di Sergio Bologna
Dicono che nei negozi di alta gamma c’è grande richiesta di maglioncini di cashmere. Pare che furgoni della Caritas passino e ripassino da villozze e case padronali a ritirare smoking, completi gessati, cravatte a quintali. E’ il popolo dei padroncini, di seconda, terza generazione, giovanotti dal SUV facile, MBA nella tasca dei pantaloni, che aspira a diventare un popolo di Marchionne. Tocca a loro. Guadagneranno la prima pagina della “Padania” o magari del “Sole24” per esser riusciti a negoziare contratti aziendali al ribasso? Pochi però riusciranno a farsi notare da Obama. Se qualcuno ha delocalizzato è andato in Romania, Albania, Bielorussia, Bangladesh, Cina, Marocco. Tanto che viene spontaneo chiedersi: ma a chi abbasseranno il salario, sotto lo standard del contratto nazionale? Agli artigiani terzisti? Ai pochi operai rimasti? Oppure alle cosiddette funzioni elevate, a quelli che portano il colletto bianco? Mi sa che saranno questi i più bastonati. Come alla Fiat, visto da lontano (perché da vicino non si può) il nuovo piano industriale dovrebbe fare assunzioni tra gli operai, almeno per rimpiazzare i vecchi, quelli del “no”, ma tra gli impiegati, quelli del “sì”, dovrebbe fare un macello.
La contrattazione aziendale è stata per gli operai negli Anni 70 lo strumento più formidabile per riguadagnare potere in fabbrica. Al cambio di regime, 92/93, quando è nata la Seconda Repubblica, il livello decentrato del negoziato è stato subito abolito. Risultato: stagnazione dei salari, scomparsa della conflittualità. Nelle fabbriche è tornato il silenzio obbediente e, dopo la crisi, la paura. In questo corpo malato oggi si riapre la contrattazione. Si accettano scommesse su chi vincerà.
E se invece non finisse così? Se il “coraggio tunisino” sbarcasse a Mazara del Vallo e risalisse la Penisola? Se questo popolo di zombie lamentosi avesse un sussulto di vitalità? Se accadesse l’impossibile?
C’è un modo perché questo avvenga, un modo che possa tener lontano il merdaio della politica in questa fase di confusione, mimetismi, trasformismi, proliferazione di gruppazzi, partitazzi, movimentazzi?
Per me, è dedicare tutti gli sforzi del pensiero, dell’immaginazione, della cultura politica residua, della volontà, dell’astuzia a quell’enorme bacino di lavoro postfordista creato dalle politiche industriali miserabili, dalle politiche sociali di flessibilizzazione, ai milioni di cosiddetti “precari” o “atipici”, cosiddetti “giovani”, cosiddetti “sfortunati” o “fortunati”, cosiddetti “in fuga”, cosiddetti “generazione”.
Dedicarli alla marea di overeducated che l’Università sputa fuori ogni anno, a quelli che alimentano la “bolla formativa”, la più vergognosa delle tante “bolle”.
Per me, il modo giusto è dedicarsi semplicemente e banalmente al lavoro. Ma non perché il lavoro ci sia per tutti, no, perché il lavoro di tutti sia dignitoso, con un minimo di rispetto. Va cacciato il fantasma del working poor – prima di quello del disoccupato.
Perchè se uno non gli va di lavorare sempre, possa farlo e se s’arrangia da solo, non venga guardato come “anomalo”. Se il lavoro riesce a farsi rispettare, allora anche il cittadino è rispettato. Se il “nativo” sa farsi rispettare, starà meglio l’immigrato, non viceversa, lo volete capire?
Per me, il modo giusto è dedicarsi a quell’universo che è la rappresentazione vivente del fallimento del sindacalismo tradizionale. Perciò la FIOM, che di questo sindacalismo è figlia, scenda dal piedestallo degli eroi sconfitti e si confonda con questa moltitudine.
Quelli che si etichettano ancora come “intellettuali” e in genere preferiscono le pippe complicate, riflettano sulla “banalità del lavoro”: è uno dei temi più complessi del pensiero politico e sociale. C’è un sacco da fare anche per loro.