di Dziga Cacace
If it’s too loud, you’re too old
Ted Nugent
228 — L’imprevedibile Saranno famosi di Alan Parker, USA 1980
Dopo pranzo la mente è torbida e il telecomando s’imbatte nelle prima scena di Saranno famosi: penso a un estratto utilizzato dall’omonimo fetente programma tivù, poi scopro che si tratta del film vero e proprio. E allora mi prendo la mia rivincita e lo vedo, perché in seconda media ero un reietto in mezzo ai compagni che ne parlavano con toni mistici. E scopro, alla bella età di 32 anni, un film che, per quanto rivolto a un pubblico adolescenziale, risulta accattivante fino a un certo punto. La prima bella cosa è lo spirito egualitario: sarà finzione cinematografica, ma deve provenire dal reale: qui, neri e bianchi, ispanici ed europei, sono tutti assieme, fianco a fianco, a studiare arti dello spettacolo in una scuola pubblica di New York: durante gli anni Ottanta difficilmente si vedrà ancora questa integrazione, anzi, mano a mano, si accentuerà il distacco e oggi mi sembra impossibile trovare un film così meticciato. La trama non è molto complicata e segue i destini di una mezza dozzina di aspiranti artisti durante gli anni di studio in una sorta di liceo/accademia dello spettacolo. Ci sono il cabarettista dalla vita tormentata e pronto a bruciarsi per disperazione; il compositore che crede d’inventare chissà che cosa maneggiando un synth (strumento sul quale la Storia è passata come un’orda mongolica, grazie a Dio); la tuttofare che vuole cantare, recitare e ballare; l’attore che scopre la sua omosessualità; la ballerina di buona famiglia che abortirà per danzare; il ballerino nero che balla per fuggire dal ghetto… oh, è un film compagno, questo!
Ricchi e poveri, belli e brutti, risolti e no, ambiziosi e arrivati: c’è tutto il campionario, anche degli adulti. Mancano giusto la De Filippi e Platinette. I conflitti si risolvono (non sempre per il meglio) e tutta la pellicola è pervasa da un’amarezza di fondo che sembra far presagire la giungla che gli aspiranti artisti affronteranno fuori dall’ombrello protettivo della scuola. L’individualismo tipico di questi film è stemperato dal senso di comunità e appartenenza e agli stereotipi della crescita artistica (“maledettismo”, ricerca interiore, ribellione) si affiancano anche ritratti non proprio scontati. Insomma: Saranno famosi risulta molto più bello di quanto credessi (cioè quasi nulla) e soprattutto diverte e trascina. Dal punto di vista narrativo il film è scandito dai diversi anni scolastici, sino alla consacrazione finale con il diploma. Certi dialoghi fanno un po’ schifo, alcuni momenti sono kitsch come pochi (si pensi al balletto per la strada, talmente irreale da sembrare una parodia), ma in generale le musiche e le canzoni sono decenti e intossicanti (due Oscar per la musica e il suono) e gli attori decenti. La regia è di quel simpatico marpione di Alan Parker che, con amabile incostanza, ci ha regalato capolavori popolari ed eleganti che hanno segnato la crescita cinematografica di noi trentenni. La confezione preannuncia la stagione del cinema clippettaro dei primi anni Ottanta, ma perlomeno qui è funzionale a una narrazione volutamente frammentata in tanti piccoli episodi. L’attore che scopre di essere gay è Romano in E.R. Quello che interpretava invece Leroy dovrebbe aggirarsi ancora dalle parti di corso Como, a Milano: è arrivato in Italia grazie al tremendo programma tivù Meteore. Ha ballato, ha intascato il cachet, se l’è bevuto ed è rimasto qui da noi, triste e gonfio come una sonda. O perlomeno così mi dicono. Irene Cara è invece diventata una trombona mistica: è venuta ospite di un altro bestiale programma televisivo a cui ho lavorato anch’io, presentandosi con 50 chili in più che nel film che ho appena visto, rifiutandosi di provare e cantare dal vivo e dimostrando una simpatia da agente della Stasi. Però, a quel che so io, è tornata a casa. Per fortuna. (Diretta su Italia1; 22/12/01)
229 — Kippur di Amos Gitai, Israele/Francia 2000 e Il gobbo di Notre Dame di quei sovversivi della Disney, USA 1996
