di Danilo Arona
“Laggiù ho visto cose che nessuno dovrebbe mai vedere”
Devil (storia di M. Night Shyamalan)
Ogni singola notte della sua vita, da quando era tornato dall’Iraq, Sheldon T. Plummer (Olympia, Washington) si svegliava di colpo alle tre in punto. Pensava che fosse colpa del demonio e lo aveva pure lasciato scritto in un forum dedicato all’argomento. Ne esistono parecchi di questi forum: si parla si narcolessia, di Old Hag (la Vecchia Sotto il Lenzuolo), di risvegli improvvisi e condivisi alle 3,33 (la metà del numero diabolico) o di rapitori alieni dall’altra parte della finestra.
“Mi sveglio tutte le notti alle 3,33 . Ho i brividi su tutto il corpo e la stanza è gelata, e per questa cosa non ci sono spiegazioni perché il riscaldamento funziona perfettamente. Ma non ci nemmeno sono spiegazioni per questa precisione oraria: se metto l’orologio indietro di mezz’ora, spalanco gli occhi alle 3,03.”
“Gesù è morto alle 3,00 e le streghe fanno il loro sporco lavoro proprio a quell’ora.”
“Non mi sveglio proprio tutte le notti alle 3 del mattino. Ma mi sveglio spesso. E una notte ho visto sopra di me una figura nera dalla consistenza nebbiosa alta sino al soffitto. Ho fatto per alzarmi per correre ad accendere la luce, ma quella mi è volata addosso, più veloce di una pallottola. E mi sussurrava delle parole nelle orecchie che non voglio proprio ricordare.”
In quel forum non mancavano le esperienze demoniache. Ma Plummer il suo demone lo aveva incontrato in Iraq e se l’era trascinato dietro a Washington, lungo un tragitto aereo presagito sin dall’inizio degli anni Settanta dallo scrittore William Peter Blatty. Il risultato fu che, tra un risveglio e un incubo, Plummer ammazzò la moglie e la fece a pezzi, traendo ispirazione per le istruzioni “tecniche” dal serial TV Dexter.
Non è da oggi che una certa percentuale di marine americani di ritorno dall’Iraq e dall’Afghanistan torna a casa e scarica la propria aggressività su mogli, fidanzate o sconosciuti scelti a casaccio. Se non ammazzano qualcuno, uccidono sé stessi a ritmi impressionanti — le ultime cifre parlano di 18 reduci al giorno che scelgono la via del suicidio (fonte: army.times.com). Il fenomeno è noto sin dal 2004, ma la scelta, sin quando possibile, è stata quella di non parlarne o di parlarne pochissimo. Nel 2005, a mia memoria, ci fu soltanto un fugace servizio del TG3 in edizione pomeridiana.
Il settembre scorso Matthew Perkins, 30 anni e due campagne in Afghanistan e in Iraq, uccise a Manchester, Tennessee, la fidanzata e i due figlioletti di quest’ultima, inserì i corpi in sacchi di plastica della spazzatura e li rinchiuse in un armadio per vari giorni. Non esisteva alcun dissapore tra Perkins e la donna. L’uomo spesso urlava nel sonno e si svegliava di colpo, fradicio di sudore, chiedendo con disperazione al nulla: “Chi c’è? CHI C’E’?”
Eric Acevedo pugnalò la fidanzata a morte poche ore dal suo rientro dall’Iraq. Chissà come sarebbero state le sue notti?
Joseph Dwyer era perseguitato dai demoni già da tempo quando un giorno vide al bordo della strada una normale scatola di cartone vuota, la scambiò per una bomba in procinto di esplodere e provocò un brutto incidente stradale. Qualche mese più tardi Joseph si rinchiuse nel suo appartamento e iniziò a sparare dalla finestra. A casaccio, dove qualcosa sembrava muoversi. Per un caso straordinario non si fece male nessuno, ma la polizia impiegò una giornata intera a convincerlo che in giro non c’erano teste di stracci che lo volevano uccidere. Adesso Joseph non si trova più su questa terra e si è tolto di mezzo con un’overdose di tranquillanti e inalanti.
