di Dziga Cacace
Il fetore disgustoso di una chitarra elettrica esageratamente alta:
questa è la mia idea di divertimento!
Frank Zappa
253 — Vidocq dell’immaginifico Pitof, Francia 2001
È un record, ma non di quelli di cui vantarsi, un po’ come per i tizi che mangiano il vetro: credo sia il primo giorno veramente libero da 70 in qua, senza andare a faticare a Cologno Monzese. Sono completamente fulminato, ottuso da copioni, interviste doppie, telefonate, pizzini, montaggi, rimontaggi, audience e scalette; e se la tivù ottunde, io di mio, già tanto fresco non sono. Per cui una pausa è provvidenziale, anche se — di nuovo nella realtà – mi sento come quei marine di Salvate il soldato Ryan dopo che gli è esplosa una bomba a due dita da un timpano. Fatto sta che andiamo via due giorni e siccome il lago Maggiore non offre grandissime occasioni di svago, si finisce al cine. Avvertenza: parlerò del finale e del colpevole, per cui, se Vidocq non l’avete visto (e merita d’essere visto, mais oui!), passate oltre. Vidocq (Gerard Depardieu) è un investigatore, nella Francia del 1830 sconvolta dai moti di piazza e pronta a cacciare i Borboni. Viene ucciso in duello dal misterioso Alchimista, il cui volto è celato da una maschera a specchio. Al socio di Vidocq, Nimiers, si presenta il giovane Etienne Boisset, che dell’investigatore vuole ricostruire l’ultima fatale inchiesta per risalire all’assassino. Ne viene fuori che l’Alchimista ha fatto secchi tre nobili che gli procuravano vergini dal cui sangue puro otteneva un elisir di lunga vita. A- aaah! La cosa si intorbidisce e si fa interessante vieppiù!
Ma Vidocq, sorpresa, non è morto per niente, anzi sapeva che Boisset era l’Alchimista stesso e in un ultimo duello lo ammazza. Ma se lo sapeva già, perché lo ha lasciato andare in giro ad ammazzare ancora altra gente? O sono io che ho capito male? Boh: non importa, non MI importa. Vidocq è un feuilleton divertentissimo, ricco d’azione e di invenzioni visive e linguistiche e anche se la trama mi è poco chiara, la messa in scena è talmente clamorosa e originale che mi accontento e non faccio altre domande: ho visto un film-pretesto, dove la vicenda capita a puntino per far vedere “cose” e per inventare modi nuovi affinché queste “cose” siano viste. Vidocq è un film dove il cinema ritorna alla sua primaria funzione di divertimento, inventando un mondo inedito, frutto della passione di un regista. È girato in digitale ad alta definizione e coniuga certe sgranature fotografiche (utilizzate però espressivamente) con il realismo dei movimenti e in più utilizza sfondi per nulla realistici, approdando a un mix curioso e straniante, ulteriore dimostrazione della voglia di sperimentare di Pitof. E poi c’è la geniale entrata in scena di Depardieu, conciato come una massaia, con due tettone così. Insomma: m’è piaciuto. Visto con Barbara al Sociale di Intra, praticamente soli in sala, e questa è classe, coglionazzo. (Cinema Sociale, Intra; 3/3/02)
254 — The Hole dell’intempestivo Nick Hamm, USA 2001
Mah! The Hole ha una partenza fulminante, utilizzata anche per un trailer di grande effetto: Liz (Thora Birch) arriva nel suo college deserto, stracciata e distrutta. Prende il telefono e grida tutta la sua angoscia, il suo orrore. Di fronte a una psicologa parte il racconto in flashback: durante le vacanze, Liz, con un’amica e altri due ragazzi, s’è imbucata in una specie di rifugio sotterraneo. I genitori li credono in gita, quelli in gita li credono dai genitori e loro possono dedicarsi ad alcol, erba, sesso e sregolatezza. Ma pensa te: solo nei film accadono ‘ste cose. Io posso al limite ricordare una peccaminosa partita a scala 40 innaffiata da Vecchia Romagna. E