Kippur è diretto con rara serietà, ha una messa in scena autoriale, pulita, non imbastardita da un montaggio alla moda. È un film impegnativo, senza compromessi, dove ogni scena che deve comunicare noia effettivamente la comunica. E quando si deve provare il dolore o l’incertezza della guerra, beh, le si provano. Non voglio parlar male di Gitai, perché Gitai fa le cose per bene, con puntiglio: non ti ammalia, non ti trascina (eufemismi per dire che è serio e rigoroso, ma pure campione assoluto in quella che potremmo definire la nobile arte dello stracciare il cazzo), ma ti comunica i suoi sentimenti in maniera diretta, scomoda. Solo che questo cinema manca di sintesi e di digeribilità, ti richiede attenzione massima e in cambio ti dà poco, se non un’emozione intellettuale un po’ snob. Kippur non m’è dispiaciuto, ma non m’ha neanche fatto impazzire, eh, diciamocelo. Durante Yom Kippur del 1973 siriani ed egiziani attaccano Israele. Il giovane Weintraub deve raggiungere il fronte con l’amico Russo e i due lo fanno su una vecchia Fiat, mentre piovono bombe e non so cosa sia peggio (se la Fiat o le bombe). Raccolgono un medico e si uniscono a una pattuglia di soccorso che si occupa dei feriti in prima linea. Dopo due o tre salvataggi il loro elicottero di soccorso viene colpito e da soccorritori diventano soccorsi, prima di tornare a casa. Il conflitto continua, anche se ufficialmente è già finito: il conflitto c’è sempre e c’è ancor oggi. La vita quotidiana di un israeliano è anche questa, pronto a prendere la sua macchina per andare ad ammazzare o farsi ammazzare, lasciando casa, lavoro e affetti. Ecco: figurati un palestinese, che probabilmente casa e lavoro non ha. E neppure la Fiat. Questo era trent’anni fa e questo continua a essere oggi, da quando il supposto processo di pace è diventato un feroce processo di guerra. Facile dare la colpa a quel panzone di Sharon, adesso: ma non sarà un po’ semplificatorio? Vabbeh, non c’entra nulla, ma a Kippur manca un po’ il contesto e il senso della vicenda è puramente esistenziale. Forse sono io che chiedo a questo film risposte che non sa e non vuole darmi. Del resto, che facciamo? Due stati o uno a metà? Maccheccazzo ne so, io? Non capisco perché la Mannoia venda anche un solo disco e dovrei capire come risolvere la crisi israelo-palestinese? Bah. Ah: ieri, la sera di Natale, assieme ai cuginetti di Barbara ho visto parzialmente Il gobbo di Notre Dame, cartone della Disney di qualche anno fa. Niente male, anche perché coll’adulto cugino Joshua ci siam messi a fare commenti da finti critici tromboni, esaltando le doppie letture del cartone, come la messa in scena dei sans papiers, degli emarginati, dei diversi, addirittura dei borseggiatori. Tutto ridendo e scherzando, però in fondo non credendo ai nostri occhi per il messaggio progressista di un film da una casa di produzione che si è sempre distinta per brutale conservatorismo. La zingara Esmeralda, seppur disegnata, è molto gnocca e non può che alimentare salutari e precoci fantasie nel pubblico infantile. Sui sottotesti politici si può disquisire a lungo, però l’invito alla tolleranza e la giustificazione della giusta ribellione (anche cruenta!) sono evidenti. E fanno piacere, soprattutto sotto Natale. (Vhs da Tele+; 26/12/01)
230 — L’incresciosa storia dello Gnurk e poi Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni, Giacomo e Massimo Venier, Italia 2000
Siamo a Celerina, presso Sankt Moritz, con Marco e Simona O., ospiti di Pietro, Irina e del piccolo adorabile Nikita. Un po’ in imbarazzo perché lì in mezzo, noi, con la kefiah e le scarpe rotte, sembriamo dei provocatori. Comunque capodanno si avvicina e, se la location è fin troppo elegante, la vacanza è molto piacevole, non fosse per il mio pesante raffreddore: uno starnuto traditore mi ha fatto esplodere i capillari nelle orbite e ora sembro un vampiro con gli occhi iniettati di sangue. Di giorno alcuni di noi sciano, la sera s’indugia comunitariamente scanalando sul satellite e così scopriamo che il successo tributato