di Danilo Arona
“C’è un bambino che scappa e la sua mamma si dispera perché non riesce più a trovarlo. E dove vanno tutti i bambini che scappano? Perché è così segreto e irraggiungibile quel luogo? Perché le loro mamme non sanno trovarlo?”
Così Pupi Avati alla fine del suo struggente Una sconfinata giovinezza. Un’opera che ti entra dentro non tanto per la dolorosa riflessione intorno alle devastanti mutazioni causate dal morbo di Alzheimer, quanto per il richiamo ai misteri quasi cosmici — gli oscuri luoghi dell’infanzia, l’inverosimile numero di missing people di cui non si sa più niente, i misteri della mente collettiva e, citando Lovecraft, “le case sfuggite”… – con cui facciamo fatica a confrontarci perché convinti che non abbiano diritto di cittadinanza in una società altrimenti chiamata civile, moderna e via illudendosi.
Avati è il pilastro di quel mondo gotico padano attorno al quale si sta materiando da anni il cuore rivelatore della nostra più genuina autorialità fantastica, da Baldini a Nerozzi, dai raggelanti “Ragni Zingari” di Nicola Lombardi alle incursioni filmiche di Ivan Zuccon (La casa sfuggita) e Federico Greco (Road to L. – Il mistero di Lovecraft), proponendosi infine come archetipo nel preziosissimo libro edito da Le Mani, Il gotico padano — Dialogo con Pupi Avati, scritto da Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini.
Citandone la prefazione di Roberto Della Torre, un mondo che si vorrebbe identificare come “fantastico” e i cui elementi, schematizzando, sono i seguenti:
“Antiche case in rovina, ville isolate e abbandonate nella campagna, piccole comunità strette intorno alla tutela del proprio segreto in nome del rispetto di norme e regole di un vivere sociale saldamente legato all’antichità, il mistero celato sotto le vesti della leggenda, personaggi ambigui e doppi che abitano luoghi bui e misteriosi, località sospese nel tempo e senza una precisa collocazione spaziale, eroi che affannosamente ricercano una verità ma la cui rivelazione sarà per loro fatale.”
Elementi fantastici? Nel senso che la realtà italiana, quella “gotico rurale”, è un altro pianeta che se ne sta a 360° dagli elementi elencati da Della Torre? Io non ne sono affatto sicuro. E parafrasando un’antica Cronaca di Bassavilla pubblicata qui nel marzo 2005 (The Fog… e, santi numi, come ci fotte il tempo…), Piemonte e Romagna non sono affatto distanti nelle loro storie territoriali, nelle loro nebbie, nei misteri irrisolti e nei paesini bloccati nel tempo magari in un fermo immagine virato in color seppia. Elementi veri, tangibili, di cronaca, anche se poi la sensibilità di uno scrittore tende a trasfigurarli e a farli migrare in più rassicuranti territori “fantastici”.
In un recentissimo documentario di Alessandro Scillitani e Mirella Gazzotti, Case abbandonate (qui potete vederne il trailer e altri materiali fotografici), affianco per puro caso proprio Avati (e con lui Tonino Guerra, Marco Revelli, Antonella Tarpino, Vito Teti, Massimo Bubola, Fabio Iemmi, Riccardo Marchesini, Cesare Bastelli) in un commento corale ed esplorativo di questa realtà, diffusissima in Italia dal nord al sud (e non solo, appunto, “padana”…) che rappresenterebbe il primo elemento fondativo del gotico padano: case abbandonate che sono tante, nascoste, rimosse dalla coscienza collettiva e contenitrici di storie leggendarie che, se poi vai a scavare, di leggendario forse non c’è proprio nulla, se non quell’aura che il cattivo incedere del tempo regala ai misteri che non siamo in grado di risolvere.