ovviamente eravamo tutti maschi. E vergini. Ma torniamo al film, per me di fantascienza: Liz è innamorata del belloccio Mike che mai la degnerebbe di uno sguardo se la situazione non creasse una paradossale sindrome. L’altra coppia è ansiosa solo di avere un po’ d’intimità. Ma dopo la bisboccia si presenta un problema da niente: la botola per uscire dal buco non si apre e i quattro rimangono prigionieri del pertuso con annessi e connessi di claustrofobia, fame e sete. Comincia il dramma: assieme ad acqua e cibo finisce presto anche la solidarietà: odio feroce, accuse, recriminazioni, lotta senza quartiere. Liz racconta la sua versione alla psichiatra che l’assiste: sono stati chiusi dentro dall’amico Martin, innamorato invano di Liz e tremendamente geloso. Poi — incongruamente a metà film — c’è il colpo di scena e qui, per me, finisce tutto e non me ne frega più una mazza. The Hole parte bene, intriga fino a un certo punto, poi rivela l’inghippo con anticipo colpevole e letale, sgonfiando lo sviluppo della storia e bruciando il finale. Thora Birch ha una faccia da diabolica stronza ed è bravissima. La complice Keira Knightley è lo sconosciuto oggetto del desiderio e in effetti non è niente male. A tanto mi riduco, se altro non ho da dire. (Vhs originale; 4/3/02)
255 — Sexy Beast del bravo, sai?, Jonathan Glazer, Gran Bretagna 2000
Atipico gangster-movie inglese. Il nostro eroe Gal si gode con la compagna – ex attrice porno – un buen retiro nella solatia Spagna. La vita scorre tranquilla: un drink, un tuffo in piscina, l’amore coniugale, una coppia di amici. Ma il passato riemerge minacciosamente e come al solito c’è un ennesimo colpo da fare, un patto da onorare, qualcuno da non deludere. Porca vacca. Il destino ha la faccia isterica di Ben Kingsley che arriva a sconvolgere gli equilibri come la pietra che casca dal cielo a inizio film. E si scende di nuovo, a malincuore e con il panzone, in pista. Kingsley — assoluto, maligno, prepotente — ha corso per l’Oscar, ma il vero grande attore è Ray Winstone, talento melanconico che aderisce perfettamente al ruolo. Film con ottimi momenti, che cresce alla distanza. Bella fotografia solare, lampi di britannico humour nero e un finale che sorprende, una volta tanto (cioè: difficile da spiegare senza rivelarvelo… diciamo che spiazza perché lo fa nel modo più semplice. Vabbeh: guardatevelo). Niente niente male. (Vhs originale; 6/3/02)
256 — Il Pap’Occhio di un cialtronissimo Renzo Arbore, Italia 1980
Il Pap’Occhio è una stronzata di cui l’autore, Renzo Arbore, è perfettamente consapevole, si vede lontano un miglio, non ci crede un attimo neanche lui. È un film naïf perché fatto col culo, senza i basilari strumenti del cinema: una sceneggiatura, degli attori, un’idea di messa in scena (e di ritmo e montaggio). La visione del mondo c’è e magari è anche condivisibile (l’amabile scazzo dell’Arbore televisivo anni Settanta), ma non basta per fare un film, purtroppo no, perché questo Pap’Occhio è proprio un papocchio tremendo. Improvvisazione, tempi morti, cazzeggio, anche una certa autoreferenzialità ammiccante, hanno senso e dignità in televisione, prodotto povero per definizione e immenso film in onda 24 ore su 24 che scorre senza capo né coda. E quello che in tivù può funzionare, su pellicola risulta arronzato, noioso, fiacco, inconcludente. La storia è strampalata con Arbore incaricato (novello Cristo massmediologico) di mettere in piedi l’emittente televisiva vaticana (idea insensata, avendo già RaiUno. Vabbeh). Succede di tutto (in realtà poco), anche un tradimento del Giuda Benigni, e la faccenda viene risolta classicamente da un deus ex machina (De Crescenzo che arriva su una Panda, la