di Luca Baiada (da Il Ponte, gennaio 2011)
[Abbiamo soppresso le note all’articolo, che potranno essere viste sull’edizione cartacea della rivista.]
Wikileaks ha cominciato a rendere noti circa 250.000 rapporti dalle ambasciate e dai consolati statunitensi in tutto il mondo. Già si parla di un Cablegate. A novembre 2010, un’abile campagna concentra l’attenzione sul sito, al punto che il giorno dell’attesa diffusione dei documenti è più volte inaccessibile, per sovraccarico o per attacchi informatici. Anche in seguito, sarà colpito da varie manovre; per esempio, il dominio basato negli Usa verrà chiuso, costringendo il sito ad assumere un indirizzo svizzero. Poi, dentro uno sciame denunciato come «maccartismo digitale», si collocheranno la disdetta del servizio da parte del sistema di pagamento PayPal, il boicottaggio di Amazon, e il blocco dell’accesso da biblioteche ed enti istituzionali Usa.
Il governo italiano trema già nell’imminenza della diffusione. Il comunicato dopo il consiglio dei ministri del 26 novembre, è umorismo nero:
Il ministro degli affari esteri, Franco Frattini, ha riferito su vicende delicate che rappresentano il sintomo di strategie dirette a colpire l’immagine dell’Italia sulla scena internazionale. L’attacco a Finmeccanica, la diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei, l’annunciata pubblicazione di rapporti riservati concernenti la politica degli Stati Uniti, con possibili ripercussioni negative anche per l’Italia, impongono fermezza e determinazione per difendere l’immagine nazionale e la tutela degli interessi economici e politici del Paese.
Finmeccanica, spazzatura, crolli, Wikileaks. Tre realtà in crisi. Poi, uno stato d’animo: il terrore che, caduta la maschera, si veda il volto di un ceto dirigente.
In genere, i documenti di Wikileaks sull’Italia sono pochi e di scarso rilievo. Eppure, qualcuno vede una strategia antitaliana. L’ipotesi più rosea, è che l’ambiente governativo si sia aggrappato al mito del complotto internazionale: un mezzuccio, ma pur sempre qualcosa. Forse sono in questo solco, il paragone fatto dal ministro Frattini con l’11 settembre 2001, e la sua richiesta alla magistratura di intervenire per bloccare il sito. Ma c’è di peggio: il governo potrebbe aver creduto a ciò che diceva. Ci sarebbe da sgomentarsi, a essere nelle mani di gente che trascura le dinamiche geopolitiche contemporanee, che non frequenta lo spazio informatico, che crede di essere al centro del mondo. A volte, i bari fanno meno danno dei ciechi. Proviamo a immaginare questa scena. In un sontuoso palazzo romano, un consiglio dei ministri discute di Pompei, di spazzatura, di un’impresa di armamenti. Insieme, si gingilla con l’ipotesi che l’Italia sia nel mirino di un sito Internet che invece è coinvolto in una partita politica e tecnologica planetaria. Un’idea di quanto pesava in quei giorni la posizione italiana? Ecco: il 28 novembre il sito del «Guardian», fra i primi a diffondere i documenti, permetteva di consultarli accorpati sotto i nomi di una quarantina di politici. Italiano, nessuno.
Ma sentiamo il commento di Gianni Letta, su Wikileaks: «Se questi sono i costumi dell’epoca in cui viviamo, c’è da restare atterriti e sconfortati». Queste parole uscite dal fondo polveroso di un armadio sarebbero esilaranti, se non fossero quanto riesce a dire il sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega per i servizi segreti, in un momento delicatissimo. Certo, forse è in imbarazzo: secondo uno dei dispacci, ha detto all’ambasciata Usa che Berlusconi vacilla (Letta nega). Ma adesso scrolliamoci di dosso la polvere, e vediamo qualcosa del mondo.
