di Marilù Oliva
Il libro dell’angelo, di Alfredo Colitto, Piemme (2011)
È una laguna trecentesca quella affrescata dallo scrittore molisano — ma bolognese d’adozione — Alfredo Colitto, nell’ultimo libro della trilogia di Mondino de’ Liuzzi (opera di chiusura del ciclo, ma non necessariamente conclusiva), “Il libro dell’angelo”, edito da Piemme: «Tornarono a bordo senza più dire nulla e restarono immobili fianco a fianco, mentre la piccola galea si staccava dal molo e si infilava nel passaggio tra l’isola della Zudeca e quella di San Zorzi Maggiore, affollata di neri cipressi. A un tratto, preannunciata dal sottofondo di grida e rumori tipici di ogni città, davanti ai loro occhi apparve Venezia. […]
Un ampio molo di pietra con poche barche alla fonda, due alte colonne, e dietro di esse una piazza lastricata con mattoni cotti a spina di pesce. A destra della piazza un palazzo che a Mondino sembrò uscito direttamente dai racconti fiabeschi uditi da chi aveva viaggiato in Oriente».
Una Venezia prossima alle celebrazioni — fervono i preparativi per la Sensa e lo Sposalizio del Mare — se non fosse che l’aria di festa viene incupita dal ritrovamento dei cadaveri di tre bambini crocifissi trascinati dall’acqua alta, piccoli fagotti informi e gonfi.
Anche in collegamento a questi omicidi Mondino, medico anatomista dello Studium di Bologna, viene chiamato dalla città felsinea alla Serenissima. Qui torna al capezzale della donna amata per un periodo intenso ma breve, ora prostrata a letto dagli attacchi di febbre della terzana: la fascinosa, testarda, coltissima alchimista Hadiya bint Abi Bakr, detta Adia Bintaba. Mondino si abbandonerebbe alla calamitazione che la stessa esercita ancora su di lui se non si sentisse in obbligo di opporre resistenza in quanto già fissata la data delle nozze con un’altra donna (di cui si dichiara innamorato). L’amore è qui dipinto con la delicatezza o la forza richieste dalle situazioni, non è protagonista assoluto ma discreto e si incasella in una più ampia struttura, quello del romanzo tout court che non si presta solo a un canone thriller o storico ma abbraccia più ampie vedute. Quella politica, ad esempio, di una città governata da una ragione di stato che cerca i capri espiatori per il delitto e non è interessata a rintracciarne i veri colpevoli. Quella storica: siamo nell’epoca dei Dieci veneziani, di Filippo il Bello re di Francia e della cattività avignonese dei papi. Quella religiosa, sociale (le torture finemente descritte sono indizio dei metodi coercitivi del potere), quella dei costumi, quella letteraria (e compare il Libro dei Misteri chiamato Sefer-ha-Razim, dettato — così vuole la leggenda — dall’angelo Raziel a Noè, e da questi trascritto su una tavoletta di zaffiro). Ma Colitto ci consegna anche momenti di umanità genuina, da quella più abietta a quella più spontanea dei gesti di rabbia a quella più nobile dell’amicizia e, a tal proposito, viene ripresentato il personaggio di Gerardo, ex templare, con la sua missione dal sapore australe.
La vita quotidiana si fa breccia continuamente nelle vicende svelandoci tante piccole leccornie d’epoca: come ci si bardava in vista di un viaggio, come il popolo si appiattiva ai muri quando passava un nobile a cavallo (ma qualcosa di simile lo rammentiamo già grazie a Manzoni!). E perfino quanto il razzismo, già a quei tempi, fosse pratica consolidata: «A volte i barcaioli si rifiutano di trasportare un ebreo. In molte locande non vogliono darci un letto, oppure ci chiedono un prezzo doppio o triplo, per compensare il fastidio di ospitare un “uccisore di Cristo”. Se poi durante la notte qualcuno porta via la borsa a un ebreo, nessuno si scandalizza troppo e non viene fatto nulla per trovare il ladro».
L’odore acido di quei giorni, di Paolo Grugni, Laurana Editore (2011)
Esce il 4 marzo per Laurana Editore il quinto romanzo dello scrittore milanese Paolo Grugni, “L’odore acido di quei giorni”, ambientato in un contesto storico cruciale per l’Italia. La vicenda si svolge infatti tra la fine del ’76 e il marzo del ’77, momento emblematico per Bologna (e per il paese intero), quando, a seguito delle manifestazioni che si svolsero nel capoluogo emiliano, Cossiga dispose l’invio di carri armati nelle strade del centro:
«Partimmo verso le otto e, dopo aver parcheggiato in periferia, alle nove eravamo in piazza Maggiore presidiata dalle forze dell’ordine, ma al tempo stesso colma di folla domenicale che non voleva lasciare strada libera all’occupazione militare […] Nessuno era mascherato, non c’era uno striscione, un cartello, una bandiera, una spranga, un bastone. Ci eravamo ritrovati in piazza per fare popolo».
Gli anni delle rivolte e degli aneliti di libertà, gli anni degli scontri di piazza e degli attentati sono un chiaroscuro, un’amara premessa politica del presente, antefatto di una possibilità che ha deviato il suo svolgimento, tanto che lo stesso autore, alla domanda Cosa rimane di quel periodo? risponde «L’amarezza di un sogno che avrebbe meritato ascolto».
