di Dziga Cacace
Prima il piacere, poi la moralità: devi applicare questo principio alla vita!
Ruth Gordon (Maude), Harold e Maude
215 — Goldeneye di Un Ennesimo Farabutto, Gran Bretagna/USA 1995
Goldeneye è un tardo 007, con il nostro eroe che si occupa (calunniosamente) della Russia in pieno sfacelo dopo la caduta dell’impero sovietico. Trafficanti mafiosi, via vai di faccendieri, legioni di prostitute, ex agenti del KGB che sfruttano la rendita di posizione, politici da operetta, il popolo bove e poi lui, l’agente con licenza d’uccidere che si comporta come un vero gentleman, non si sporca mai le mani, ha i capelli in ordine anche durante i corpo a corpo e, miracolo, riesce sempre ad averla vinta. Io, a ‘sto azzimato gagà del cazzo auguro un guerriero sandinista inferocito come un ghepardo che gli usi lunga quanto atroce violenza posteriore, cosicché James Bond paghi per trent’anni di panzane cinematografiche: questo Goldeneye di tale Martin Campbell, pellicola che gode insospettabilmente di un certo rispetto critico, è l’ennesima vaccata di rara fattura, in bilico tra l’inverosimile e il fantozziano, griffato da millanta marchi pubblicitari, fotografato in posti à la page ed esotici, con il consueto britannico rimpianto per il bel mondo che fu. Ma ve possino…
James Bond guida l’auto sportiva, gioca al casinò e seduce col suo sguardo lesso torme di donne pronte a concedersi immantinente. In alcova l’agente dà poi britanniche dimostrazioni amatorie senza stillare una sola goccia di sudore plebeo. In mano al mio mitico sandinista non potrà radersi né docciarsi, dovrà mangiare fagioli feculenti, subirà ripetuti amori impropri e mai otterrà un cambio di biancheria pulita. Io ODIO James Bond e il vero fallimento del Comunismo è che questo cazzone con la macchina truccata passasse allora per eroe e prenda ancor oggi per il naso tanti spettatori. Vedi questo film in cui ci si fa beffe dell’impero sovietico (nel generale quadro caricaturale) e ti auguri una rivoluzione d’Ottobre mondiale che spazzi via questo cinema indecente, per famiglie, britannicamente democristiano, alimentatore di falsi luoghi comuni etnici e propagatore di uno stile di vita abietto. E ora, tutti in coro: Lenin Mao Ho Chi Minh! Lenin Mao Ho Chi Minh! (Diretta RaiTre; 22/11/01)
216 — Harold e Maude dell’incompreso Hal Ashby, USA 1972
RaiUno me lo trasmette tra capo e collo e io me lo registro subito, figurati. Non lo vedo da una decina d’anni, da quando Tele+ in fase sperimentale lo mandava in onda tutto il giorno (ricordo anche Uomini contro e Il grande freddo già criptato — e lo vedevo lo stesso, mi bastava il sonoro —, ma è un’altra storia). Comunque Harold e Maude è un film che amai tantissimo e che, rivisto oggi, continua a commuovermi, dolce e poetico. Se fossi storto lo troverei un film dal cinismo a buon mercato e in fondo dolciastro, ma invece no, tiè. Harold è orfano di padre e vive con la madre in una ricchissima magione. Upper class dalla vita dorata, con rapporti artificiosi e senza reali contatti umani. Harold si diverte solo andando ai funerali e per attirare l’attenzione della madre occupata da mille eventi mondani inscena continui finti suicidi. Ma un giorno, all’ennesima esequie, nota un’arzilla vecchietta: Maude. I due fanno conoscenza e coppia (…) e l’anziana insegna al giovane nichilista il valore della vita e della libertà, infatti (occhio, spoilerone tipo “Darth Vader è il papà di Luke Skywalker”) Maude ha anche deciso quando dovrà finirla e il giorno del suo ottantesimo compleanno si suicida serenamente. Harold e Maude ha tempi narrativi che oggi stupiscono: è lento, calibrato, costruito