La diffusione dei documenti comincia domenica 28 novembre. Ma non è il sito a iniziarla: qualcuno ha già ricevuto i documenti da Wikileaks. Si tratta di «New York Times», «Der Spiegel», «The Guardian», «Le Monde», «El País». In seguito, anche altri collaboreranno alla catalogazione e diffusione. Facendo così, c’è un immediato effetto a danno della vantata comunicazione orizzontale e reticolare: i giornali in edicola lunedì 29 danno per certo che i documenti siano già a disposizione in rete, mentre non è del tutto vero. Anche in seguito, i giornali continuano a diffondere dati anticipando il sito.
Un po’ per questo, ma soprattutto perché giornali e televisioni catalogano o sottolineano a modo loro, il blocco del potere mediatico, tutto dipendente dai suoi padroni, detta l’ordine del giorno, sceglie e seleziona. Così, le prime cose che trapelano a fine novembre sono queste: Berlusconi è un gaudente, Merkel è una zuccona, Ahmadinejad è un tipaccio. Per il pubblico meno accorto, la prima percezione è che le notizie in arrivo siano ovvie.
D’altra parte, va considerato che anche sul sito di Wikileaks la diffusione avviene un po’ alla volta. Mentre scrivo è ancora in corso, e se il ritmo non accelera ci vorranno anni. Questo scaglionamento è dovuto all’importanza del contenuto, si sostiene. L’inconveniente, però, è appunto che la diluizione consente un accomodamento anche della presentazione e dell’interpretazione. Il vantaggio, invece, è che la diffusione non può essere neutralizzata da fatti successivi, perché l’attenzione viene stuzzicata più volte nel corso di un lungo periodo. Inoltre, il coinvolgimento dei giornalisti di vari paesi, di varie lingue, e soprattutto del sistema mediatico, quello delle grandi testate e delle loro aree di riferimento economiche, politiche, di opinione, libera il flusso d’informazioni dalla patina di elettricità e di fragilità che spesso circonda la comunicazione in rete. Insieme, supera il clima un po’ di nicchia, da controinformazione, da periferie della storia, che rischierebbe di emarginare l’iniziativa. La mossa di Wikileaks insomma è abile, ma la digestione di questo ricco boccone presuppone un ceto intellettuale sveglio e un pubblico esigente. Lussi che l’Italia fatica a permettersi.
Proviamo a riassumere, riguardo alla posizione degli Usa in genere, alcuni aspetti di quanto è emerso sino a ora dai documenti. Il futuro aggiungerà altro. Probabilmente si cercherà di fare molto, per nascondere o ridimensionare ciò che già è stato diffuso.
Fitte tresche con paesi rigidamente ubbidienti alla politica Usa, specialmente arabi, in vista di un’aggressione all’Iran.
Tentativi di condizionare la politica in Sudamerica, e in particolare in Brasile, sotto la maschera della sicurezza. Anche presenza ravvicinata degli Usa, e loro doppio gioco, in tema di colpo di stato in Honduras, nel 2009. Sono vicende che in pieno governo Obama riportano, pur senza quel mare di sangue, agli anni delle dittature fasciste nel continente americano.
Offesa ripetuta e organizzata ai diplomatici delle Nazioni Unite, diretta a trasformare l’Onu in un fantoccio, che sopravvive a sue spese ma che può essere eterodiretto.
Tentativi di piazzare detenuti provenienti dal carcere di Guantanamo in vari paesi, scambiando il loro assenso con interessamento politico, protezione o altro. Di rado, s’è visto trattare la carne umana in questo modo.
Raccolta planetaria di informazioni, tramite le sedi diplomatiche, sulle infrastrutture dei paesi in cui sono accreditate, all’insaputa delle autorità locali. Il dispaccio di Washington che ordina questo richiede, in funzione di «a safer, more secure, and more resilient America», di censire ovunque le «infrastrutture critiche», cioè qualsiasi cosa possa avere importanza per gli Stati Uniti, e le «risorse chiave», cioè quelle essenziali per il funzionamento dell’economia e del governo. Ecco un esempio di come gli Usa posseggano una nozione flessibile dello stato, e forse dell’identità nazionale: la sovranità giunge sin dove c’è qualcosa che può avere interesse per loro.