al Late Show di David Letterman è assolutamente legittimo. Ritmo, invenzioni, un fuoco di fila di battute, una scomoda simpatia. Il satellite ci fa scoprire anche il segreto della tivù bulgara (ci finiamo tre volte e per tre volte becchiamo danze folcloristiche in costume), così come la comicità islamica o il pauperismo di certi canali tematici. Pietro è appassionato di Nuvolari, canale dedicato ai motori, ma ci colpiscono anche Milagros o altre emittenti di predicatori. Girando qui e là becchiamo il finale dei due atti di Novecento, cosa che mi risveglia strane voglie di visione integrale e continuativa, tanto più che in questi giorni – con mia enorme invidia – mia madre ha incontrato il Maestro in persona. Marco e io, un pomeriggio che siamo soli, ci scoppiamo pure il finale de Il secondo tragico Fantozzi, non all’altezza del geniale predecessore, ma pur sempre godibile. E poi musica, spezzoni di film, brani di documentario e un pacco di cartoni animati, perché Nikita ha capito perfettamente come sintonizzarsi su Disney Channel e Cartoon Network. Gli abbiamo regalato la vhs di Shrek e lui l’ha disdegnata con convinzione: non gli piaceva per niente l’idea che la principessa fosse un’orchetta, per quanto buona, e lo disturbava il fatto della trasformazione, temendo di essere anche lui il contenitore “bello” di un orco. Allora, per riparare al regalo mal riuscito, ho disegnato con Nikita per una mezz’ora e su sua istigazione ho creato un mostro buono e patetico, lo Gnurk. Lo Gnurk ha piedi palmati, gambe da carestia, ventrazza tipo Ferrara, occhi pallati come due uova sode, orecchie da ciuco e boccuccia sdentata. Mentre lo disegnavo e ne illustravo le caratteristiche da perdente, Nikita s’è esaltato. Poi, la svolta: non so cosa ho detto ma il pupo ha cominciato a tremare temendo di trasformarsi nottetempo anche nello Gnurk. Prova tu a calmarlo, adesso: una tragedia, con Nikita completamente terrorizzato; è finita che abbiamo dovuto bruciare nel lavandino il foglio su cui avevo disegnato il povero mostro. Irina — che mi lanciava sguardi assassini — ha avuto poi il suo bel daffare ad addormentare il piccino, mentre io ero assalito dai complessi di colpa, soprattutto nei confronti dello Gnurk, finito come il peggiore degli eretici. Poi, verso le undici, satolli e comunque allegri per il vino tracannato e la disavventura del povero mostro incenerito in effigie, abbiamo deciso di vederci un film e giusto in quel momento è partito Chiedimi se sono felice, che avevamo visto solo Barbara e io. Scritto e girato con un certo garbo, è gradevole, ritmato e mai volgare. Buon anno in anticipo e se chiedi a me se sono felice, boh, non so. Ma sì, dài. (Diretta su Tele+; 29/12/01)
231 — L’ultimo capodanno festeggiato da Marco Risi, Italia 1998
Quando L’ultimo capodanno uscì nei cinema rimase così poco in cartellone che il dubbio — durato pochi minuti — risultò fatale. Divenne un fiasco epocale per il quale si cercarono i colpevoli anche tra il pubblico che, invece, aveva ragione da vendere. Ora, questa che ho visto è una versione probabilmente mutilata rispetto a quella che andò nelle sale, ma dubito che il film, più lungo, potesse anche essere migliore. Tratto da un racconto di Ammaniti ecco le incredibili vicende che si intrecciano l’ultimo dell’anno (e del millennio) nel condominio Le Isole, a Roma. Ci sono ripicche familiari, furti, sballi epocali, vendette tra vicini, invitati sgraditi, scrocconi ed esibizionisti, con esplosione atomica finale. Lo scenario potrebbe essere divertente (sulla carta funzionava), ma le storie sono incastrate male, alcune si perdono di vista per delle mezz’ore, altre sono risolte con alcune battute. Risi flirta col trash, vorrebbe graffiare e farci ridere amaro; invece si rimane perplessi: non mancano i momenti divertenti, ma l’insieme non regge per nulla anche perché si rimane a cavallo tra l’apologo surreale e la comicità becera di categoria inferiore, abusando di situazioni pulp buttate lì, senza un grande sviluppo, e di luoghi comuni attoriali (tipo Haber