come lacerazione del velo di Maya su un sacco di cose tipo l’apprendimento degli adolescenti, l’uso dei dialetti, l’inutilità di certi critici, la libertà, l’alienazione, Roger Federer, il corpo, la bellezza, l’arte di chiedere scusa, la difficoltà di essere spinoziani e altre cose ancora che qui non mi vengono in mente ma vi assicuro che ci sono
di Girolamo De Michele
a proposito di:
David Foster Wallace, Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande, Bellinzona 2010; Andrea Bajani, Domani niente scuola, Einaudi, Torino 2008; Francesco Abate e Saverio Mastrofranco, Chiedo scusa, Einaudi Stile Libero, Torino 2010.
«Mentre sgranocchia biscotti Chips Ahoy! e fissa intensamente un evento dell’Associazione golf professionale alla televisione, ad esempio , l’adolescente che fuma viene colpito dalla spaventosa possibilità che, per es., quello che vede come il colore verde e quello che altre persone chiamano “il colore verde” forse in realtà non sono affatto le stesse esperienze di colore: che tanto lui quanto un’altra persona chiamino verde i prati dei campi da golf e il segnale di via libera di un semaforo sembra garantire solo che c’è una costanza analoga nella loro esperienza del colore dei campi da golf e luci del via libera, ma non che l’autentica qualità soggettiva di quelle esperienze di colore sia la medesima; […] finché l’intero ragionamento diventa così complesso e sfiancante che l’a.f.d.e. finisce per accasciarsi, ricoperto di briciole e paralizzato, sulla poltrona» [1].
Con questo esempio di sindrome nota come Solipsismo da cannabis (che ricorda una celebre vignetta di Paz) D.F.W. ci mostra in modo magistrale lo stato di paradossale catatonia in cui si avvolge il tentativo di affermare l’esistenza di un linguaggio privato a partire da un dato percettivo soggettivo. In realtà, come sappiamo dopo (il secondo) Wittgenstein, non esistono linguaggi privati [2]: poiché «i significati di parole ed espressioni dipendono da regole transpersonali e queste regole dal consenso della comunità, [allora] il linguaggio non solo non è privato ma è anche irriducibilmente pubblico, politico e ideologico». La natura politica e ideologica del linguaggio ha una conseguenza: ogni comunità generale (politica, nazionale, ecc.) si suddivide in una molteplicità di comunità linguistiche, ciascuna caratterizzata dalla pratica «miriadi di dialetti culturali/geografici» [3]. Da cui segue che le persone, che «si giudicano in continuazione sulla base di moltissime cose — altezza, peso, odore, fisionomia, accento, occupazione, tipo di veicolo (per non parlare di colore, genere, etnia)», si giudicano anche sulla base del rispettivo uso della lingua. Uomini e donne entrano in un dialetto ed escono da un altro dialetto, a seconda del contesto, dell’ambiente sociale, del gruppo in cui sono posizionati i parlanti. Nondimeno, l’uso della lingua può generare alcune patologie esemplificabili con la Sindrome del Solipsismo da cannabis anche in chi non è solito consumare cannabinoidi o altri stupefacenti: l’illusione di abitare la Lingua Scritta Standard, intesa come non un dialetto tra gli altri, ma La lingua tout court, porta questi locutori sedentari a raggiungere lo stesso stordimento da poltrona, briciole e paralisi del giovane accannato che si persuade di abitare un dialetto mononucleare di cui egli solo possiede la chiave d’accesso.