Ancora, più in generale c’è la gestione della diplomazia come una rete di sottobosco e di ingerenza, con episodi al limite del gangsterismo politico, e spesso con uno sfondo di cinismo, di sotterfugio, di calcolo, di ossessione maniacale per la schedatura. Certo, non c’è da illudersi che il modo di fare di altre potenze sia molto diverso, ma la differenza è che gli Usa si presentano come una nuova Roma, chiamata a esportare un modello, una didattica, un ordine del giorno e del discorso.
Per quello che invece riguarda l’Italia, vediamo altre cose. Sono tratte dal sito di Wikileaks, senza tenere conto di quanto riportano differenti organi d’informazione, e non comprendono i dispacci dell’ambasciata Usa presso il Vaticano.
A marzo 2002, subito dopo la pubblicazione negli Usa del rapporto sui diritti umani in Italia, l’ambasciata riferisce a Washington i contraccolpi negli ambienti di potere italiani, e commenta:
Non vogliamo veder peggiorare una situazione già delicata, in cui il governo Usa è stato strumentalizzato all’interno delle accuse, in precedenza fioche, dell’opposizione di centrosinistra contro un esecutivo piuttosto popolare. In mancanza di altri argomenti efficaci, i parlamentari di opposizione e i loro alleati nella stampa continueranno a riprendere il comportamento del governo nel G8 [di Genova del 2001], e i processi di Berlusconi. E d’ora in poi, a torto o a ragione, vanteranno il sostegno degli Usa al loro orientamento. Speriamo che i nostri contatti, come il ministro Scajola, leggano la relazione [sui diritti umani] e si diano da fare. […] Sfortunatamente, non possiamo controllare il tenore dei media, e […] le guerre mediatiche sono una continuazione della politica con altri mezzi. L’opposizione italiana, nel suo sforzo di deporre un popolare capo di governo, continuerà a scagliare le pietre che ha a portata di mano, e noi gliene abbiamo davvero procurate altre.
Questo documento dovrebbe essere tenuto a mente da chi si illude di contrastare la destra in Italia strizzando l’occhio agli Usa.
Il 26 ottobre 2005, dopo le primarie e prima delle elezioni, Berlusconi chiede e ottiene di incontrare l’ambasciatore. È in questione la legge elettorale, e si parla anche dell’Iraq. Gli Usa sanno che il popolo italiano è fortemente contrario alla guerra, e Berlusconi vorrebbe qualche segnale di disimpegno prima del voto politico. Si prevede la vittoria di Prodi, che ha parlato di ritiro, ma altri elementi della coalizione di centrosinistra hanno assicurato agli Usa che sull’Iraq non ci saranno iniziative rigide in «stile Zapatero», e lo stesso Prodi ha fatto allusioni usando una «formula di compromesso».
Il 27 ottobre 2009, dopo la sentenza di primo grado del risarcimento Mondadori e l’incostituzionalità del lodo Alfano, l’ambasciatore nota la debolezza fisica e politica di Berlusconi, malgrado la solidità formale del governo, e osserva che l’ambiente politico italiano brulica di teorie complottiste (conspiracy theories). Il diplomatico fa un’osservazione pesante, ma seria, purtroppo: «Per quanto gli italiani siano notevolmente dediti a teorie complottiste, la loro paranoia — almeno per quanto riguarda la politica interna dell’Italia — è storicamente ben motivata». Qui sono io, ad aggiungere che questo modo di essere degli italiani è dovuto anche alla pluridecennale, torbida attività degli Stati Uniti. Vediamo ancora il dispaccio. Proprio mentre un diplomatico Usa parlava con un informatore, Berlusconi ha telefonato a quest’ultimo avvertendolo dell’arresto imminente di alcuni carabinieri coinvolti nel caso Marrazzo. Umberto Bossi, invece, ha detto all’ambasciatore che la criminalità organizzata manovra scandali contro il presidente del consiglio, e lo stesso Berlusconi teme complotti. Comunque, alcuni politici della destra stanno già preparando la sua successione.