Jeff Lucey, 23 anni, tornato dalla prima fase bellica chiamata Decapitation Strike, s’impiccò nel seminterrato della casa dei genitori. La madre raccontò pubblicamente che nel mese in cui aveva partecipato all’invasione Jeff scriveva lettere terribili alla fidanzata in cui descriveva le mostruosità che aveva visto e che era stato costretto a fare. Una volta a casa, Jeff iniziò a parlare in modo sconnesso di Nassirya, la città in cui aveva avuto luogo la prima grande battaglia tra marine e irackeni. Di notte, intorno alle tre, a volte prima a volte dopo, si buttava sempre giù dal letto urlando. Dopo una notte in cui non aveva chiuso occhio affatto, ricevette sua sorella Amy con le lacrime agli occhi, dicendo di essere un assassino. E dichiarandosi “colpevole”. Prima di impiccarsi Jeff lasciò sul suo letto le targhette identificative dei soldati irackeni che aveva ucciso anche se disarmati. Lui le guardava spesso e mormorava parole incomprensibili.
Peter Mahoney, prima di andare in garage e attaccarsi al tubo di scarico, s’infilò l’uniforme con cui aveva prestato servizio.
Keith Nowichi, al rientro del suo secondo turno in Iraq, fu mandato per un anno di trattamento al Warrior Transition Unit di Fort Carson, Colorado Springs, dove collezionò solitudine, alcol e farmaci, e cesellò il tutto con il divorzio. Si uccise nel marzo del 2009 mentre si trovava al telefono con la ex moglie. Lì aveva conosciuto i Lethal Warriors, quelli della quarta Divisione Fanteria, i reduci di Falluja, quelli dei record: nove omicidi commessi da membri della stessa brigata, più 145 episodi di violenza domestica e 38 stupri.
Tutti questi ovviamente non sono demoni. Se così fosse, le contromisure sarebbero tutte sommato semplici. Sono invece i sintomi dell’ormai non più censurato PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) che esiste sin dai tempi del Vietnam, ma solo dagli anni Ottanta è riconosciuto come gravissima patologia invalidante (le assicurazioni americane l’hanno però inserita nei loro protocolli solo nel 2004…). Una sindrome che ne uccide più a casa che sul campo di battaglia, anche se le autorità militari mai lo confermerebbero, visto che i reduci sono tecnicamente dei civili. E poi, comunque, dopo i sintomi, arrivano i demoni
Secondo uno studio dell’Università della California sono trecentomila i militari tornati da Afghanistan e Iraq con segni chiarissimo di squilibrio mentale: emergenza che l’esercito affronta con appena 400 psichiatri. Con le prigioni che si riempiono di veterani: il 23% dei detenuti, un numero così alto che si sta pensando a tribunali speciali e condanne alternative. Un’inchiesta di “Time” spiega che il numero dei suicidi tra soldati ha toccato cifre record: 106 nel 2006, 115 nel 2007, 128 nel 2008. E ben 334 nel 2009: lo stesso anno i morti in battaglia sono stati 316 in Afghanistan e 149 in Iraq. Ma contando che va a buon fine un tentativo di suicidio su dieci, il numero di quelli che cercano di farla finita sale a tremila militari all’anno. Ammesso che siano dati reali: perché, insinua l’Huffington Post, i numeri, difficili da reperire, potrebbero essere superiori. E parliamo solo di militari in divisa: per quel che riguarda i veterani, le cifre sono solo ipotizzabili dato che, appunto, si tratta di civili.
Il suicidio, è noto e non da oggi, spesso diviene poi un fatto epidemico. Il mese di giugno del 2010 si sono uccisi 32 soldati, il numero più alto mai registrato Gli psichiatri e gli psicologi militari non hanno sufficienti conoscenze per affrontare questo disagio. Mark Russel, comandante della Marina specializzato in malattie mentali, ha scoperto che il 90% del personale che svolge queste funzioni non ha la formazione necessaria per curare il PTSD. Si limita a prescrivere farmaci come il Paxil, il Prozac o il Neurontin, che accentuano e addirittura provocano i sintomi.
Se non ci si uccide, si uccide. In ogni caso il disturbo mentale associato al PTSD può divenire incontrollabile. E trasformare il soggetto che ne è affetto in un lethal warrior sul patrio suolo. Difficile pensare infatti che chi viene addestrato a uccidere per non essere ucciso, una volta tornato a casa, possa inserirsi come se nulla fosse in una vita normale fatta di regole, di galateo e di rispetto per il prossimo. Difficile pensare che questa persona non abbia gli incubi e si svegli urlando più o meno alle tre di notte.