Un caso esemplare di questa LSS, nella variante sub-nazionale dell’Italiano Scritto Standard (ISS), è la prosa del professor Pietro Citati, che a cadenza quasi annuale sente l’irreprimibile bisogno di arrotolarsi e accendersi la scrittura avvolgendole attorno una RizlaRiflessione sul declino della scuola italiana, dei giovani che la abitano, della lingua che parlano degli insegnanti che la deformano (la lingua). Quando Citati è fortunato, il saggio di scrittura cade in concomitanza con un nuovo, «piacevolissimo» libro di Paola Mastrocola [vedi qui e qui], che l’abitante dell’ISS può quindi segnalare come imprescindibile (senza mai dire alcunché del libro di Mastrocola: ne avrà mai letto uno?) [4]. A questa segnalazione disinteressata — Mastrocola e Citati scrivono e abitano lo stesso ISS, per il quale hanno un culto quasi religioso [5] — segue una considerazione sui giovani, in genere conosciuti attraverso momenti come l’ascolto sotto l’ombrellone dei loro discorsi balneari («Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole: usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra, a ciascuno di loro, un’impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità e movimento») e amene considerazioni sulla scuola, non senza un immancabile ricordo di gioventù dell’insigne abitante dell’ISS. Il finale ha un inatteso [6] gusto amaro: le previsioni volgono al peggio, ma non è chiaro il perché: «Un evento ancora più grave minaccia l’intera società occidentale. Le fabbriche americane o inglesi o francesi o italiane non producono più automobili o scarpe in Europa: le producono in Cina o in India; mentre l’Occidente è rimasto la sede della pura attività finanziaria ed economica. Così, in pochi anni, l’Europa ha perduto una vocazione essenziale: quella di costruire una seggiola, o un tavolo, o una lavatrice, o un computer. Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l’Occidente era il luogo dell’esperienza e dell’avventura. Oggi, siamo diventati quello del niente e del vuoto». Questo leggero velo d’ignoranza è il tocco d’autore del citatismo, uno dei sub-registri dell’ISS: comunica un senso di solidarietà al lettore, con l’aria di dirgli amichevolmente «Io che faccio il mestiere d’intelligente, non ne capisco più di tanto; voi, non diversamente, non ne capite più di tanto; questo vuol dire che siete intelligenti quanto me» [7].
Lasciamo il venerato maestro alla sua poltrona e alle sue briciole di biscotti, ed esaminiamo un uso più pervasivo e normativo dell’ISS-come-lingua-unica. Dalla lettura dell’ultimo rapporto OCSE-PISA sugli apprendimenti degli adolescenti, emerge un preoccupante 21% di giovani italiani che hanno conseguito «scarsi risultati in lettura». Un adolescente su cinque si troverebbe quindi in condizione di «svolgere soltanto gli esercizi di lettura meno complessi come individuare una singola informazione, identificare il tema principale di un testo, o fare un semplice collegamento con la conoscenza di tutti i giorni». Un quadro che sembrerebbe confermare le impressionistiche osservazioni di Citati o Mastrocola.
Va da sé che ci sono delle specifiche ragioni che spiegano, più delle chiacchiere in slang balneare orecchiato dall’Insigne, questa cattiva performance. Ad esempio, gli studenti delle scuole private, che con le loro prestazioni determinano nel solo campo della lettura una differenza di ben 7 posizioni nella scala OCSE (la scuola italiana è 23° senza le private, 30° con le private: qui).
E — caso che ci interessa in modo particolare — le cattive prestazioni degli studenti degli istituti professionali e dei Centri di Formazione Professionale. Che tipo di rilevazioni effettua nel campo della “lettura” l’OCSE-PISA? Si tratta di schede di lettura uniformi, cioè non tarate sugli specifici programmi nazionali, la cui comprensione è spesso, per i ragazzi italiani, pregiudicata dal contenuto delle schede, spesso interno a segmenti di programmi non ancora affrontati perché non presenti nel biennio. In altri termini, gli argomenti sono intesi dagli elaboratori di questi test come poco rilevanti rispetto ad una Lingua Scritta Standard, della quale le singole lingue nazionali sono considerate una variante non problematica. Gli studenti a cui vengono somministrati i test OCSE-PISA sono chiamati ad esprimersi in un Italiano Scritto Standard tarato su una Lingua Scritta Standard X (ISS-X).