Il 26 gennaio 2009, l’ambasciatore analizza i rapporti Italia-Russia. Si teme la «russofilia», si sospetta che Berlusconi riceva una percentuale sui proventi dei gasdotti, e si è certi che gestisca le relazioni con la Russia in modo stretto e allo stesso tempo opaco. È notato l’enorme potere dell’Eni, maggiore di quello del Ministero degli esteri. L’ambasciatore scrive che gli Usa ostacolano alacremente questa linea berlusconiana, promuovendo mobilitazione politica e dissenso d’opinione.
Il 1° gennaio 2010 si incontrano Berlusconi, Letta e l’ambasciatore Usa. Berlusconi promette l’aiuto dello spionaggio italiano contro l’Iran. Letta apprezza D’Alema per la linea tenuta in passato sulla Jugoslavia. Berlusconi propone di agire contro l’uso estremista di Internet (cioè, vorrebbe censura). Inoltre, fa progetti contro la magistratura, che considera il maggior problema in Italia, e li presenta come appoggiati da esponenti dell’opposizione, fra cui Bersani. Benché oggi questo dispaccio sia in rete, il sito del segretario del Pd dice solo qualche parola, sul Cablegate in generale. Soprattutto, non smentisce l’appoggio. Eppure, secondo il dispaccio, egli per Berlusconi è fra gli alleati nell’opposizione («allies in the opposition»). Va notato, anche se il dispaccio non ne parla, che qualche settimana prima, condannata per un omicidio a Perugia la statunitense Amanda Knox, proprio la questione della giustizia italiana ha visto ambigui interventi anche di politici e giuristi Usa.
Sempre a gennaio 2010, sull’eventualità di un’aggressione all’Iran, Piero Fassino ha una posizione orrenda, in un contatto con l’ambasciata. Fassino, che non si dichiara contrario alla guerra, è preoccupato per le armi atomiche, vorrebbe con l’Iran una soluzione negoziata, e si chiede se un governo iraniano diverso dall’attuale avrebbe un orientamento differente (cioè, gradirebbe un cambio di regime a Teheran).
Il 3 febbraio 2010, l’ambasciatore analizza le iniziative delle autorità italiane contro Internet e in genere contro la comunicazione, notando che incontrano poca opposizione. Nota anche che il bersaglio è l’uso di Internet in politica o in concorrenza a Mediaset, ma che a diffidare della rete è tutto l’arco politico.
Per un riassunto è presto, ma per ora nel Cablegate l’Italia compare come un paese vassallo, con un ceto politico intrigante, chino, sporco e sostanzialmente omogeneo.
La stampa italiana come reagisce? A volte, borbotta cose che un curato di paese troverebbe antiquate. O interpella logori professionisti del segreto come Vincent Cannistraro. O insegue la linea di Frattini. O sostiene che i dispacci sono insignificanti, e allo stesso tempo che la loro diffusione è un crimine atroce. Del resto anche all’estero, secondo la versione ufficiale e imperiale, il Cablegate è un delitto, ma non è successo nulla. Questo dà la misura degli interessi toccati, e degli sforzi di mettere tutto a tacere.
È particolarmente sciatto il commento di Lucia Annunziata. Non solo è l’unica a sapere che i documenti sono addirittura due milioni, ma intende l’iniziativa di Wikileaks come un «complotto» contro Barack Obama, e farfuglia: «C’è, insomma, una seconda lettura del rilascio di questi documenti, una sorta di eterogenesi dei fini. […] C’è insomma un lato incomprensibile in questa storia, o, se volete, un vero e proprio lato oscuro». Queste parole provengono da una persona che deride come teorie complottistiche tutte le critiche alle versioni ufficiali gradite al potere politico, su qualsiasi cosa (stragismo, conflittualità armata, 11 settembre 2001, eccetera).