isterico, Pappalardo fascistone, etc.). Forse il montaggio originario garantiva un più omogeneo crescendo narrativo, ma non lo sapremo mai. Straordinaria Iva Zanicchi, inamovibile la maestosa Monica Bellucci (è il complesso della modella: qualcuno dovrebbe spiegarle che nel cinema le immagini sono in movimento), d’insospettabile bravura Fiorellino, irritante la D’Aloja (che ha un ruolo non si capisce fino a che punto autoironico: se è autoironica è anche di un cinismo che non ha eguali; se non lo è, lasciamo perdere ché sono a rischio querela). L’ho visto con la cumpa di Celerina (vedi sopra), tutti abbastanza attoniti e tutti curiosi di come il film avrebbe potuto ulteriormente svaccare, cosa che puntualmente avveniva. Purtroppo l’abbiamo preso in corsa e ci siamo persi la scena in cui la Bellucci esibisce un’irsuta topona posticcia, rizzata come se avesse preso la scossa elettrica. (Diretta su RaiDue; 30/12/01)
233 — Scent of a Woman dell’infame e ineludibile Martin Brest, USA 1992
Tornato a Milano, refrattario a ogni attività, scopro da un magazine che, assieme alla mia generazione, sono in piena crisi esistenziale. Già due anni fa mi avevano diagnosticato la Sindrome di Peter Pan e quando vorrò fare un figlio, sicuro che becco la Grande Ondata d’Impotenza, vedrai. Vabbeh. Mi trascino fino all’ultimo giorno di vacanza e la sera, spaparanzato con Barbara sul divano, ci stringiamo sotto la copertina come due vecchietti, sperando che il tempo passi ancora più lentamente e il lavoro si allontani. Questi propositi vergognosamente piccolo borghesi e per nulla in linea con l’efficientismo del nostro beneamato presidente del consiglio mi ammorbano e quando parte Scent of a Woman, film per famiglie, stolidamente hollywoodiano e dispensatore di buoni sentimenti, non riesco a trattenermi e ci casco ben felice, rifugiandomi nel prevedibile rosario di scene strarecitate da un turbo-Pacino. Io, l’originale Profumo di donna di Risi non l’ho visto (né mai lo farò) e non posso azzardare paragoni. Il Thanksgiving è alle porte e il giovane Charlie deve racimolare qualche soldo perché frequenta il college con una borsa di studio e il padre affettivo non lo aiuta per niente. Farà da baby-sitter all’infernale colonnello cieco Frank Slade che, però, ha precisi piani di evasione. Appena i familiari hanno lasciato Pacino in custodia a Charlie, ecco che vengono prodotti biglietti d’aereo per New York dove i due solidarizzeranno. Pacino beve, mangia, tromba, litiga con altri parenti e quand’è lì lì per farla finita, ci ripensa, anche grazie al pianto da orfano di Charlie che, ‘anvedi, gli ha pure fatto guidare una Ferrari. Ma mica nel deserto, come Ray Charles, no: per le strade di Brooklyn. Fantascienza, insomma, ci mancava giusto il match di freccette in un pub. Le scene madri si susseguono senza tregua, Pacino è debordante e si vede lontano un miglio che gode di bestia e ripassa mentalmente i ringraziamenti da dire mentre riceve l’Oscar. Il comprimario non nuoce, ma chi illumina veramente lo schermo è Gabrielle Anwar, giovane che viene virtualmente sedotta con un solo semplice tango ballato dal nostro allegro non vedente. Lei è una splendida ragazza inglese e Dio stramaledica Hollywood che non le ha mai dato abbastanza lavoro. Il film si conclude con un finalone degno de L’attimo fuggente: Charlie si deve difendere davanti al consiglio del college perché ha visto dei figli di papà fare uno scherzo al rettore, ma lui non vuole fare la spia. Il rettore lo ricatta ma interviene Pacino che, per l’ennesima volta, ruba la scena, fa fare una figura di merda al rettore che invita alla delazione, ricorda i fondamentali valore dell’indipendenza, del coraggio e della purezza di cuore e bla bla. Charlie viene assolto, i figli di papà umiliati e il Bene con la B maiuscolissima trionfa, in un giulebbe di retorica sconsigliabile ai diabetici. Devo essere sincero: mi sono sdoppiato. La parte intellettuale respingeva questa pappa orrenda e retrograda, ma di pancia assaporavo con voluttà il tosco di questa scrausa messa in scena, grammaticalmente insultante, ridondante di tirate verbose, ripetitivo e falsamente politically correct. Il giudizio critico è giocoforza negativo, ma la mia parte animale, sempre più preponderante, s’è divertita. Moltissimo! (Diretta su RaiTre; 6/1/01)