Scivolando nel personale, posso raccontarvi che da più di vent’anni abito in un lembo di campagna, in provincia di Alessandria, con parecchie case abbandonate qua e là, ma solo di recente ho scoperto che casa mia lambisce un territorio che nei secoli scorsi era denominato la “Mascöia: “E’ interessante far notare che ‘masca’ è un vecchio termine dialettale per indicare una strega e proprio in quella zona era presente un insediamento rurale denominato Cascina delle Streghe” – scrivono Daniele Cermelli e Gianluca Barco – questa costruzione è stata per anni meta di intere comitive di giovani che, alla ricerca di forti emozioni, in bicicletta o in motorino, nel buio delle tenebre la raggiungevano per intimorirsi a vicenda con racconti e leggende che la riguardavano. Si narra che il nome della cascina derivi addirittura dal periodo dell’Inquisizione in quanto in tanti avrebbero sostenuto che in quel luogo si svolgessero veri e propri sabba con streghe provenienti da ogni dove. Nei primi anni del Novecento due vagabondi si rifugiarono per la notte in quel rustico: per l’occasione gli abitanti dei cascinali vicini sentirono per ore urla strazianti provenire dal fabbricato e dei due malcapitati non si seppe mai più nulla”.
Incrocio fra leggenda e cronaca, ancora (e quanto assomiglia questo brandello a quel mito yankee inventato di sana pianta che abbiamo conosciuto come “la maledizione della strega di Blair”…), però, fino a un paio d’anni fa, ignoravo di transitare quasi quotidianamente davanti a una purissima location gotica e padana che si vorrebbe relegare nelle stanze del mito.
Che voglio dire con queste continue divagazioni “a spirale”? Forse un pezzo di risposta la fornisce lo stesso Pupi quando dichiara, commentando Una sconfinata giovinezza, che avrebbe voluto dedicare il film alle migliaia di persone scomparse in Italia (25.000 dal ’74 a oggi, di cui 10.000 minori), “il più sconcertante e assoluto dei misteri contemporanei”, ma che poi gli sarebbe sembrato “esagerato” di fronte alla mostruosa importanza del problema.
Il fatto, secondo me, è che dietro quell’intuizione — poetica, ai confini del metafisico — del “luogo segreto e irraggiungibile” (dove vanno tutti i bambini che poi non si trovano più), forse esiste un pezzo di verità sulla quale sarebbe utile soffermarsi. Forse la soluzione di tanti enigmi — ed è ovvio che il pensiero vada all’ultimo, più sconcertante di tutti, di Brembate di Sopra — sta celata nelle pieghe di una leggenda, negli anfratti di una casa abbandonata e cancellata dalle memorie, nei silenzi ambigui e nelle mezze verità, nei posti sospesi fra tempo e spazio. Che le soluzioni di certi, drammatici casi di cronaca siano da ricercare all’interno del gotico padano, può far giustamente sorridere. Ma investigatori e artisti percorrono sentieri diversi. E non sono pochi i casi in cui sono i secondi a sfiorare per primi la verità, magari senza rendersene conto.
Restando ancora nel territorio di Avati, dentro quel mondo fatale e immobile del gotico rurale, non è senza senso citare il finale di Le strelle nel fosso quando la misteriosa Olimpia, inghiottita dal buio della campagna, scompare alla vista di cinque uomini che rimangono immobili con lo sguardo perso nel nulla, rivolto alla sua sagoma che si dissolve. Iniziato con la scomparsa di una donna, la signora Bedosti, da una casa isolata circondata dalle acque e da una fragile lingua di terra che confina nel nulla, Le strelle nel fosso termina con un evento analogo, instillando nello spettatore che l’epifania della sparizione sia il cuore multisignificante del genere.
Case sfuggite, gente sfuggita, la memoria pure… Nel già citato film di Zuccon, che è nativo di Ferrara, sotto le tetre e magiche volte di quella che fu a un tempo la “Locanda al Crocevia”, la gente sparisce e ricompare, andando e venendo da universi contigui che fanno riferimento, in un sapiente mix tra Lynch e Lovecraft, a tre terribili vicende lì accadute in epoche diverse. Come suggerisce Nicola Lombardi ne I ragni zingari, esiste un Mondo Oltre lo Specchio celato nella storia delle mille case lasciate a se stesse in quell’ideale territorio che certa politica vorrebbe battezzare per sempre “Padania”. Ma si scompare, si “sfugge” e purtroppo, spesso, si raggiunge un luogo segreto e serrato tra le pieghe della visione. Non esiste la “sicurezza”: questo hanno sempre insegnato le vecchie storie sussurrate fra le tenebre della “bassa”. In troppi casi la modernità ha compiuto l’errore di azzerarne la memoria.