pezzo a pezzo e ha, d’altro canto, una regia che questo ritmo sa assecondarlo con gusto. Ogni scena contribuisce alla lenta crescita e a quell’atmosfera sospesa che tanto identifica il film. È un apologo sulla libertà che per contestare lo stato delle cose (la società classista, dio, patria e famiglia) sceglie una via mediana, buddhista, fiabesca, non radicale. Il linguaggio si adegua e alterna momenti surreali ad altri più piatti, ma il risultato, alla fine, c’è. Harold e Maude continua a essere un mio piccolo cult, impreziosito anche dalle canzoni di Cat Stevens prima che uscisse di testa e chiedesse quella di Salman Rushdie. E poi Hal Ashby m’è simpatico perché è morto male, rifiutato da Hollywood. Oh: è uno che ha filmato i Rolling Stones in tour ed è finito in overdose lui, non Keith Richards. (Vhs da RaiUno; 26/11/01)
217 — The Rocky Horror Picture Show dell’adorabilmente impreciso Jim Sharman, Gran Bretagna 1975
Continuo il recupero di brandelli della mia memoria cinematografica e stasera tocca a uno di quei film epocali, che ti formano, nel bene e nel male. Visto la prima volta nel 1986, il Rocky Horror m’impressionò moltissimo. Poi, rivisto, m’era sembrato un po’ una pagliacciata, buttato via, sopravvalutato. E ora, invece, ne riconosco la grandezza, magari casuale, ma non so. La messa in scena è caotica e ricchissima, le musiche sono travolgenti, fuori di testa la trama: un tempo non potevo cogliere la marea di riferimenti culturali, se non confusamente. Oggi posso apprezzarne anche il lato intellettuale (o fare finta: insomma, sono pur sempre un architetto, eh?) ed è evidente di come il film funzioni a diversi livelli, alti e bassi. Nel senso che continua a divertirmi sia la storia, sia i testi delle canzoni, sia la carica energetica del rock’n’roll profuso a piene mani, ma posso anche apprezzare il geniale discorso sul camp, sul glam rock, sull’arte pop e sul postmoderno. Chissà quanto tutto ciò fosse meditato o puro frutto della temperie culturale dell’epoca. La storia è nota e, del resto, importa poco: in Frank’n’Furter (il bravissimo Tim Curry) confluiscono i vezzi, le attitudini, l’immagine del glam contemporaneo (da Bowie a Bolan). E nel glam stesso si addensava tutto un recupero delle icone hollywoodiane e del cinema di serie B, dell’immaginario gay, della teatralità sfrenata del primo rock’n’roll, della libertà artistica degli anni Sessanta, del riutilizzo provocatorio dell’arte “alta”. Nel Rocky Horror Picture Show ci sono, fianco a fianco, American Gothic, La moglie di Frankenstein, La madre di Whistler, il Titanic, Michelangelo e King Kong, la Gioconda in bianco e nero, la scultura classica greca rivisitata con unghie laccate e l’iperrealismo di Segal, la pulp fiction più becera e la tradizione letteraria ottocentesca. Ha cali di tensione, il film, okay, i raccordi spesso non sono chiari, alcune scene sono buttate lì ed è pieno di bloopers; soprattutto c’è una partenza al fulmicotone, talmente esuberante che il film sembra quasi stopparsi e incedere a strattoni da allora in poi. Ma questa indeterminatezza ben si concilia con lo spirito cialtrone del film: prendersi sul serio, fare tutto a puntino, non tornerebbe, non sarebbe coerente. Sulla musica che dire? Beh, che chi non ha l’irresistibile impulso ad alzarsi ad agitare il bacino è morto e sepolto, perché è una geniale sintesi di rock dei primordi, esigenze di racconto e score classici da musical. C’è Meat Loaf, tra gli altri, e viene preso a picconate, facendogli pagare in anticipo Bat Out Of Hell (che però, in fondo, è una zarrata di gusto, confesso). (Vhs da Tele+; 27/11/01)