Eccoci al punto. «Che ne siamo consapevoli o no, la gran parte di noi parla correntemente più di uno dei principali dialetti […] e svariati sottodialetti e siamo probabilmente almeno passabili in innumerevoli altri. Quale dialetto scegliamo di usare dipende dalla persona con cui stiamo parlando. Per essere più specifici, faccio presente che il dialetto che utilizziamo dipende soprattutto dal tipo di Gruppo di appartenenza dell’ascoltatore e dal nostro desiderio di proporci come un membri di un tale Gruppo o meno». Lo studente adolescente liceale (s.a.l.), che consegue risultati superiori alla media OCSE nei test in questione (succedeva già nei precedenti test del 2005), ottiene buone performance all’interno dell’ISS non solo perché padroneggia in modo decente questo dialetto — salvo uscirne per accedere ad un diverso dialetto, con maggiori ricorrenze di locuzioni come “tipo che”, sostituzione del superlativo col prefisso “stra-” e l’enfatizzazione orale in forma esclamativa (“strabello!”, “strabuono!”, e altre cose così); lo s.a.l padroneggia questo dialetto “alto” perché vuole essere accettato dal gruppo sociale che lo parla, e si sente accettato, cioè incluso in una comunità, quando riesce a farlo. Lo studente dell’istituto professionale o del CFP da quella comunità è stato escluso quando, alle scuole medie, gli hanno spiegato che non è in grado di studiare, e in base al principio che è giusto dare di più a chi più già ha, e meno a chi è svantaggiato, lo hanno deportato in una scuola di rango sociale inferiore. E dunque non ha alcun desiderio di inclusione in un contesto dal quale si sente già escluso: riserva la propria espressione dialettomorfa al gergo “basso” del gruppo di cui fa parte, che magari condivide nella strada o allo stadio con liceale che esce dal dialetto del “bellissimo” per entrare in quello dello “strafigo!”, e concentra la propria capacità di attenzione in cose tipo i circuiti elettronici o lo schema di un motore, sui quali nessuno lo testerà (anche se è presumibile che sia in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico nella casa dello studente-cremino-del-liceo-in-centro). Così i test OCSE-PISA rafforzano, sotto forma di umiliazione per lo scarso punteggio, quel senso di esclusione da un certo gruppo socio-linguistico che da causa diventa effetto, in un feed-back perverso.
Infine arrivano i paladini dell’ISS a collegare il loro rifiuto del dialetto Standard con i tatuaggi, le felpe col cappuccio, i percing.
Eppure un modo per comprendere questa dimensione plurilinguistica dei ragazzi di oggi c’è. Basta fare come Calvino, che per comprendere l’immaginario degli italiani passo tre anni alla ricerca dei luoghi in cui questo immaginario ancora parlava: nel mondo delle fiabe, che in lungo e in largo per l’Italia ascoltò e trascrisse. Così ha fatto Andrea Bajani: per comprendere come e cosa sono i ragazzi, ha passato alcuni giorni dove i ragazzi sono — in gita scolastica con loro. Aprite il suo Domani niente scuola, e ascoltate le lingue che si accavallano al di sotto della chiara prosa di questo scrittore: sentirete in sottotraccia le mille sfumature dei dialetti, dei gerghi, delle parlate. Capirete che la lingua non è unidimensionale, ma accanto, e forse prima, della scrittura ha una dimensione orale stratificata. E a un certo punto, tornandovi in mente qualche pagina di Mastrocola o di Citati, sentirete un sentore d’assenza: qualcosa di indefinibile che, pagina dopo pagina, manca alla prosa di Bajani. Ve ne accorgerete dopo un po’, e vi chiederete come ha fatto a farne a meno, ma lo capirete: quelli che mancano sono i secchi di letame equino che gli Insigni e i Venerabili hanno bisogno di appendersi sotto le narici per poter parlare, alla loro altezza [9], dei “giovani”.
Wittgenstein, ricordate? Non esistono linguaggi privati, il linguaggio è funzione della relazione tra individui all’interno di una comunità. Produzione di segni a mezzo segni, se è vero l’aneddoto di Sraffa, futuro teorizzatore della produzione di merci a mezzo merci, che con un gesto — con un segno linguistico non-verbale — squarcia il velo del linguaggio privato davanti agli occhi di Wittgenstein. Il fatto che i linguaggi privati non esistano non ha alcuna relazione di fatto con la credenza nell’esistenza di simili linguaggi da parte di locutori di linguaggi specialistici, che si imbozzolano in un solipsismo che appare agghiacciante solo a chi vede la mosca nel bicchiere da un punto di vista esterno al bicchiere: «in altre parole, quando la vanità/insicurezza portano lo studioso a scrivere principalmente per comunicare e rafforzare il suo status di Intellettuale [la sua lingua] viene deformat[a] dal pleonasmo e da uno stile pretenzioso (la cui funzione è di mettere in luce l’erudizione dello scrittore) e da opache astrazioni (la cui funzione è di impedire che qualcuno possa attribuire allo scrittore un’affermazione precisa passibile di confutazione o ludibrio)».
