di Franco Pezzini
La mutazione stava per avvenire. Raffaele guardò dal balcone, verso la laguna ancora scura. Una luna cerea sarebbe apparsa da un momento all’altro, inondando i campielli e lambendo di luminosità livida anche le calli più strette. Respirò profondamente: il tempo era giunto, da secoli attendevano quella notte. Il precedente plenilunio Donna Zanna, la Lupa Alfa del branco locale aveva avvisato tutti i figli (della Lupa, appunto) di tenersi pronti per quella festa di gloria e vittoria. Si era invece astenuta dal confidarsi coi riottosi seguaci di Zeus Liceo, usi ad addurre speciose motivazioni grecule per la loro scarsa collaborazione: stavolta li avrebbe convinti con la forza.
Del resto tutto concorreva a quel rivolgimento. Il Maschio Alfa degli Alfa, Arconte di tutti i branchi dalla sua sede al Lupanare, era ormai vecchio [N.B.: per Lupanare si intenda in questo particolare contesto, legato all’antico culto lupesco, “luogo di cene normali”. Per la fondamentale differenza tra termini solo popolarmente assimilati si rinvia com’è ovvio alla monografia del Brunner, Lupanarische und pöstribolen, Stuttgart 1904]. La stagione del capo anziano era insomma finita, e al di là delle proclamazioni formali di fede (e del famoso Lodo Alfa promulgato per tutelarlo) un’inquietudine sorda regnava tra i Lupi della sua corte. Ormai era il tempo dei giovani.
Da quando Lussa, l’estatica Dea-follia aveva fatto levare il primo ululato all’alba della storia, quella luna estrema era stata invocata, supplicata, blandita con infiniti sacrifici. Perché quella notte avrebbero finalmente cancellato la razza inferiore, i molli uomini-libro. Da sempre, ogni volta che un erede di Licaone proponeva di gettare il cuore oltre l’ostacolo ed estirpare finalmente ogni germe di fragilità sociale, ecco che un uomo-libro alzava un ditino. Certo, non riuscivano a ottenere chissà che seguito, ma finivano sempre con l’instillare qualche dubbio che rovinava tutto. Però quella notte, profetizzava la Völuspá, la situazione sarebbe finalmente cambiata. L’astro avrebbe reso i Licaonidi più forti, non semplici lupi come nei normali plenilunî ma creature leggendarie circonfuse di gloria, e in quella nuova forma avrebbero travolto ogni ostacolo.
A dir la verità, un vecchio membro di una lega di alleati, nel fondo delle campagne, gli aveva confidato una volta che simili fantastici esseri esistevano già — e anzi da tempo immemorabile risolvevano senza clamore i loro problemi. A bassa voce aveva sussurrato di creature possenti che pareva allignassero nei labirinti sotto i palazzi, tra le fondamenta degli antichi archivi e le segrete dalle cupe memorie, in attesa di uscire un giorno come avanguardia dell’invasione. I primi sospetti all’esterno erano filtrati da tracce inquietanti — zanne, pareva — marcate sul cuoio di vecchie legature. Pareva addirittura che uno scrittore (non ne ricordava il nome) fosse stato gettato in pasto a quelle belve. Raffaele ebbe un brivido: sarebbe diventato come loro, una bestia mitologica sorta dall’Abisso.
Finalmente la luna fece capolino. L’uomo respirò ancora, a fondo, e sentì che qualcosa si risvegliava in lui. Grumi di fuoco gli corsero tra i nervi, tra i fasci muscolari che s’irrigidivano per poi dissolversi sotto la pelle e assumere una forma nuova. Gli sembrò di essere proiettato verso l’alto e poi strappato verso terra…
Dopo un tempo che parve infinito, di strazio e gioia pura, poté finalmente riprendere coscienza del suo corpo. Si passò una mano — una zampa — sul pelo e rimase stupito che non fosse lungo e ispido. Anche il colore gli parve strano, troppo chiaro, ma forse era un effetto dei nuovi occhi. Restava da capire perché fosse così basso, eppure camminava sugli arti inferiori. Fu il riverbero della finestra a svelargli che aveva ottenuto la mutazione, quella stessa delle belve dei sotterranei.
Si era trasformato nel criceto Hamtaro.