di Alberto Prunetti
[Ultima puntata di segnalazioni argentine tradotte in italiano. Per sapere quali sono i titoli argentini più interessanti pubblicati nel 2010, rimando a un articolo di Silvina Freira pubblicato su Pagina/12 e tradotto da Maria Rosaria Bucci sul blog L’Argentina] A.P.
Pablo Llonto, I mondiali della vergogna, Roma, Alegre, 2010, traduzione di Rossella Lauritano, 15 euro.
Da bambino per un po’ i miei miti sono stati un calciatore e un allenatore: Mario Kempes e “el flaco” Menotti. Nel 1978 avevo appena cinque anni, ma ancora per un paio di anni le loro figurine sono state le più scambiate nelle aule del biennio delle elementari. Capirete che quando mi sono trovato in mano questo saggio (e la prima volta è successo nella libreria delle Madres de Plaza de Mayo, editrici dell’originale), il mio interesse era più che giustificato. Anche per rimettere in discussione certe infatuazioni dell’infanzia. Il saggio di Pablo Llonto è un ottimo lavoro di storia del calcio applicata a quel caso abnorme e veramente vergognoso che è stato il mondiale argentino del ’78, che la dittatura ha utilizzato a fini propagandistici. Ci sono aneddoti, retroscena e pagine di storia, elaborate dall’autore con estrema perizia. E intrecci al solito inquietanti: quelli ad esempio tra Havelange, presidente per tanti anni della Fifa, e la giunta militare argentina. Oppure la storia della semifinale dell’Argentina col Perù (6 a 0 per i padroni di casa), quasi sicuramente comprata.
E la deperonizzazione delle leghe di calcio. E i dubbi etici sempre più smorzati di Menotti, legato al Partito comunista argentino, che seguì le orme dei suoi dirigenti politici (ricordiamo che il Pc durante la dittatura sostanzialmente non fu represso, al contrario dei giovani marxisti guevaristi, perché l’Argentina commerciava in grano con l’Urss). E le storie dei calciatori che giustificarono o che si scusarono tardi. E i prigionieri che continuavano a morire, a scomparire mentre tutti urlavano “Dale, dale Argentina”. E le famiglie dei desaparecidos spaccate, con le madri che piangevano in cucina o lottavano per strada e i padri in salotto che acclamavano la nazionale davanti al televisore. Un gran libro che lega calcio, storia della repressione e politica.
Carlos Trillo, Lucas Varel, L’eredità del colonnello, Coniglio Editore, 2009, traduzione di Giulia Barbera, 14 euro.
Uno splendido graphic novel dedicato a quanto di più biologicamente orrendo possa produrre una dittatura. Un uomo che ha la consistenza di un bambino psicolabile, figlio di un colonnello dell’epoca della giunta militare di Videla, morbosamente innamorato di una bambola che spera di acquistare per poterla sottoporre a quelle stesse torture che suo padre eseguiva sulle carni delle vittime dei sequestri di stato. Una storia malata, pesante, raccontata su tavole che esprimono tutto quanto di psicologicamente lordo i repressori degli anni dal 1976 al 1983 hanno saputo produrre. Il protagonista, Elvio Guastavino, a tratti fa pena e a tratti fa schifo. E’ il risultato di una sana famiglia cristiana di destra, con la madre dedita alla chiesa e alle faccende domestiche e il padre impegnato in torture e stupri, sotto la scorza della famiglia. Rispettosi di virtù domestiche, di patria e onore, hanno difeso dal comunismo le radici cristiane dell’occidente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, ormai: 30mila desaparecidos che ancora attendono giustizia.
Leopoldo Marechal, Adán Buenosayres, Firenze, Vallecchi, 2010, traduzione di Nicola Jacchia, 21 euro.
