di Marilù Oliva
Non è milanese, Paolo Roversi, se non nella misura in cui vive da anni nel capoluogo lombardo e lì ha scelto di ambientare molta della sua produzione: è nato infatti nel 1975 a Suzzara, in provincia di Mantova. Scrittore, sceneggiatore e giornalista, laureato in storia contemporanea, studioso di Charles Bukowski — cui ha dedicato la prima biografia italiana, “Scrivo racconti e poi ci metto il sesso per vendere”, con inclusa un’intervista a Fernanda Pivano (pubblicato nel 2005 con Stampa Alternativa nella Collana Eretica, poi ripubblicato da Castelvecchi nel 2010) — Roversi, dopo numerosi romanzi, si è misurato per la prima volta con una scrittura incastrata in una gabbia storica.
“Milano criminale” (Rizzoli, 2011), si snoda per 430 pagine dedicate all’epica milanese criminale degli anni Sessanta e Settanta, gli anni della legge Merlin, del boom economico, delle aspettative demandate allo sbarco sulla Luna, della morte di Mattei, «l’uomo che con spregiudicatezza stava intrecciando relazioni con i Paesi arabi produttori di petrolio minando il monopolio delle grandi compagnie americane». Sono anche gli anni del ’68, dei movimenti studenteschi e dell’eversione nera di Piazza Fontana.
Protagonisti di “Milano criminale” non sono però i terroristi, ma i banditi che il popolo acclama rivestendoli di un’aura quasi eroica: rapinano banche, progettano piani, assaltano i furgoni portavalori, spesso la scampano, si muovono armati, conquistano donne di strada con pellicce e gioielli e non solo — c’è posto per l’amore anche qui, ma solo quello disperato o incosciente dei bassifondi —, mangiano ostriche e bevono costosi champagne. Sull’altro fronte stanno gli inseguitori: poliziotti onesti ma anche colleghi non sempre integerrimi, di quelli abituati a servirsi di metodi non proprio ortodossi contro i sospettati, come gli elenchi telefonici arrotolati e utilizzati a mo’ di manganello sullo stomaco.
Più che gli uomini, vera protagonista del romanzo è la giustizia, in tutte le sue forme: la giustizia trionfante, quella violata, quella raggirata. Una giustizia sopita, che permette a un manipolo di delinquenti di tenere in pugno la città. E, mentre in sottofondo si riascoltano le canzoni dell’epoca — dai Rolling Stones a Giorgio Gaber, da Jimi Hendrix a Jula de Palma — o si rileggono stralci di articoli (vengono citati, tra gli altri, Dino Buzzati, Enzo Biagi, Giorgio Bocca), i criminali portano avanti la loro opera restando per molto tempo quasi impuniti. Addirittura avvallati dal fanatismo degli italiani, come attesta un articolo del Corriere della Sera: «Sotto sotto, senza osare dirlo, o dicendolo solo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori».
Un romanzo che dimostra padronanza su una materia densa e ricca di avvenimenti, sostenuto da un linguaggio spedito che procede con ritmo, senza fronzoli, arricchito da un interessante registro gergale (con rimando a un “Mini-dizionario della mala” in appendice). Azioni intense intrecciate a dialoghi, a documenti storici inseriti senza pesantezza, a brevi falsh che ci fanno sbirciare la cupezza di una città macchiata, dove l’accezione coloristica rimanda al sangue versato: «In uno sguardo riesce ad abbracciare l’intera Milano. Una piccola città, tutto sommato, con dentro il male. Un male pulsante, crudele, così viscerale che l’ha perfino costretta a mutare colore.
Il nero del carbone, il grigio dei palazzi ormai è diventato rosso. Di luci, di fari nella notte, di lampeggianti d’autombulanze, di bandiere nelle piazze, di sangue sui marciapiedi.
Città rossa».
I milanesi anni ’60 e ’70 che effetto hanno avuto su di te? Ti hanno trascinato nel loro vortice o sei riuscito a mantenere le distanze? E come ti sei documentato?
