di Marcello Simoni
“Questa è la mia mano; posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue.
Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo.
E io, io Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte.”
Il settimo sigillo di Ingmar Bergman delinea le vicende di un personaggio solo a prima vista appartenente al Medioevo: Antonius Block, cavaliere reduce dalle crociate, afflitto da un nichilismo terminale proprio di chi ha saputo cogliere nell’eredità di un’epoca l’assenza di certezze assolute. Block è un uomo che si interroga sulla fede e sul significato della vita in modo rivoluzionario per il suo tempo: guardandosi allo specchio, scruta nei meandri di un’individualità ancora estranea, nel XIV secolo, alle concezioni sociali e persino al subconscio collettivo. La consapevolezza di “appartenere a se stesso”, quindi di possedere una coscienza autonoma, lo proietta a distanze siderali dai suoi contemporanei, rendendolo “moderno” dal punto di vista sia antropologico sia psicologico, ma pure insofferente al silenzio (o all’assenza?) di Dio.
Questa peculiarità è la radice del suo male: un male incurabile, poiché l’introspezione di se stessi equivale a mettere due specchi l’uno di fronte all’altro, con il risultato di distorcere l’io e di moltiplicarlo in infinite proiezioni. “Un uomo non riesce a conoscere la propria mente perché la mente è tutto quello che ha per conoscerla”, ammonisce Cormac McCarthy in Meridiano di sangue.
Questa inconoscibilità di fondo è la ragione che spinge Antonius Block a combattere contro qualcosa di impossibile da sconfiggere: la Morte. Il nostro reduce dalle crociate è troppo accorto, troppo avvezzo alle cose del mondo per essere veramente persuaso di quanto afferma: “forse anche la Morte può commettere un errore”. In realtà Block, sfidando a scacchi la Morte, compie l’estremo tentativo di conoscere se stesso attraverso gli occhi dell’avversario: è in cerca di una rivelazione che dia senso a un’esistenza votata al non-senso. Un’utopia, o forse un’illusione.
Il gioco degli scacchi, però, cela un’insidia: il bianco e il nero sono destinati a mescolarsi, a confondersi. E ciò non accade solo a fine partita, come vorrebbe il Sancio del Don Chisciotte, quando i pezzi “si mescolano, si uniscono, si mutano e si cacciano in una borsa”. I pezzi degli scacchi, al contrario, sono destinati a mescolarsi proprio durante il gioco, intrecciandosi in una geometria fatta di realtà antitetiche eppure speculari. Ne consegue una relativa perdita di soggettività, o meglio: di prospettiva. Accade infatti che i giocatori, nello sforzo di prevedere le rispettive mosse, finiscano per condividere pensieri e addirittura opinioni sulla realtà da loro condivisa. Il limite fra l’io e l’altro si confonde quindi in una simbiosi, in una miopia chiaroscurale tra Block e la Morte.
Questa sorta di transfert si ritrova anche fra le pagine de La tavola fiamminga di Arturo Pérez-Reverte, thriller in cui la serialità degli omicidi emula le mosse di una partita a scacchi dipinta su una tela del Quattrocento (d’altronde, la passione dell’autore per gli scacchi ritorna ne Il giocatore occulto). Non è tanto Julia, la protagonista del romanzo, a subire questa metamorfosi, quanto l’assassino stesso, impegnato in un doppio gioco che lo spinge a dividersi tra le mosse del bianco e quelle del nero. Le conseguenze sono gravi: immedesimarsi nel proprio opposto comporta un mostruoso sdoppiamento — mostruoso, perché inumano — che se da un lato ci rende complici dell’avversario, dall’altro ci persuade a sacrificarci in onore di ragioni puramente estetiche, cioè per assecondare il naturale svolgimento del gioco. Il migliore degli universi possibili, la partita perfetta, dipende dalla performance di entrambi i giocatori — vincitore e perdente — in un confronto alla pari. E l’assassino de La tavola fiamminga non rinuncia a nessuno dei due ruoli, esprimendo la propria omosessualità in una fusione tra alfiere bianco e regina nera, compiendo in spregio all’etica sociale un capolavoro dell’ideale androgino (inteso come l’alchemica res bina, “cosa doppia”). Ciò, inevitabilmente, lo porterà a prevedere — anzi, a pianificare — la propria sconfitta: una sconfitta “elegante”, esteticamente parlando, al di là di ogni banalità.
Provocazione, questa, mossa contro un ceto medio-alto che, sebbene dotato di strumenti intellettivi, ci viene descritto come un universo grottesco, afflitto dai mali borghesi della mediocrità e del culto del denaro. L’unico a non perdere la bussola è uno scacchista trasandato, un uomo alla deriva del vivere civile, un apolide emotivamente inerziale che si direbbe l’estrema involuzione del protagonista di un hard boiled di manchettiana memoria.
Ma è Antonius Block, nella pellicola di Bergman, a dover pagare il prezzo più alto: a conclusione del gioco lui non sarà l’unico sconfitto. D’altronde il suo sacrificio era già stato messo in conto: la partita con la Morte era persa in partenza, trattandosi di una semplice proroga, una prova di resistenza animata da una finta speranza. La vera sconfitta di Block consiste nell’essere divenuto lui stesso il vettore nella Morte: giocando contro di essa, infatti, non ha potuto evitare di propagarne gli effetti ai danni dei propri compagni.