234 — Mezzogiorno e mezzo di fuoco del meteorico Mel Brooks, USA 1974
La7 ripassa per l’ennesima volta questo vecchio film di Mel Brooks e io, memore di una visione esilarante alla fine degli anni Ottanta con l’amico Ferro, non riesco a resistere: registro e rivedo perché voglio ancora gustarmi la famosa scena dei cowboy intorno al fuoco alle prese con i fagioli. Mezzogiorno e mezzo di fuoco è un film di una stupidità clamorosa, con due o tre lampi geniali. Non m’ha fatto ridere come alla prima visione, però l’ho visto con un certo stolido piacere: la regressione infantile l’ho mica inventata io, eh? Il West è ancora libero e selvaggio, ma la civiltà avanza inesorabile sul binario della ferrovia. Ma sul percorso della strada ferrata ci sono anche degli ostacoli, come un villaggio di pacifici pionieri. Uno speculatore pensa a come eliminarlo e, con l’aiuto del governatore, manda in loco uno sceriffo nero, il simpatico ed elegante Bart. Si prevedono anarchia e vita facile nello spazzare la resistenza dei pionieri, ma, nonostante l’iniziale diffidenza (la vecchietta a cui si offre di far attraversare la strada lo ringrazia così: “vaffanculo, negro!”), poco a poco lo sceriffo supera tutte le prove cui viene sottoposto: batte in astuzia un forzuto demente, seduce con le sue prestazioni sessuali una vamp e infine guida tutta la cittadinanza a un’epica scazzottata, talmente ecumenica che invade altri set cinematografici e coinvolge anche tutto il cast di un musical omosessuale. Le idee migliori sono quelle completamente surreali (le uscite della vecchietta, le incongruenze storiche, la commistione metacinematografica del finale) e si ride grasso quando Brooks spinge sull’acceleratore della volgarità fine a se stessa. Per questi buoni momenti ce ne sono anche alcuni loffi, dove Brooks indulge in una comicità di bassissima lega, ma tutto sommato, in qualche maniera, il film tiene. E confermo che la scena dei fagioli continua a essere divertentissima, lercia ma incontrovertibilmente spassosa. Il doppiaggio italiano ha attribuito a tutti i personaggi voci dialettali (credo che anche nell’originale avvenisse qualcosa di simile); talvolta funziona, talvolta no, ma Gene Wilder, ubriachissimo e spedito pistolero dalla mano incredibilmente precisa che parla come un vero bauscia, è proprio azzeccato. (Vhs da La7; 8/1/01)
235 — Il… belpaese servito fresco da Luciano Salce, Italia 1977
Milano, 1977. Il 1977, quello. Il timido Ambrogio Berardinelli (Villaggio) ritorna da una piattaforma petrolifera del Golfo Persico per intraprendere un’attività commerciale nella città natale. Ma i tempi sono cambiati e piomba in piena contestazione generale: lo attende un paese sull’orlo della guerra civile tra sequestri, rapine, bande terroristiche, taglieggiamenti mafiosi e forze dell’ordine ambigue. Il cittadino medio ha paura e se ne sta chiuso in casa; i prepotenti — di ogni colore — trionfano e Belardinelli è il classico vaso di coccio. Apre una orologeria – un negozio che tratta articoli vecchi in partenza, senza futuro – che viene puntualmente bruciata ed espropriata. Sarà una ragazza intraprendente a fare sentire di nuovo Belardinelli giovane, dandogli inaspettatamente un figlio. Il… belpaese non è niente male ed è un film di valore per una buona serie di motivi. Il primo è affettivo (visto innumerevoli volte da bambino) e poi — pur nel caos formale, nella farsaccia e nella sciattezza narrativa — rimane un documento clamoroso di un’epoca. È ovvio che non c’è alcuna attendibilità storica, ma qualcosa di altrettanto utile sì: la percezione che di quegli anni aveva il cittadino comune, in questo caso un regista e degli sceneggiatori che, per quello che ci raccontano, sembrano più interessati a capire, seppur rozzamente, che a giudicare. Il filtro umoristico