Un caso più particolare di linguaggio privato è quello rinvenuto da D.F.W. nella lingua scritta o orale di alcuni campioni dello sport, come la tennista Tracy Austin (della quale D.F.W. recensisce l’autobiografia) o il tennista Michael Joyce, giunto nel 1995 attorno all’80° posto del ranking tennistico mondiale [10]. Com’è nel suo stile, D.F.W. usa l’argomento (in questo caso il tennis, del quale è stato appassionato e, in gioventù, anche praticante) come una rasoiata per squarciare quello che noi filosofi chiamiamo “velo di Maja” (un modo figo, schopenhaueriano per dire qualcosa come “la spessa fetta di prosciutto cotto bella rosa davanti agli occhi”) e cogliere qualcosa che non avremmo visto altrimenti, o non in questo modo sorprendente (=Istanza patetica, o emotiva) che bypassa l’Istanza logica (che dovrebbe costituire la struttura dell’argomentazione). Sospetto che quest’uso dell’Istanza patetica abbia una sua funzione retorica a supporto dell’Istanza etica, che è ciò che a D.F.W. (e anche a me) interessa davvero.
Ciò che interessa davvero D.F.W. è la «concentrazione quasi ascetica», l’impegno «precoce e totale verso il perseguimento di un solo scopo» che praticano gli sportivi professionisti, e in particolare i tennisti: «acconsentire a vivere in un mondo che, come il mondo di un bambino, è sia molto serio che molto piccolo». Un mondo nel quale — come nel campo dell’amore, ci fa notare lo scrittore — una serie di scelte precoci, unite a una qualche predisposizione, creano una condizione di consapevole chiusura di ogni altra possibilità. Il tennista è la metafora della scelta di una vita che non ha altre scelte, o meglio, per la quale «il problema della scelta è diventato irrilevante». Il carattere elementare, banale, entro un registro descrittivo medio-basso e assolutamente non-problematico è motivato da questo. Nel suo saggio su Brevi interviste con uomini schifosi — un esempio di cos’è il concetto di amicizia — Zadie Smith cita una frase di Sartre che potrebbe essere trascritta sulle copertine dei libri di D.F.W. come emblema di una riflessione sulla libertà che ha accompagnato l’intera produzione letteraria di Wallace: «la libertà è ciò che facciamo con ciò che ci è stato fatto» [11]. Ad alcuni individui, reali (come alcuni tennisti) o immaginari (i personaggi di Brevi interviste) è stato fatto qualcosa che li ha collocati in una situazione-limite, all’estremo margine del solipsismo. Il loro carattere estremo illumina in modo livido e agghiacciante quel solipsismo esistenziale che D.F.W. ha combattuto nei suoi scritti. Ma riconoscere che il linguaggio dipende dalla comunità umana non elimina l’orrore di riconoscersi «dentro» il linguaggio, e di non riuscire in modo “spontaneo” o “naturale” — cioè umano — ad orientarci al suo interno. Non è chiaro cosa D.F.W. conoscesse e condividesse di Foucault, in particolare di Le parole e le cose, ma l’imbarazzo epistemologico del grande (post-)strutturalista — non riuscire ad orientarsi dentro la modernità allo stesso modo dell’età classica, perché non è possibile separarsi dalla modernità e dai suoi enunciati discorsivi dentro cui siamo — è la stessa vissuta da Wallace nei confronti del linguaggio. Solo: con un’enorme investimento emotivo, a differenza del gelido atteggiamento da entomologo di Foucault.
E Roger Federer cosa c’entra?
C’entra. Con Federer — l’apparente [12] oggetto discorsivo del reportage scritto per il “New York Times” [13] — la domanda che D.F.W. si pone è: davanti a certe giocate di Federer, i «momenti Federer» in cui «ti cade la mascella, strabuzzi gli occhi ed emetti suoni che fanno accorrere la tua consorte dalla stanza accanto» mentre il popcorn vola per tutta la stanza [14], che cos’è che accade allo spettatore? Perché ci entusiasmiamo davanti a una giocata come questa?
Immanuel Kant si è posto un quesito analogo a proposito dell’entusiasmo: che cos’è l’entusiasmo suscitato dalla notizia della presa della Bastiglia tra i lettori di giornale — non tra i partecipanti all’assalto? Che cosa accade nella mente di chi è travolto dall’entusiasmo davanti a un simile evento?
Cosa accade nell’anima (per D.F.W. “inconscio” è «solo una parola ricercata per dire anima») di chi si entusiasma per una grande giocata sportiva? Qualcosa più facile a dirsi che a spiegarsi: «solo vedere da vicino come la potenza e l’aggressività possano essere rese vulnerabili alla bellezza ci fa sentire ispirati e (in modo fuggevole e mortale) riconciliati». Riconciliati con cosa? Col nostro corpo: l’esperienza della «bellezza cinetica» «sembra essere strettamente legata alla possibilità per un essere umano di riconciliarsi con il fatto di avere un corpo».