più bieca delle freddure intellettuali). Nel calderone paratelevisivo Arbore dichiara più volte la fede socialista e gioca con comunismo e cattolicesimo con una blasfema parabola cui il sequestro giudiziario ha dato molta più gloria di quanto meritasse. Le scene sono girate pedestremente, improvvisate, fotografate come viene viene: potrebbe essere una strategia, ma non ne vengono fuori grandi risultati: è tutto buono alla prima e di buono c’è pochissimo. S’intuisce poi che il montatore ha dovuto arrangiarsi con attacchi innaturali, che non sarebbero buoni neanche per la televisione. Alla carnevalata prendono parte anche Abatantuono, le sorelle Bandiera, Milly Carlucci, la Melato, Salvatore Baccaro, Andy Luotto, Marenco, la splendidissima Rossellini e l’allora suo compagno Martin Scorsese che non avrà assolutamente capito dove fosse finito. Film folle, pigro, sciatto, sgangherato, girato in allegria, presunzione e ignoranza, zeppo di idee sviluppate male o comunque buttate via. È un documento storico e suo malgrado è l’antesignano di certo cinema fatto in fretta da chi sa a malapena fare la tivù. Tra le cose più allucinanti cito gli statici numeri musicali, eterni, e i monologhi di Benigni che non sembrano scritti ma improvvisati finché durava la pellicola, roba che neanche il Wenders più duro. Mettiamoci poi il sonoro sporchissimo e il lavoro di montaggio inesistente. Al film segue anche un documentario, Il resto del Pap’Occhio, raccolta di outtakes che Arbore ha dovuto tagliare (e avrei voluto vedere come non) e anche qui non si va oltre la stranezza: qualche provino mostruoso, qualche improvvisazione, qualche metro di pellicola buttato lì. Valeva poco il film, figuriamoci gli scarti. Detto tutto ciò Il Pap’Occhio è una cialtronata talmente cialtrona che talvolta sfiora l’eroismo e che non diminuisce la mia stima eterna nei confronti dell’uomo che mi ha tolto tante ore di sonno l’anno della maturità liceale. (Vhs da Tele+; 8/3/02)
257 — Dracula esangue, vampirizzato da Tod Browning, USA 1931
Dopo una pizzata urticante ci sta anche un bel filmetto, magari d’annata e in bianco e nero, dalla pregiata collezione del vostro Cacace. Barbara ci sta, l’ingenua, e le servo questo storico Dracula, il “primo”, come sottolineato stolidamente dalle didascalie originali (Dracula primo, giuro, ma mi rifiuto di accoglierlo come titolo ufficiale). La storia non è molto lontana da quella che ha poi raccontato Francis Ford Coppola e segue per filo e per segno la trama di Bram Stoker — o perlomeno così credo, giacché io Dracula l’ho letto nella riduzione zozzetta a fumetti di Crepax: il conte transilvano viene a Londra dove il medico Val Helsing lo smaschera e lo uccide. Di mezzo c’è anche una bella fanciulla (Mina, vergine: non viene detto, ma è chiaro come il sole che ha l’imene di titanio), soggiogata dal vampiro e in balia di un fidanzato coglione che non fa nulla per difenderla, anzi, se può, disobbedisce alle premure del medico e la espone ai morsi del vampiro. Per fortuna Van Helsing è di bell’intuito e quando nota che Dracula non ha riflessi negli specchi, decide che è venuto il momento di passare all’azione con aglio e crocifissi. La fotografia di Karl Freund è più piatta di quanto fosse lecito aspettarsi, la recitazione è un po’ ingessata e la regia non va oltre il teatrale riprendere ciò che accade, senza grandi invenzioni. E poi c’è un finale orrendo: Van Helsing ammazza fuori scena il vampiro mettendogli un paletto nel cuore, mentre Mina e quell’imbecille del fidanzato se ne vanno via. Dire che finisce male è poco. Film povero, statico nella narrazione, importante forse storicamente ma ciò non di meno gradevole come un comodino Luigi XVI sui testicoli. E Bela Lugosi, quanto a motilità facciale, non ha nulla da invidiare all’Uomo di Similaun. Insomma, non m’è piaciuto molto e, signori miei, questo è un coraggioso esempio di revisionismo cinematografico da sinistra. Alé. (Vhs da Retequattro; 12/3/02)