Con saggi e romanzi, testate giornalistiche storiche come la Notte, settimanali come l’Espresso o l’Europeo. E poi ancora video, documentari, film girati all’epoca come “Banditi a Milano” di Lizzani o “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri. Senza scordare i poliziotteschi, naturalmente, che quegli anni li hanno raccontati a tinte forti. Un consistente lavoro di ricerca e d’interrogazione delle fonti che mi ha fatto ricordare i tempi dell’università. Ne è però uscito un romanzo vero, non un saggio né un trattato storico, ma una vicenda di mala che attraversa, con puntualità e rigore, quattordici anni di storia milanese dal 1958 al 1972, anni che mi hanno trascinato prepotentemente del vortice! Più approfondivo l’argomento, più ne venivo travolto: immaginavo quegli anni di radiogiornali, di TV in bianco e nero, delle Giulia verdi della Madama e di notti di nebbia in cui la città criminale respirava, si muoveva come un serpente mentre i “bravi ragazzi” delle batterie si preparavano, notte dopo notte, a conquistarla. Solo a citare i nomi dei protagonisti dell’epoca e delle loro imprese si viene proiettati in un’altra dimensione: la rapina di via Osoppo — definita “la rapina del secolo” — è qualcosa di ancora oggi insuperato per la somma astronomica rubata.
E poi nomi evocativi solo a nominarli: il Solista del Mitra, la banda Cavallero, il Clan dei Marsigliesi, Vallanzasca e Turatello…
Esiste un filo che lega la criminalità degli anni trattati con quella attuale? Altrimenti, cosa è cambiato, nella criminalità di oggi, rispetto a quella di ieri?
Non credo. Negli anni Sessanta e nei primi Settanta si muovevano le batterie, le bande di malviventi specializzate in vari settori: nelle rapine alle banche, nei furti in villa, negli assalti ai portavalori… Oggi è tutto in mano alle grandi organizzazioni criminali che acquistano interi stabili in centro per riciclare gli introiti del narcotraffico.
È cambiato tutto. C’è un capitolo, proprio all’inizio del romanzo, intitolato “fine della ligera”. La “ligera” era il nome dialettale della tipica mala milanese, la malavita “romantica”, quella storica, che rubava per fame, che non sparava, che la faceva da padrona sotto alla Madonnina. Quella ligera, con quella mentalità, è scomparsa quasi da un giorno all’altro quando i banditi hanno iniziato a sparare e uccidere. Tutto è degenerato e oggi non ne rimane più traccia.
La politica, nel narrato, scorre in sottofondo, come osservatrice e, all’occorrenza, manipolatrice. In questo caso hai riscontrato dei cambiamenti tra passato e presente?
Erano epoche diverse e, a pensarci, sembrano trascorsi anni luce. Tuttavia qualcosa di simile c’è. Allora le persone erano più coinvolte: nella passione politica, nella voglia di partecipazione, nel desiderio di decidere in prima persona. Non delegavano ai politici. In questo riscontro una certa analogia con il popolo viola, gli studenti che oggi protestano contro la riforma della scuola e la grande manifestazione delle donne “Se non ora quando?” di qualche tempo fa.
Da alcuni passaggi si evince quanto parte consistente della popolazione milanese fosse affascinata sia dalla figura del delinquente, sia dall’idea dell’atto criminale riuscito. Che idea ti sei fatto a proposito di questo?
Era proprio così: i criminali guadagnavano le prime pagine dei giornali e dei settimanali e diventavano, seppur incarnando modelli negativi, delle vere star. Luciano Lutring, ad esempio, con le sue rapine e i suoi modi da galantuomo, ma anche Vallanzasca, il Bel René di cui tutte le donne s’innamoravano, erano seguitissimi dai giornali e dai lettori. La gente ha bisogno di eroi, di paladini da ammirare, in cui identificarsi, anche se criminali o negativi. Quante volte, del resto, quando guardiamo un film d’azione o leggiamo un romanzo ci identifichiamo coi “cattivi” o parteggiamo per loro?
Ci saluti con una citazione?
Quel mattino d’aprile fa stranamente freddo. Non è ancora scoppiata la primavera e la gente passeggia per le vie del centro infagottata nei cappotti. Si respira profumo di fiori. Lo porta il vento da chissà dove. Anche lì, davanti alle vetrine luccicanti degli stilisti, lungo i marciapiedi famosi di via Montenapoleone.
Forse proviene dalle terrazze e dai giardini interni nascosti dagli spessi portoni dei palazzi.
Nessuno si aspetta che fra un minuto l’aria sarà intrisa dall’odore del piombo.