Il fatto di avere un corpo è qualcosa a cui non sempre prestiamo attenzione, soprattutto dal punto di vista intellettuale. Dopo tutto, un paio di secoli di biologia, la rivoluzione epistemologica nelle scienze naturali che ha portato alla scoperta, tra età classica e modernità, del concetto di “vita”, e quel po’ di psicologia che tutti abbiamo più o meno masticato ci portano a dire, in modo non problematico, che sulla scissione tra mente e corpo Descartes si sbagliava, e Spinoza aveva ragione. Che l’unità psicofisica di mente e corpo è un fatto anche per chi non ha letto Damasio: il che, peraltro, è vero. Ma il punto non è che corpo e mente siano due aspetti di un’unica sostanza: il punto è che di questa unità noi abbiamo una conoscenza libresca, più che un’esperienza effettiva. E spesso abbiamo l’esperienza del contrario: di una scissione tra corpo e mente, che è un po’ come la percezione della gamba mancante da parte dell’amputato.
«Ci sono molte cose negative rispetto al fatto di avere un corpo. Se questo non è così ovvio per chiunque da non richiedere alcun esempio, possiamo menzionare velocemente dolori, piaghe, odori, nausea, vecchiaia, gravità, sepsi, goffaggine, malattia, limiti — ogni minimo scisma tra la nostra volontà fisica e le nostre attuali possibilità. C’è davvero chi dubita che abbiamo bisogno d’aiuto per essere riconciliati? Devo proprio dirlo? In fin dei conti, è il nostro corpo che muore». Avere un corpo ha anche aspetti positivi [15]: muoversi nello spazio, interagire con la materia è qualcosa di glorioso. Che però realizziamo più facilmente davanti alla «bellezza cinetica» degli atleti che nella nostra quotidianità.
Della difficoltà di avere un corpo, di accettarlo, di riconciliarci con esso ha parlato Francesco Abate in uno straordinario reportage su se stesso scritto a quattro mani con Saverio Mastrofranco alias Valerio Mastandrea (qui una presentazione che dovreste ascoltare prima di proseguire la lettura). Un reportage intorno a un fegato che non va, e che infetta in modi diversi l’intero organismo, fino a fagocitarlo. Bisogna entrarci dentro, in questo libro leggero e potentissimo, per capire quanto sia un fatto mentale tutt’altro che scontato accettare di avere un corpo malato, e ancora accettare che la propria vita sia messa a repentaglio da questo corpo, e ancora quanto la propria vita debba dipendere dalla capacità di accettare il fatto di avere un altro fegato e un altro corpo. E quanto sia un fatto mentale anche per il chirurgo che non sacrifica un fegato sano per un paziente che non se lo merita. Bisogna arrivare al fondo del bicchiere, dove si è depositato il dolore più amaro, per assistere all’esperienza psicofisica dell’essere un corpo e una mente, e di volersela giocare fino in fondo questa inscindibilità: quando il fegato malato viene operato senza anestesia, perché il corpo la rifiuterebbe. E poi risalire fino a capire quel “chiedo scusa” che è il nickname del paziente [16]: per cogliere, dietro questa inconscia cortesia del chiedere scusa, l’accettazione del proprio esserci ancora, col corpo materiale e quella cosa astratta che chiamiamo vita, qui in questo mondo.
La vita è qualcosa che non ci appartiene: è qualcosa in cui siamo, ma che eccede i nostri limiti individuali. È troppo difficile da accettare, ed anche da spiegare. È in questa difficoltà che, come in un fondo oscuro, si annida l’illusione di possedere un io. È di questa illusione che D.F.W. ha parlato agli studenti del Kenyon College con un discorso che ha avuto il titolo postumo di Questa è l’acqua [17].