258 — Monsters & Co. di Pete Docter, USA 2002
Altro giro della Pixar e altro capolavoro. L’idea di partenza è splendida: i mostri che popolano gli incubi dei bambini vivono in una dimensione parallela e traggono energia proprio dalla paura che inducono nelle piccole vittime. Ma in realtà i mostri sono buonissimi, anzi: sono loro ad avere una fifa boia. E quando una bambina finisce per errore nel loro mondo scoppia il panico. Da un’idea bellissima a uno svolgimento imprevedibile, originale, ritmatissimo, ricco di metafore (anche politiche: la paura è… il petrolio! Ma esiste anche energia buona! Chissà se me lo immagino solo io ‘sta cosa…). Non c’è la consueta messe di citazioni e ci sono anche poche battute: però Monster & Co. vive di due personaggi al livello dei Buzz e Woody di Toy Story (l’enorme peluche Sulley e la palla monoculare Mike), di scenari immaginifici e di un’ulteriore (se possibile) ricerca sull’espressività dei volti (non umani!). Colpi di scena a ripetizione, una traccia gialla, humour azzeccato, tenerezza, un clamoroso crescendo finale a inseguimento orchestrato perfettamente, fino alla scena conclusiva che è una tra le cose più poetiche e commoventi viste negli ultimi vent’anni: non scherzo, lasciando fuori scena la faccia che avremmo voluto vedere, lasciandola alla nostra immaginazione. E detto questo, sarà possibile stupire ancora una volta noi spettatori con dei titoli di coda inventivi? Sí, assolutamente. Tolta una fase più pacata tra primo e secondo tempo, il film è un treno in corsa: ho riso, ho pianto (dal ridere e dalla commozione), ero estasiato, esilarato e intenerito, partecipe più di qualunque settenne presente in sala. Non sono un test probante, ma credo che il pool di sceneggiatori della Pixar sia composto da dei veri geni. Visto con Simona R. (entusiasta come me), Max e Barbara (laconici, poverini). (Cinema Orfeo, Milano; 16/3/02)
259 — Ho fatto splash di Maurizio Nichetti, Italia 1980
Questo l’ho visto la prima volta a undici anni, portato da mia madre in un cinema (credo il Manin, di Genova) che nel frattempo è diventato un supermercato. Ogni tanto, se non avevo compiti o impegni, andavamo così, random, durante la settimana. Ho visto il primo Nuti e un altro Nichetti (Domani si balla), ma quello che veramente volevo vedere, The Wall, no: ricordo perfettamente che eravamo nella sala d’aspetto di un cinema (il Corallo, direi) e un distributore cercava di convincere il proprietario della sala a prendere un clone deprezzato de Il tempo delle mele. ‘Sto imbecille qui, prendendomi a esempio, mi aveva chiesto se non avrei preferito un film come quello (di cui ahimé non ricordo il titolo, ma era veramente una maffata patetica) a, per esempio, un film “violentissimo e diseducativo” come The Wall, che stava arrivando nelle sale ed era già reclamizzato. E io ovviamente gli avevo risposto che mi prendevo The Wall mille volte, guadagnandomi l’approvazione del titolare e uno sguardo di fuoco del suddetto sfigato rappresentante. Bei tempi. Comunque scopro che Ho fatto splash è negli archivi Mediaset e decido di togliermi uno sfizio riversandomi il “pollice”, menata che rappresenta un vero atto d’amore. Nichetti è un bimbo degli anni Cinquanta: vede la Pizzi cantare Grazie dei fiori e piomba in un sonno catatonico. Si risveglierà solo durante gli infuocati anni Settanta, finendo nella casa di tre amiche: Angela, Luisa e Carlina. La prima (la Finocchiaro) dorme continuamente, anche se dovrebbe accudire un bimbo di un’altra amica. Luisa (Morandini) ha velleità attoriali. Carlina è l’unica che lavora e praticamente mantiene tutte: insegna alle elementari, in balia di una scolaresca che è lo specchio delle inquietudini adolescenziali di quegli anni. Dopo il prologo (con la letargia di Nichetti), c’è una partenza eccezionale: Carlina deve tenere a bada scolaretti che drogano le bambole, si abbuffano di merendine, imitano stolidamente Fonzie e maneggiano robot-giocattolo con veri raggi laser. Ma, uscita da questo inferno, la complessata maestrina deve anche affrontare una banda di giovinastri. La mette in salvo un distinto signore che poi la deruba e la lascia nuda. Nel frattempo Laura perde un provino perché un fotografo prova a spogliarla. Al provino ci va invece Angela e, immancabilmente, finisce nuda anche lei. In epoca di femminismo, questo è il mondo degli uomini. Nella casa delle tre amiche arriva Nichetti, muto e disastroso. Laura se lo porta su un set pubblicitario di una nuova bibita e lì il nostro Keaton sforna uno slogan (“Ho fatto splash!”) che avrà un successo clamoroso. Poi Carlina si sposa (scena esilarante) e Ho fatto splash si chiude con un’inconsueta nota malinconica, coi “giovani” messi dentro un recinto in una fiera, a recitare se stessi e a reclamizzare la bibita di cui sopra. Film un po’ frammentario ma molto divertente, che riesce a restituire in modo inaspettato uno spaccato delle tensioni giovanili fine Settanta. Girato con cura, coloratissimo, zeppo di idee, rende anche conto della magia del cinema facendoci vedere le squallide riprese dello spot pubblicitario che, una volta montato, sembrerà ambientato in una location splendida, metafora per niente involontaria di quanto ci avrebbe aspettato negli anni Ottanta. Carino. Molto. (Vhs da beta; 17/3/02)
260 — Chuck Berry Hail! Hail! Rock’n’roll dell’imprevedibile Taylor Hackford, USA 1987
Raccontare una vita è un’impresa. Raccontare quella di chi è tra gli inventori del rock’n’roll, cioè di chi ha rivoluzionato il secolo scorso, è quasi impossibile. Eppure Taylor Hackford ci va vicino. Dunque: ci metto un po’, ma alla fine convinco Barbara e Alessandra che questo documentario (che già adoravo) non le lascerà insoddisfatte. E infatti rimangono conquistate dalla straordinaria figura di Chuck Berry, uno degli autentici geni della musica. L’occasione è data dal suo sessantesimo compleanno. Keith Richards gli organizza una splendida celebrazione, con un concerto zeppo di amici. Parallelamente alla preparazione della performance sentiamo dalla voce di Chuck e dei suoi colleghi la sua storia. Molti compagni d’avventure rendono il doveroso omaggio al musicista di colore che per primo ha infranto le barriere razziali e ha imposto un sound, un ritmo, dei testi assolutamente inediti per l’epoca (tra le testimonianze sono fantastiche quelle di Bo Diddley e Little Richard, con clamoroso urletto vezzoso da checca isterica). Berry fa il modesto e il cinico e motiva tutte le sue scelte estetiche come dettate puramente da motivi commerciali. Ha un carattere istrionico, è clown fino in fondo, ma è anche arrogante, ironico, soprattutto diffidente: il business (dei bianchi) lo ha fregato spesso. S’è fatto del carcere ingiustamente e spesso e volentieri gli hanno impedito di guadagnare come avrebbe dovuto. Da qui l’autentica ossessione del denaro. Berry non parla dell’amore, della vita privata, del carcere: evita accuratamente gli argomenti (arrivando a zittire la moglie) per concentrarsi invece solo sul valsente e su cosa sia deducibile dalle tasse (per dire: colleziona Cadillac per rivenderle quando avranno maturato