Una sorta di Ulisse joyciano trasportato sulle rive del Plata, con dosi di ironia a tratti devastanti (soprattutto quando il racconto si focalizza sul filosofo Samuel Tesler) e un discreto vitalismo che verrebbe da qualificare come futurista. Un romanzo che si dispiega per svariate centinaia di pagine seguendo le avventure ordinarie del protagonista, Adán Buenosayres, e della congrega di intellettuali squinternati che lo circondano, riconoscibili nei principali membri del gruppo martinfierrista (Borges, Scalabrini Ortiz, Fijman tra altri). Forse Marechal, interno al gruppo, li dipinge intenti in eccessi picareschi. Io alcuni di loro me li immagino molto più seriosi… ma anche nel Barrio norte la gioventù si permette un po’ di boheme. Marechal scrisse quest’opera prima dell’avvento al potere di Perón. Col peronismo la sua popolarità raggiunse il culmine, tanto che Marechal rivestì ruoli istituzionali (contrariamente a Borges che si ritrovò spostato dalla biblioteca nazionale a un istituto che si occupava di ispezioni nel mercato dei polli). In seguito al colpo di stato “gorilla” (antiperonista) tutto quello che con Perón ebbe fortuna venne condannato al dimenticatoio e così sulla stella di Marechal scese l’oblio, mentre Borges divenne — non senza meriti letterari — l’autore simbolo dell’Argentina. Strano il rapporto tra peronismo e letterati. Perón regalava al popolo mentre bastonava gli intellettuali, che gli si rivoltarono tutti contro. E se rari furono gli antiperonisti di sinistra e libertari (primo fra tutti Cortázar) molti di più furono gli antiperonisti di destra (quanto a certe posizioni di Sabato, a volte stento a capirle). Ci vorranno anni prima che dal peronismo emerga una nuova classe di intellettuali, ma il loro peronismo sarà un peronismo di sinistra, di seconda generazione, filtrato dall’esperienza montonera e debitore più a Guevara che a Perón (penso a autori come Gelman, Verbitsky, Walsh — quest’ultimo prima antiperonista e poi peronista di sinistra). Insomma, i tempi sono cambiati: non c’è più bisogno di essere un furioso antiperonista per aspirare a essere un grande scrittore argentino.
Forse anche per questo negli ultimi anni si è riscoperto il capolavoro di Marechal, col suo monumentale vitalismo, con la notte portegna, le farneticazioni filosofiche, le strade e i caffé di Buenos Aires, col suo futurismo australe. Per giunta la penna del suo creatore era ancora ignara, al momento della composizione, della rapida fortuna e del successivo declino del suo autore e del suo astro politico. Eppure è questo uno dei libri che hanno fatto la storia letteraria dell’Argentina.
Marino Magliani, La spiaggia dei cani romantici, Torino, Instar Libri, 2011, 14 euro.
Il libro di Marino Magliani chiude la serie di presentazioni di Argentinazo in maniera eccentrica. Perché contrariamente agli altri titoli, che erano opere provenienti dalla penna di autori argentini, La spiaggia dei cani romantici è l’opera di un autore italiano che è anche traduttore dallo spagnolo. Un autore che ha soggiornato a lungo in Argentina e in periodi complessi, quali l’epilogo della dittatura, e in luoghi eccentrici dai classici punti di attrazione per stranieri, afferenti a Buenos Aires, ovviamente, poi alla Patagonia o a certe enclave fricchettone nella provincia di Jujuy. Magliani ha trascorso molti anni fa sei mesi in una cittadina della Pampa, estrema provincia del mondo. A Lincoln. Ed è proprio qui che comincia il suo romanzo, diviso in quattro sezioni anche dal punto di vista geografico: la provincia argentina, la provincia ligure, la Costa brava (in particolare Lloret de Mar) e l’Olanda.
Non so se l’autore abbia inserito elementi autobiografici nel racconto, ma di certo ha soggiornato a lungo in tutti i luoghi che fanno da sfondo alla narrazione. Questo gli ha permesso di ambientare in maniera dettagliata, visiva, il suo romanzo, che ha tanti pregi. Innanzitutto linguistici, con un impasto magistralmente eseguito di modi di dire argentini intessuti come ciottoli nella malta dell’italiano per dare consistenza e tenuta al racconto. Un tessuto — che è operazione testuale per definizione — che si ripropone nella complessità del plot, nel mix tra vicende personali e sfondo storico e nel salto temporale su piani diversi, raccordati dal filo della memoria e della nostalgia.
Il romanzo di Magliani ha qualcosa di eccentrico infine nel suo interesse geografico verso la provincia: provincia argentina, immersa nella pampa, con nulla da fare e i chilometri tra una estancia e un’altra che si mangiano con una vecchia Ford. Provincia ligure, coi mestieri delle terrazze, gli olivi che chiedono azoto e l’edera che si attacca alla calce dei ruderi. Poi la provincia della Costa brava, coi suoi riti estivi, le scopate con le turiste, la droga, le case che ribollono di vita ma si svuotano all’inizio dell’autunno, quando non si può fare niente se non passeggiare sulla spiaggia deserta. E infine la provincia olandese, dove – si no me equivoco — oggi Marino è andato a vivere. Un libro spiazzante, che nelle ultime pagine fa provare quella sensazione di vuoto che provano i turisti quando tornano d’inverno nei luoghi delle loro vacanze estive. Toccante.