Ancora. Maurizio Molinari teme subbugli, benché sia coautore di un libro basato su documenti segreti Usa. Eric Salerno, che in un libro ha circondato il Mossad di un alone quasi romantico, propone il Cablegate come un complotto israeliano. Eppure, in un documento di Wikileaks, Israele è presentato come «terra promessa per il crimine organizzato», a causa dell’attività internazionale di strutture delinquenziali composte da israeliani ed ebrei della diaspora. Ma anche dagli Usa arrivano teorie: per Moises Naim «è lecito supporre che la Cia sia implicata nella questione. Oppure il Mossad. Oppure entrambi». Curiosamente, queste tesi che screditano il Cablegate somigliano alla presa di posizione dell’Iran, molto scettica e tendente a considerarlo una manovra appunto degli Usa e di Israele. Certo, si tratta di tesi con origini diverse (sull’Iran, abbiamo già visto altro).
Fra i commentatori ragionevoli, c’è Vittorio Zucconi: «Non saranno neppure centomila o un milione di comunicazioni riservate ad aprire gli occhi a chi non vuole vedere. […] L’America, ma soprattutto i suoi finti amici pubblici disprezzati o derisi in privato sono, da oggi, un “re nudo”». Ma questo discorso fa parte della linea astuta di «Repubblica», che cerca di evitare un eccessivo discredito per gli Usa, e di indirizzarlo invece verso Berlusconi.
E le reazioni negli Usa? Le riassume la conferenza stampa del segretario di Stato Hillary Clinton:
Queste rivelazioni non sono solo un attacco agli interessi americani in politica estera; sono un attacco alla comunità internazionale. […] Voglio dire chiaramente che la nostra politica estera ufficiale non è decisa in questi documenti, ma qui a Washington. […] Aggiungo che stiamo intraprendendo iniziative aggressive per assicurare alle loro responsabilità coloro che si sono appropriati di queste informazioni. […] I diplomatici statunitensi sono in contatto con operatori locali dei diritti umani, giornalisti, capi religiosi, e altri attivisti non governativi che offrono il loro acume. Questi contatti sono basati sulla fiducia e la riservatezza. Per esempio, se un attivista anticorruzione comunica informazioni su illeciti pubblici, o un operatore sociale trasmette documenti su una violenza sessuale, la rivelazione delle loro identità può avere gravi conseguenze: prigione, tortura, persino morte. […] I diplomatici statunitensi stanno facendo il lavoro che ci aspettiamo da loro.
Sullo sfondo di questo fanatismo ideologico brilla la dottrina del destino manifesto. L’orizzonte del potere, il border del dominio, si identifica col mondo. Ma allo stesso tempo, ci si rende conto che sono state svelate le ingerenze planetarie degli Usa. Come si rimedia? Rivendicandole come necessità, per la protezione universale, per la difesa dei deboli, per il castigo dei malvagi. Così, si ammette esplicitamente che i diplomatici Usa fanno spionaggio, anche servendosi di giornalisti e persino di esponenti delle religioni. Certo, chiunque abbia gli occhi aperti lo sa da un pezzo. Ma la retorica con cui questo è difeso da Hillary Clinton è quasi umoristica. Spende argomenti di facile presa: corruzione e sesso. Il ricordo corre subito alla campagna mediatica contro suo marito, quando era presidente, per una vicenda extraconiugale. Per inciso, Bill Clinton ha avuto ben altre responsabilità storiche, specie in tema di guerra in Jugoslavia. Ma l’argomento sesso fa comodo, e ora la moglie usa mezzi simili. Nella conferenza stampa, nessuno le chiede come avrebbe reagito, allora, se il comportamento di suo marito fosse stato oggetto di attenzioni non da parte di avversari interni, ma di diplomatici stranieri. Che poi faccia balenare prigione e tortura, mentre queste sono violenze subite da altri in Iraq e in Afghanistan, è inascoltabile. A proposito di umanità, non è lei la stessa Hillary Clinton che in un discorso pronunciato a Washington nel gennaio 2010 ha rivendicato la funzione di Internet nell’ambito dei diritti umani?. Adesso, deve aver cambiato idea.
Sempre negli Usa, l’immediata reazione operativa è stata poliziesca. Da Washington, l’Executive Office of the President, con un memorandum del 28 novembre in cui la ripetizione della parola security sembra un tic nervoso, ha ordinato maggiori restrizioni nell’uso di informazioni riservate.