sdogana la superficialità, è ovvio, ma in questo film si ritrova la vivacità sfrenata delle radio libere (qui l’aggressiva Radio Libera Zero), dello spontaneismo giovanile, dei timori della maggioranza silenziosa, della tensione quotidiana e pure del marciume dei politicanti. C’è la guerra tra stato e terroristi scandita dai bollettini delle operazioni, l’arrivo (e il timore) della droga pesante, la contestazione alla borghesia ingessata, il punk, le femministe e i loro slogan, i sequestri, le scorte, i muri ricoperti di scritte politiche, le grandi manifestazioni di piazza. Siccome il film non ha intenti analitici, bensì meramente comici (e a un livello non troppo elevato), va da sé che di tutta quella stagione si perde la genuina carica eversiva e creativa, ma sarebbe sbagliato aspettarsela. Il film è stato accusato da più parti di qualunquismo generico, ma per conto mio c’è un generale misunderstanding che piglia i critici quando hanno a che fare con un film comico: sbarellano, non lo accettano, la comicità va bene solo se è la garbata commedia di qualche Autore. Ne Il… belpaese c’è un “colore” — grazie alle immagini documentarie, alla musica, alle location, all’esserci, lì, mentre accadeva — che è difficile trovare in altri film che il presente lo fuggivano o rifiutavano di raccontarlo (un altro film che di quegli anni ci racconta confusamente qualcosa è Ecco, noi per esempio, film meno divertente, meno riuscito e più furbetto nello sfruttare l’accoppiata Pozzetto & Celentano. Però…). Oh, son fatto male: mi piaceva, questo film, e mi piace ancora, sai? (Vhs da Retequattro; 10/1/02)
239 — Voglio la testa di Garcia dell’irriducibile Sam Peckinpah, USA 1974
Grande canto del cigno del poeta dei beautiful loser, Sam Peckinpah. Bennie è un gringo che sbarca il lunario in Messico. Ma un bel giorno viene a sapere che qualcuno vuole la testa di Alfredo Garcia e paga molto bene per averla. Allora si mette in caccia e scopre che Alfredo Garcia è già morto. Basta andare a prendersela questa benedetta testa che fa gola a tanti. Infatti Bennie la testa se la guadagna a suon di pistolettate. Alla fine andrà dal ricco possidente che voleva il macabro trofeo (Garcia era il padre di un nipotino inatteso): 16 morti — tra cui la sua amante — per un capriccio barbaro. Altro che soldi: a Bennie non gliene frega una minchia, arrivato al traguardo della sua esistenza preferisce fare giustizia e sacrificarsi. Ultima stilizzata strage e morte gloriosa, mentre la testa di Garcia tornerà al suo posto, a riposare in pace. Voglio la testa di Garcia è la storia di un uomo che trova il senso della sua vita in una disperata ricerca, senza senso alcuno, e quando se ne rende conto, decide che è meglio lasciar perdere, rispondendo a ideali più alti del denaro e della vendetta, anche a costo della propria vita. Warren Oates ha la faccia giusta, dolente, per il ruolo, ma anche i comprimari (i vari killer) sono tutti ben scelti. Soprattutto è splendida la compagna di Bennie, col destino scritto in faccia. Peckinpah orchestra le sue consuete sparatorie al rallenti, gioca con gli specchi e la musica e costruisce un film con qualche pausa, ma che alla fine risulta intenso e estremamente piacevole. Il Messico è una terra barbara, gli yankee degli sfruttatori, il denaro un dio maligno, i proiettili un’arma vendicatrice e la vita scorre tra ingiustizie, soprusi, rapporti di potere tra uomini e donne, ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, nord e latino americani. Voglio la testa di Garcia è un grido di libertà: Peckinpah era consapevolmente anarchico e libertario, non ideologico, ma con le idee ben chiare su dove fossero il bene e il male. E poi questo film è anche la metafora del suo lavoro di regista, che non si piega alle major, che non consegna la testa del cadavere, che rifiuta il denaro in cambio dello sporco lavoro e che magari assolda un killer per fare secco chi gli ha reso infernale la carriera. Gran bel film. (Vhs da Tele+; 18/1/02)
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(Continua — 19)