una bella valutazione sul mercato). Suona dal vivo solo dopo che è stato pagato cash e va in tour semplicemente con la sua chitarra: sta agli organizzatori procurargli una band che lo accompagni decentemente e che riconosca dalle prime note quali canzoni stia per suonare. Illuminante la testimonianza di Springsteen: all’alba degli anni Settanta fu costretto per un’emergenza ad accompagnarlo con la sua band. Gli chiese con molta circospezione cosa avrebbero suonato e Berry, impenetrabile: “Canzoni di Chuck Berry, direi”. Il concerto celebrativo è molto bello (ma la cosa migliore sono le prove, con Berry che fa i capricci e Richards che — per troppa ammirazione — tollera tutto) e partecipano anche Robert Cray, Eric Clapton, Etta James, Julian Lennon e quel cazzone di Jerry Lee Lewis. Il documentario è un ritratto parziale ma godibile del personaggio, da integrare con la lettura della autobiografia che invece affronta (anche se in modo evidentemente personale) i temi qui evitati. Taylor Hackford licenzia un film bello, intenso, molto significativo anche nella sua incompletezza. E comunque deve essere un tipo strano e genialoide: ha firmato quella fetenzia immane (e divertentissima) di Ufficiale e gentiluomo, ma è anche il produttore che ha reso possibile Quando eravamo re. Vallo a capire. (Vhs da beta; 23/3/02)
261 — Mulholland Drive sognato da David Lynch, USA 2001
Non sto bene, sette mesi di programma cominciano a pesarmi fisicamente, mi piglia la cervicale e son gonfio come un porcellino da latte. Che fare? Al quesito leninistico rispondo fiero: cinema! Nel tardo pomeriggio, non potendolo proprio fare al primo spettacolo pomeridiano. La scelta cade sul film culto dell’anno, quello che tutti — cinefili e non — hanno visto, tutti con diverse impressioni ma con la convinzione comune che non si tratti di un film banale. La storia faccio finta che la sappiate già, okay? E, beh, non si può che concludere che si tratti di una vicenda perlomeno bizzarra. Qual è il senso? Cosa abbiamo visto? Usciti dal cinema ho provato a mettere in ordine le idee, tormentato dall’idea del doppio ma senza afferrarne il significato. Ovviamente m’ha illuminato Barbara che col suo cervellino tutto fosforo aveva già elaborato i dati durante la visione. Figurati se mi spacco la testa a capire che cacchio succede sullo schermo se poi me lo può spiegare lei, dài. e poi i film non capiti, ma percepiti – come l’umidità – sono quelli che più agiscono in profondità. A pelle, Mulholland Drive m’è subito piaciuto: stimola, inquieta, evoca e spaventa come Lost Highway, perché abbiamo tutti paura del buio, è chiaro. È un film all’insegna della dualità. La doppia storia, il doppio esito di un amore, le doppie identità, anche il doppio taglio di capelli, come a dire che la verità non esiste, che ci sono sempre due facce della stessa storia, una che è il lato oscuro dell’altra, il suo sogno o anche il suo incubo. E di doppio c’è anche la messa in scena di Hollywood, patria dei sogni, infranti e realizzati. Verità intensa e finzione ingannatrice, vita e recitazione. E in mezzo a questa trama piena di scarti e di involuzioni Lynch infila anche qualche scena divertente, messa lì apposta per confondere ulteriormente le acque, oppure costruisce una situazione tutta metaforica nel teatro Silencio, ingannando a più riprese lo spettatore. Film dall’atmosfera riuscita, dove Lynch mette a sistema tutte le sue ossessioni, le sue manie, i suoi vezzi, per arrivare a un risultato tanto confuso quanto perfetto. Le due attrici hanno fatto scalpore per le scene lesbiche — ma basterebbe aver visto Le pornocerbiat… ehm, no, scusate — ma impressionano per la bravura, soprattutto la bionda Naomi Watts. Visto all’Eliseo, sala Scorsese con gelo polare, Dolby cartonato, quadro leggermente aberrato e tagliato in alto e in basso. Reprimo a stento le bestemmie. (Sala; 26/3/02)