221 — No Man’s Land di Danis Tanovic, Bosnia/Italia/Francia/Gran Bretagna 2001
Sabato di parziale lavoro e di una certa stanchezza. Si opta per un cinema tranquillo e non affollato; al programma si uniscono Riccardo, Simona O. e la cugina Alessandra. Il film è il troppe volte rimandato No Man’s Land che in generale soddisfa tutti. Si parla della guerra di Bosnia, una guerra già bella e dimenticata, dal momento che ce n’è un’altra più attuale. Tanovic mette in scena la follia “etnica”: un bosniaco e un serbo rimangono intrappolati dentro una trincea nella terra di nessuno, tra i due fronti contrapposti. E con loro c’è un disgraziato che, creduto morto, è stato adagiato su una micidiale mina a rimbalzo, cosa che gli impedisce ogni movimento e lo condanna a morte sicura. L’Unprofor non può e non vuole intervenire, l’informazione prova a imbastire la storia a effetto, i due nemici non vogliono cedere. Spostando il disgraziato sulla mina, verrebbero uccisi tutti e allora e meglio lasciarlo lì, al suo destino, com’è stato con la Jugoslavia, nazione in bilico su una carica esplosiva. La logica europea e delle Nazioni Unite è messa sotto accusa, come l’interesse morboso dei media, ma il film non vuole essere un semplice o partigiano proclama politico; sceglie invece una modalità grottesca per raccontare metaforicamente come si lascia accadere una guerra e possibilmente si guadagnino anche due soldini (vedi la questione kosovara e l’improvvisa irrinunciabile spinta a difendere gli albanesi che qui trattiamo abitualmente da tagliagole). Il film è messo in scena con gusto pur nella semplicità imposta dal copione. I dialoghi sono belli e ficcanti e gli attori reggono perfettamente la parte. Quasi totale assenza di musica, ragioni degli uni e degli altri volutamente non spiegate, forte partecipazione emotiva. Bellino. (Cinema Ariosto, Milano; 1/12/01)
222 — Apocalypse Now Redux del titanico Francis Ford Coppola, USA 1979/2001
Allora: alle sette e mezza sono in piazza del Duomo a gelarmi le chiappe, indeciso su quale film vedermi. Chiamo Pier e mando un messaggio all’Ale. Il primo accetta e mi raggiunge, la seconda rimanda. Poi mi chiama Leo Gullotta (per lavoro, non che lo faccia abitualmente; lo scrivo perché di solito gli attori lasciano queste incombenze a dei valletti e la cosa mi stupisce, al punto che sto per chiedergli se viene al cinema anche lui). Comunque abbiamo deciso per il film di Coppola, ridistribuito in sala in una versione accresciuta di 53 minuti. Da Burger King, in attesa di Pier, mi sbafo un Whopper King con patatine e Coca gigante, giusto per predispormi alla traversata nella giungla. Arriva Pier e anche lui non sa dire di no alle tentazioni lussuriose di questi stramaledetti colonizzatori, pure del nostro palato. Lui si piglia anche i letali onion rings: aria e cipolla fritti in deliziosa panatura. Il cinema è l’Odeon, l’elegante sala 2. Prima di entrare mi faccio prendere da un ulteriore attacco di fame capitalista e mi compro dei pop-corn e un’altra Coca extra large. Se mi scappa un rutto lo rilevano coi sismografi dell’Etna. In sala poco pubblico, molti veterani, qualche novellino che parla e tira su col naso. Ma Pier e io siamo troppo presi dal film per metterci a litigare. Probabilmente dei minuti aggiunti non c’era grande bisogno. Direi che c’è una sola scena veramente straordinaria, quando – risalendo il fiume che porterà Willard da Kurtz — vengono incontrati i coloni francesi che non vogliono lasciare il Vietnam. Si materializzano come fantasmi nella nebbia ed è grandissimo cinema, assolutamente. Per il resto, invece, le due scene aggiunte (per la