Il romanzo comincia con un preambolo di dieci righe che cuciono il passato con le elezioni del 1994, vinte da Berlusconi: quattordici anni di attesa, «ma alla fine il Piano di rinascita democratica della P2 si era realizzato. Mi fermai a fissare le onde spiaggiarsi. Ero rimasto ad aspettare il futuro e il futuro era arrivato».
Poi il tempo viene riavvolto e la storia vera e propria prende avvio in un giorno d’inverno bianco di neve. Alessandro Bellezza, il protagonista, è un medico chirurgo di San Giovanni in Persiceto che ha perso il lavoro — è stato espulso dall’ordine dei medici — e la famiglia, ritrovandosi con un’occupazione di ripiego: recuperare i cadaveri degli animali uccisi dalle auto nell’area che da Persiceto arriva fino a San Giacomo.
Bellezza rinviene il corpo di Francesca Mirri e, mentre la bufera imperversa e il gelo lo schiaffeggia, lo issa sul suo pick-up per portarlo nel tavolo metallico del suo ambulatorio. La donna, però, non è morta. Si scoprirà che è un’infiltrata della polizia tra le fila di Ordine Nuovo, a caccia di un assassino che sembra nascondersi nell’organizzazione di estrema destra. I due, insieme al maresciallo Bertoli, cercheranno — e troveranno — sferzanti verità dove lo Stato e le sue diramazioni non hanno un ruolo irrilevante.
A descrizioni che procedono per immagini («una nevicata densa come spruzzi di dentifricio») si affiancano dialoghi, azioni, mentre gli intarsi storici sono distinti in corsivo. Il confine tra reale e fittizio riguarda la microstoria, non i grandi eventi. E come leggere il libro ce lo suggerisce Roberto Pedretti, nella sua postfazione: va letto come una vecchia foto in bianco e nero, immagine lontana, sfuocata, ingiallita. Merito dell’autore è avercela restituita, a tratti, vicinissima.
Il correttore, di Ricardo Menéndez Salmón, Marcos y Marcos (2011)
«Ai funerali di Fëdor Dostoevskij partecipò una folla immensa. In epoche passate, quando certi artisti morivano, il popolo veniva a dare l’estremo saluto con affetto e devozione. Così seppellirono Victor Hugo o Giuseppe Verdi. Oggi ci raduniamo soltanto per salutare gli impostori: re, pontefici, politici». Il potere e le stragi, i cadaveri che scorrono in sottofondo al romanzo, il nulla da cui si giunge e verso cui si approda, un nulla che sovrasta azioni e reazioni e contro cui si scaglia il tentativo di emendamento insito nel titolo. Ma andiamo per gradi. Già pubblicato due anni fa dalla spagnola Editorial Seix Barral, “Il correttore” è appena uscito per Marcos y Marcos con una traduzione di Claudia Tarolo. L’autore, Ricardo Menéndez Salmón, asturiano classe 1971, è direttore editoriale di una piccola casa editrice, scrive su quotidiani e riviste e nel suo paese ha ottenuto diversi riconoscimenti (cito il romanzo “L’offesa”, acclamato migliore opera di narrativa pubblicata in Spagna nel 2007). La sua preparazione filosofica trapela da alcuni riferimenti testuali che non anticiperò, mentre le ambientazioni — che invece mi interessa focalizzare — , vengono sfumate in luoghi-non luoghi eterni o sempre attuali, quali il mare e la stazione. Vladimir, il protagonista, abita in una casa in cui «non si vede il mare, però nei giorni di forte Nordest, quando il vento più amato della città sferza la spiaggia e i gabbiani gridano senza posa, si può sentire l’Atlantico per le stanze». Proprio assaporando il profumo salmastro mattutino, l’11 marzo 2004, tre giorni prima delle elezioni spagnole, Vladimir, mentre sta assolvendo al suo ruolo di correttore delle bozze dei “Demoni” di Dostoevskij, apprende dell’attentato ferroviario. Una strage — realmente accaduta — che provoca migliaia di feriti e centinaia di morti: dieci zaini riempiti di esplosivo furono fatti esplodere, tra le 7:36 e le 7:40, in quattro treni regionali collegati a Madrid, in stazioni differenti: ad Atocha, a El Pozo del Tío Raimundo, a Santa Eugenia. La detonazione si amplia dalla stazione come luogo di lacerazione e di morte, al conflitto inerente la vita del singolo, il suo pensiero, i suoi segreti. Vladimir ne custodisce uno grandissimo mai condiviso con l’amata moglie Zoe, suo rifugio insieme ai libri. E a tal proposito, piacevolissime le brevi digressioni che analizzano il rapporto simbiotico con l’oggetto-libro:
«Perché l’odore del libro è la quintessenza di tutti gli odori, la geografia dell’eroe, il tropico del silenzio e dei boschi profumati. Ogni libro è un viaggio. Quando apro un volume e aspiro le sue pagine, io non sono più lì. Molte persone non riescono a comprendere che Tucidide odora di aurore di isole greche, ma è così. (Non sono mai stato in Grecia, ma la mia convinzione è inconfutabile proprio perché irrazionale). Si può vivere senza leggere, è vero; ma si può anche vivere senza amare: l’argomento fa acqua come un canotto capitanato da topi».