di Nando Mainardi
William Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Edizioni Punto Rosso / Archivio M. Pezzi, Milano, 2010, pp. 276, € 15,00.
Gambetta ha scritto un’interessante ricostruzione del percorso di Democrazia Proletaria. Al centro non c’è tanto la storia compiuta di Dp – che va dal 1978 al 1991 – quanto i diversi tentativi di costruire una casa comune elettorale e politica dei gruppi, dei movimenti e dei protagonisti delle lotte di quel decennio. E’ in quella fase e in quel contesto che appaiono, per la prima volta e inizialmente solo come cartello elettorale, la sigla e il simbolo di Democrazia Proletaria. A Gambetta interessa in particolare la ricerca, discontinua e segnata da numerose conflittualità, da parte dei diversi soggetti della nuova sinistra di un nesso appunto “tra piazze e palazzi”, di uno sbocco elettorale e istituzionale comune che si ponesse in linea con lo spostamento a sinistra della società avvenuto a partire dal ’68.
Il punto di partenza è la sconfitta elettorale del 1972, quando le diverse liste a sinistra del Pci – e cioè Psiup, il Manifesto, il Movimento Politico dei Lavoratori e il Pc (m-l) – pur raccogliendo nel complesso circa un milione di voti rimasero fuori dal Parlamento. Una sconfitta che, inevitabilmente, aprì una ridefinizione della geografia politica nel campo della sinistra anticapitalista, una riflessione sulle scelte elettorali e, in particolare, sulla necessità di una modalità unitaria con cui presentarsi alle urne.
La ricerca unitaria convisse con una competizione serrata tra i diversi soggetti, ognuno convinto di poter rappresentare in esclusiva e meglio degli altri le istanze rivoluzionarie, e tra diverse opzioni strategiche. Da una parte vi era infatti chi riteneva necessario un rapporto, per quanto critico, con la “sinistra storica” per preparare un governo finalmente alternativo alla Dc e anticipatore di una svolta socialista, e chi invece riteneva necessaria una rottura con quella sinistra e puntare – forti di quella chiarezza – a diventare un punto di riferimento per tutti i rivoluzionari. E’in questo dibattito che compare e viene adottata la sigla “Democrazia Proletaria”, con cui la nuova sinistra si presenta – in gran parte unita – prima alle amministrative del 1975 e poi alle politiche del 1976.
Le elezioni politiche portarono ad una nuova delusione: la nuova sinistra entrò sì in Parlamento, ma con l’1,5% e il dimezzamento dei voti delle elezioni precedenti. Il risultato aprì una nuova lacerante discussione interna che portò all’allontanamento dal percorso comune il Manifesto (che era confluito negli anni precedenti nel Pdup-pc) e la minoranza di Avanguardia Operaia, che risentì dello scioglimento di Lotta Continua e che portò, due anni dopo, al superamento del cartello elettorale e alla fusione di Ao, della sinistra del Pdup e della Lega dei Comunisti in un unico soggetto politico. Democrazia proletaria, appunto.
Il congresso fondativo di Dp avvenne nei giorni del sequestro Moro, e da subito il nuovo partito si trovò in quel terreno assai stretto, tra la repressione di stato e il terrorismo, che vedeva al centro il rifiuto frontale del compromesso storico e del ruolo “compatibilista” del sindacato. Dp fu, in particolare agli inizi, un’esperienza originale ed eterodossa: la centralità del conflitto capitale-lavoro venne affiancata dalle priorità dei nuovi soggetti sociali e politici cresciuti nella seconda metà degli anni ’70, a partire dal movimenti femminista e del ’77. Abolì la figura del segretario nazionale, definì modalità di coinvolgimento diretto anche delle compagne e dei compagni non iscritti, provò a porsi come spazio politico a disposizione dei movimenti e delle lotte. Ma le elezioni furono nuovamente fatali: Dp, alle politiche del 1979, costituì insieme ad altri le liste di Nuova Sinistra Unita e raccolse lo 0,8% , rimanendo fuori dal Parlamento. Nsu puntava a raccogliere forze organizzate ed esponenti della sinistra anticapitalista nel modo più aperto possibile, anche se l’utilizzo di una sigla e di un simbolo mai visti prima contribuì evidentemente all’insuccesso elettorale. Entrarono invece in Parlamento e ottennero buoni risultati elettorali a sinistra il Pdup, che puntava a rilanciare il nodo del rapporto con il Pci, e il Partito Radicale, che stava attraversando la parte migliore e più avanzata della stagione referendaria.
Le conseguenze del risultato elettorale furono decisamente negative: parallelamente a quanto avveniva nei movimenti cresciuti negli anni precedenti, il riflusso cominciò ad attraversare le fila del nuovo partito. Oltre a una parte dei militanti, uscirono da Dp figure particolarmente rappresentative quali Vittorio Foa e Silvano Miniati. Dopo la sconfitta, si aprì una nuova riflessione che portò Dp a investire politicamente – forse anche in modo difensivo – sul radicamento organizzativo del partito e su una ripartenza dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro, definiti ora con più nettezza come i territori privilegiati della politica dell’alternativa anticapitalista.
Gambetta, riempendo indubbiamente un vuoto, ricostruisce con attenzione e puntualità il dibattito, le diverse posizioni e i tormenti della nuova sinistra lungo gli anni ’70. Il tentativo di diverse generazioni di militanti di costruire un soggetto politico rivoluzionario unitario che, in un qualche modo, sedimentasse l’onda d’urto del ’68 si confrontò con fasi molto diverse e con diversi insuccessi elettorali. Eppure gran parte di loro andò avanti, rifiutando di rassegnarsi al ritorno al privato e a dichiarare definitivamente chiusa la partita. Una scelta che, mutatis mutandis, è interessante indagare e ricordare anche per l’oggi.