[18] David Foster Wallace credeva che dovremmo combattere ogni giorno la nostra battaglia per uscire dall’alienazione, dal solipsismo, dalla prigione nella quale ci siamo rinchiusi. Era la sua ossessione letteraria: portare fuori quello che è dentro di noi, trovare una relazione tra le parole e il mondo. Sembra facile, per uno scrittore, proporsi il compito di raccontare il mondo: il fatto è che più ne racconti, e più sfugge al racconto. Le parole non bastano mai, non esauriscono il loro compito: forse perché né le parole che usiamo, né il mondo che raccontiamo ci appartengono. E neanche la vita in cui diciamo il mondo ci appartiene, come abbiamo visto. Ma è una battaglia alla quale non possiamo sottrarci: perché sono in gioco la verità e la libertà, né più né meno. Noi viviamo all’interno di una cultura che ci sembra “naturale”, e che ci fa credere di essere liberi: ma in realtà questa libertà non è altro che «la libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato». Ma, proprio perché non abbiamo un mondo, un destino, siamo indefiniti e indefinibili, abbiamo la possibilità di altre forme di libertà: «il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito».
Questa «modalità predefinita» di cui parla D.F.W. è lo stile alienante della nostra vita quotidiana: «il cosiddetto “mondo reale” non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perché il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io». La modalità predefinita che ci porta a venerare il nostro io ci porta, per le stesse ragioni, a non accettarci per come siamo fatti: a vedere nel nostro essere-così non il fatto del nostro essere, ma il suo limite. Come se potessimo ri-crearci a seconda del nostro libero volere, e qualcosa — il nostro corpo — ci ostacolasse in modo ottuso e cieco.
E qui avrei bisogno di prendere un’altra lunga strada, con molte svolte e molte biforcazioni, per tenere insieme il tutto. Facciamo così: me la cavo con un’altra citazione di Wallace, tratta dal suo discorso su Kafka [19]. Lo humor kafkiano è difficile da cogliere per quegli studenti, dice D.F.W., ai quali è stato insegnato «a concepire l’umorismo come una cosa che si coglie — proprio come abbiamo insegnato loro che il sé è una cosa che, semplicemente, si ha». Eccoci al punto: la coincidenza di comicità e tragicità in Kafka ha a che fare con l’idea che il sé non è qualcosa che si comprende in termini di possesso, di limiti, di finalità. E questo tiene insieme tanto l’impossibilità di un rapporto esaustivo tra le parole e le cose, quanto la difficoltà di accettare, attraverso il nostro corpo, il nostro sé per quello che è: la difficoltà di sfuggire alle rappresentazioni del sé forgiate dai falsi dèi del denaro, del potere, del successo, dell’Ego [20]. La difficoltà di comprendere Kafka ha a che fare con il suo argomento-chiave: «lo sforzo mostruoso di affermare un sé umano risulta in un sé la cui umanità sarà inscindibile da quel mostruoso sforzo». Dire «Io» è qualcosa di un’impossibilità gaddiana: è il compito di una vita, al termine del quale… scopriamo di essere già dove volevamo essere sin dal principio (das ist komisch). Ecco perché è più facile augurare buona fortuna al tennista Michael Joyce, piuttosto che agli studenti del Kenyon College che stanno per uscire dalla scuola per entrare senza scampo nel mondo. “Buona fortuna” può essere detto a chi non ha tutte le strade aperte: a chi ha imboccato, giusta o sbagliata che sia, una strada che ha una sola possibile destinazione. Augurare buona fortuna agli studenti [21] «sarebbe troppo poco». Nondimeno, qualcosa in noi ci spinge a questa ricerca: è una sorta di demone socratico-shakespeareano, che incarna la ricerca della felicità. Essere felice significa, dopo tutto, essere in compagnia di un buon demone: con le parole del Bardo, «a fellow of infinite jest». La momentanea riconciliazione tra possibilità e realtà, tra volontà e fisicità, tra anima e corpo che ci coglie davanti alla perfezione di un momento-Federer è un indice, un segno (il risultato di una produzione di segni a mezzo segni) di questa ricerca.
1 David Foster Wallace, “Autorità e uso della lingua”, in Considera l’aragosta, Einaudi Stile Libero, Torino 2006, pp. 72-138.
2 L’illusione della loro esistenza deriva dal credere che il significato di una parola sia dipendente da una sensazione o un’immagine mentale soggettive: per approfondire questa dimostrazione dovreste far riferimento alle Ricerche filosofiche di L. Wittgenstein, o a qualche studio sul linguaggio in Wittgenstein (qualcosa tipo Saul Kripke o Norman Malcolm, o La fatica di descrivere di Roberto Dionigi) o fidarvi di questo breve resoconto e procedere con la lettura [*].
[*] David Foster Wallace vi direbbe la stessa cosa, credetemi.