262 — Parla con lei, l’apice di Pedro Almodòvar, Spagna 2001
Che bellezza. Che commozione. Lydia, matadora, e Marco, giornalista, uniscono le rispettive solitudini (sono stati appena lasciati dai loro partner). In ospedale Benigno, infermiere, assiste amorevolmente Alicia, in coma. La lava, le parla, la accarezza, la ama. Ma Lydia ha un incidente e finisce anche lei in coma e così Benigno e Marco, già inconsapevolmente uniti dalle lacrime per la grazia trasmessa dal teatro di Pina Bausch, si conoscono e diventano amici, uniti dall’amore per due donne immote. L’ultimo capitolo, Marco e Alicia, Almodòvar lo lascia aperto, ma sappiamo già tutti come finirà, complice ancora una volta uno sguardo nell’oscurità di un teatro. Splendido film, intensissimo, ricco di suoni, colori, occhi, mani, corpi, musica, teatro, grazia; un film sull’amore e sulla sua comunicazione sensuale. Pedro, dopo il bellissimo Tutto su mia madre, cresce ulteriormente: mette da parte l’aggressività del suo cinema, levigando le asperità di linguaggio e trovando una più matura sottigliezza espressiva. Non ci sono più le trombate alla Matador, ma le carezze, la tenerezza, i giochi di sguardi, le lacrime, i baci, i massaggi e dopo il precedente film tutto al femminile riesce a parlare d’amore e amicizia al maschile, senza nessuna ottusa virilità, anzi, ribaltando con naturalezza i ruoli che la società affida ai sessi: qui c’è un maschio infermiere (che si occupa di donne) e una donna matador; non è improbabile, ma al cinema lo dovrebbe sembrare, mentre in Parla con lei è assolutamente normale. Bravissimi tutti gli attori e lubrica menzione speciale per Leonor Watling, per lo più gnuda e in coma, bellissima nella sua interpretazione marmorea. E non dimentichiamo il film nel film, il geniale inserto-pastiche anni Trenta (Amante menguante), perfettamente funzionale all’economia narrativa del film che lo contiene. E Caetano Veloso che è un fulmine di poesia e lacrime e serenità, con una voce che muove al pianto per la gioia mentre intona soavemente Cucurrucucu Paloma. Grande Almodòvar, meglio di così è dura, veramente. (Sala; 29/3/02)
263 — Wonder Boys di un Curtis Hanson buono per tutte le stagioni, USA 2000
Grady Tripp è un professore di letteratura al college, il classico tipino sballato che tutti avremmo voluto come insegnante, complice e curioso. Ma è anche uno scrittore in crisi che non riesce a dare un seguito al suo primo libro di grande successo. Il suo allievo prediletto, una specie di giovane Holden talentuoso e disperato, bisognoso di una guida, lo tirerà fuori dalle secche creative e sentimentali riuscendo lui a indirizzare il prof. e non viceversa. Film sornione tratto di un romanzo di Chabon, un po’ hippie, che ti prende, ti diverte, ti passa e lo dimentichi, senza rimorsi. Di striscio si parla di maturità letteraria (il saper inventare nella sintesi), di vacuità accademica, di potere ricreativo delle droghe, di successo e di creatività, ma è la deliziosa Katie Holmes che illumina la scena. Tra le idee migliori c’è la ragazza che indossa un feticcio culturale (un giacchino appartenuto a Marylin Monroe) ma lo apprezza solo per il suo valore intrinseco: perché tiene caldo. Un po’ come questo film. La regia è di quel Hanson che dieci anni fa mi aveva regalato il discreto thrilleraccio alimentare La mano sulla culla e più recentemente L.A. Confidential. Eclettico, perlomeno. E bravino. (Vhs da Tele+; 30/3/02)
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(Continua — 21)