’utopia degenere di Pol Pot e del suo gruppo dirigente non regnò mai incontrastata: comandanti locali disubbidirono alla logica concentrazionaria dell’olocausto, vaste ribellioni nel nord e nell’est provocarono brutali repressioni militari. I quadri del partito cominciarono ad affluire all’S-21, portati a cospetto dell’angkar; qui entrava in funzione la macchina di morte di Tuol Sleng. I reclusi venivano fotografati, incarcerati, torturati per mesi. La colpevolezza era scontata per il semplice fatto di essere consegnati all’angkar. Per tutti, oltre le sevizie e le confessioni scritte, il destino era la morte in uno dei killing fields intorno alla capitale.
La resistenza contro l’angkar si fece sempre più forte. Le province orientali si sollevarono. Nel 1978 il Vietnam, esasperato dalle continue incursioni oltre confine, scatenò una limitata offensiva nella Cambogia meridionale, distruggendo senza sforzo le formazioni dei khmer rossi. Poi organizzò i dissidenti in un fronte di liberazione nazionale; a dicembre dello stesso anno iniziò l’invasione vera e propria. In due settimane le divisioni vietnamite liberarono Phnom Penh e ricacciarono brutalmente i khmer rossi verso est. Pol Pot e il gruppo dirigente fuggirono in Thailandia, dove ebbe inizio il vergognoso sostegno internazionale ai responsabili del genocidio. Malgrado l’orrore dei campi di sterminio svelati al mondo, come quando l’Armata Rossa entrò nei lager nazisti, per ragioni di geopolitica (il Vietnam era alleato dell’URSS) non solo la Cina, ma anche gli Stati Uniti continuarono a riconoscere quello di Pol Pot come il solo governo legittimo. Kampuchea Democratica mantenne il seggio all’Onu, attraverso la complice Thailandia le armi cinesi ridiedero linfa agli esangui khmer rossi: la guerriglia continuò per quasi venti anni, fino alla morte di Pol Pot nel 1998.
All’inizio del 2011 si è faticosamente aperto il processo contro i khmer rossi superstiti, grazie a un accordo tra la nuova Cambogia e l’Onu. Le imputazioni vanno da crimini contro l’umanità a genocidio contro le minoranze musulmane e vietnamite. I quattro esponenti di primo piano di Kampuchea Democratica addebitano interamente ai sottoposti gli eccessi del regime. Comunque finisca, si tratterà comunque di un giudizio tardivo. Gli Stati Uniti hanno indirettamente sostenuto Pol Pot e artatamente ignorato i suoi crimini sino alla fine della guerra fredda.
Per liberare la Cambogia e respingere i khmer rossi nell’immondezzaio della Storia, compito che sarebbe spettato alla legalità internazionale, sono morti almeno 20 mila soldati vietnamiti. Per evitare anni di carestie, guerriglia e terrorismo sarebbe bastato che la comunità internazionale riconoscesse la legittimità e il verdetto nel processo che il tribunale popolare rivoluzionario (filo-vietnamita) intentò nel 1979 contro gli alti dirigenti della Kampuchea Democratica: Pol Pot e Ieng Sary furono già allora condannati a morte, e per genocidio. Ma in quegli anni la guerra fredda era più importante della giustizia per due milioni di cambogiani. Oggi per fortuna la pena di morte non esiste più in Cambogia, ma 32 anni dopo l’olocausto si attende ancora giustizia.