3 Solo sull’inglese americano D.F.W. enumera: Inglese nero, Inglese latino, Meridionale rurale, Meridionale urbano, Standard dell’Upper-Midwest, Yankee del Maine, Bayou del Texas orientale, Operaio di Boston, e via discorrendo.
4 Pietro Citati, “Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile”, Repubblica, 2 febb. 2011, qui.
5 Nel caso di Citati questo culto, unito alla venerabile età, fa del Nostro un Insigne qualcosa. Cosa, non è chiaro, né è rilevante: in queste condizioni, si è Insigni per definizione.
6 (si richiede la vostra cooperazione sotto forma di lettori ingenui e un po’ creduloni)
7 La frase di Roland Barthes, tratta da Miti d’oggi, è adattata a Citati nel mio La scuola è di tutti, p. 125, dove il citatismo è considerato, al pari del mastrocolismo e del lodolismo [8], uno dei casi di una Fenomenologia dello Spirito Scolastico alla quale oggi aggiungerei anche lo starnonismo, una variante radical-chic [**] del citatismo.
[**] (alla manifesto o alfabeta2, per capirci)
8 Contemporano al citato scritto di Citati il testo di Lodoli “E la lotta di classe si sposta tra i banchi” (qui), in cui Lodoli inizia rimpiangendo i tempi in cui «la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie». Che questa prosa sia smentita da un rapporto sulla rigidità sociale nella società italiana pubblicato un anno prima dallo stesso giornale (qui) è irrilevante: il perno dell’ISS è lo stile, non il contenuto.
9 (come i fidanzatini di Chagal, Citati e Mastrocola non camminano al suolo: trascendono la volgare forza di gravità e si librano in un’aria iperuranica)
10 Rispettivamente in Tennis, tv, trigonometria, tornando e altre cose divertenti che non farò mai più, Minimum Fax, Roma, 1999, pp. 265-317, e in Considera l’aragosta, pp. 153-168. Un altro testo apparentemente tennistico è il racconto autobiografico “Tennis, trigonometria e tornado” (in Tennis, tv, trigonometria, tornado, pp. 5-28. E naturalmente le pagine di Infinite Jest.
11 Zadie Smith, “I doni difficili di David Foster Wallace”, in Cambiare idea, Minimun Fax, Roma 2010, pp. 365-422.
12 Nella sua recensione — un buon esempio di stile Italiano accademico come variante dell’Italiano Scritto Standard — Andrea Cortellessa fraintende proprio questo punto capitale. E infatti, con un’impropria citazione di Terenziano Mauro (habent sua fata libelli [***]) Cortellessa conclude con la decadenza dalle posizioni di testa delle classifiche tennistiche di Federer, che «da tempo ha imboccato il viale del tramonto». Esattamente due mesi dopo questa recensione Roger Federer ha vinto il suo quinto ATP World Tour Finals, più o meno l’equivalente di un Campionato del mondo per tennisti professionisti.
[***] La citazione di Terenziano Mauro, nella sua interezza, recita però «pro captu lectoris habent sua fata libelli»: i libri hanno il loro destino a seconda della capacità di comprensione del lettore. Appunto.
13 Roger Federer come esperienza religiosa, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2010 (qui l’originale).
14 (ma esistono anche dei momenti-Jordan, dei momenti-Maradona, dei momenti-Alì)
15 («ci sono anche cose meravigliose nell’avere un corpo»)
16 (ogni paziente ha un nickname attribuitogli durante la degenza, in genere per quello che ha fatto mentre ancora durava l’anestesia totale)
17 In Questa è l’acqua, Einaudi Stile Libero, Torino 2009, pp. 143-155.
18 Questo capoverso è tratto dal 19° capitolo di una specie di mia storia della filosofia in corso di pubblicazione per i tipi di Ponte alle Grazie, dedicato appunto a D.F.W. L’uscita è prevista per aprile.
19 “Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka”, in Considera l’aragosta, pp. 64-69.
20 Qui dovrei citare qualcosa di Slavoj iek tipo La peste dell’immaginario: ma io sono uno all’antica, e preferisco rileggermi Lacan, o Psicoanalisi delle masse e analisi dell’Io del vecchio zio Sigmund F. — cioè gli archetipi piuttosto che i simulacri.
21 Un altro filo che penzola da questo argomento principale è il ruolo degli studenti nei racconti di Kafka — e quello che Walter Benjamin ha capito di loro.