In un programma intitolato The War Within, trasmesso da Al Jazeera e dedicato al PTDS, la psichiatra americana Barbara Van Dahlen ha fatto dichiarazioni a dir poco inquietanti. Eccone un sunto:
“Il PTDS è contagioso. I reduci tornati a casa, quando si trovano in posti affollati, al supermercato, in un grande centro commerciale, o in un ristorante molto rumoroso, diventano ansiosi perché non riescono a esaminare efficacemente l’ambiente circostante e non si sentono al sicuro. Per i soldati coinvolti in esplosioni sui blindati lungo le strade, in Afghanistan e Iraq, le mogli riferiscono spesso che guidano al centro della strada, il che è chiaramente molto pericoloso qui negli USA. Ma lo fanno perché le bombe erano spesso collocate ai lati della strada e non riconoscono né realizzano che si stanno spostando verso il centro della strada, ma il cervello sta esaminando una potenziale minaccia nell’ambiente circostante. Lo stato di allerta continuo è dovuto alla paura che esista sempre un pericolo, perché chi ha subito un trauma è stato colpito da un evento che non ha potuto controllare, fortemente terrificante, distruttivo, pericoloso, o tutte queste cose insieme. Così il cervello è in allerta continua per la paura di un altro attacco o di un altro evento incontrollabile. E’ come se non esistesse una demarcazione tra la linea del fronte e casa propria, dove per definizione dovrebbe esserci solo la pace. In realtà oggi la guerra è ovunque. Perché è dentro. Non c’è solo la paura del terrorismo post 11/9, ma la paura che i reduci si portano dietro, contagiando amici e famigliari. E’ questo il vero problema che si pone nella cura dello stress post-traumatico. Non riguarda solo i soldati che tornano a casa, ma anche le loro famiglie. Abbiamo anche coniato una termine: ‘trauma secondario’, riferito al fenomeno dei familiari di soggetti affetti da stress post- traumatico che sviluppano gli stessi sintomi se le persone che hanno in casa non vengono curate. Così colpisce mogli e bambini, e chiunque passi molto tempo a stretto contatto con i reduci. Ha un potente effetto a catena che successivamente travalica il nucleo famigliare e si estende ai colleghi di lavoro, al sistema educativo quando si torna nei campus universitari. E’ a causa di questo consistente effetto a catena che noi operatori lo percepiamo come una vera emergenza sanitaria pubblica. E dobbiamo farvi fronte.”
Tutto questo — ma soprattutto il tema del contagio — ci riporta alla simbologia del profondo che scaturisce dai risvegli in preda al panico — alle 3,00 o alle 3,33 — da parte di chi soffre di PTDS. Sono esperienze visualmente demoniache che tendono a materializzare il Male (per poterlo guardare e controllare) e che alludono alla definitiva perdita dell’innocenza. Un capolavoro del 1988, Koko di Peter Straub, il tema dei reduci del Vietnam unito a quello degli orrori compiuti o testimoniati sul fronte bellico sottintendeva il trauma primario di un’infanzia distrutta a causa di adulti sadici. Un giovane soldato americano impazziva dopo essere stato costretto a uccidere un gruppo di bambini vietnamiti rifugiatisi in una grotta. Molti anni dopo, a guerra finita, l’uomo si trasformava in un serial killer che lasciava su ogni vittima orribilmente sfigurata una carta da gioco sulla quale appariva scarabocchiato il nome “Koko”. Si scopriva dopo alterne ed emozionanti vicende che chi si nascondeva sotto l’identità di Koko aveva visto da bambino la madre uccisa dal padre e lui stesso aveva dovuto subire ripetute violenze da parte del demone celato sotto le spoglie paterne. Attraverso un ricordo nascosto e il meccanismo delle analogie inconscie, Koko vendicava tanto sé stesso quanto i bambini vietnamiti con i quali s’identificava.
E’ una metafora che, nonostante gli anni trascorsi, si può ancora applicare ai lethal warriors che hanno riportato la guerra là dov’era stata dichiarata in nome di democrazie esportabili: a casa propria, tra le pareti domestiche, nella vita di tutti i giorni. Alle tre del mattino, l’ora del diavolo, per loro che ci credono.
Dopo i tumori da uranio impoverito e le sindromi della guerra del Golfo, è in arrivo qualcosa di peggio per il bellicoso Occidente: l’oscurità.
Something Wicked This Way Comes, ancora Ray…