cronaca: sesso con le playmate in cambio di carburante e una cena con i coloni francesi) non aggiungono molto, anzi mi sembra che appesantiscano il film che, di suo, era già lunghetto. Ma lo dico solo perché sono un cagacazzo. Apocalypse Now era e rimane un capolavoro, Redux o meno. È un film titanico, di quando si faceva ancora il cinema rischiando per intelligenza e coraggio folle, non per furbizia e calcolo ragionieristico. Penso a un altro film immenso come Novecento e non è un caso: Coppola partì per le Filippine promettendo a Bertolucci di girare un metro di pellicola più di lui: altri tempi e altre teste. Il film: le prime due ore sono incredibili, non saprei come definirle. Vieni travolto dalla follia della guerra, dall’incisività dei personaggi, dalla cura della messa in scena, dalla ricchezza di particolari, dalla fotografia splendida. Poi c’è qualche alto e basso, fino all’emblematico finale. Io, che l’avevo visto sempre in tivù e nella versione col finale “distruttivo”, sono rimasto incantato dall’utilizzo della luce di Storaro; una fotografia unica e riconoscibile. Poi c’è la musica, genialmente piegata alle esigenze narrative. La scena iniziale con The End cantata dall’enfio Morrison è perfetta, ma che dire della potenza sinistra della Cavalcata delle Valchirie? (Woody Allen: “Mi piace Wagner, ma quando lo ascolto poi mi scappa di invadere la Polonia!”). Coppola, che mai più riuscirà a produrre capolavori (qualche bel film, alcune minchiate) ci racconta con sguardo lucido e disperante la follia della guerra, della prepotenza occidentale, della perdita di umanità, della realtà distorta che ci circonda. Apocalypse Now è il Vietnam, sí, ma è soprattutto un bad trip doloroso che, alla luce di quello che sta accadendo adesso (e accade senza soluzione di continuità da allora), ha significati che trascendono gli episodi raccontati. Ne Il cacciatore il dramma era quotidiano e umano, qui c’è l’orrore assoluto della guerra, inarrestabile, metafisico. Chissà come viene percepito negli USA, ora. (Cinema Odeon, Milano; 3/12/01)
223 — La promessa mantenuta da Sean Penn, USA 2001
Per Sant’Ambrogio la città è invasa da bancarelle piene di vaccate e io mi sento il colonnello Kilgore, con strane voglie di passate di napalm sulla metropoli: i milanesi comprano grassi e soddisfatti, io mi godo i primi tre giorni di riposo da tempo immemorabile. E la sera, con Matteo, Nuria e Barbara andiamo a vederci questo film tratto da un romanzo di Dürrenmatt, autore sempre amato. Purtroppo so già l’epilogo di questo giallo straziante e anche se Penn elabora la materia letteraria ci ha già pensato Riccardo a raccontarmi tutto per filo e per segno, perché indignato dal mancato finale. La vicenda: Jerry (Nicholson, spaziale) è un poliziotto in pensione che ha promesso ai genitori di una bimba violentata e massacrata di prendere il colpevole. Viene catturato un sospetto che si suicida e il caso viene chiuso. Ma Jerry non ci sta, sente che non è quello il colpevole. E il fiuto non sbaglia. L’inchiesta diventerà un ossessione, con i vecchi colleghi preoccupati della salute del pensionato e scettici delle sue scoperte. Jerry trova una compagna con figlia e usa quest’ultima come esca, ma quando la trappola è pronta, il vero colpevole ha un incidente e nessuno saprà che Jerry aveva ragione: passerà solo per un monomaniaco ubriacone. Amarissimo e sferzante, La promessa ha fatto impazzire quel cervello troppo razionale di Riccardo per cui tutto deve sempre tornare. E invece il bello del romanzo di Dürrenmatt e del film di Penn è che il crimine non paga (o, se volete, paga nella maniera meno logica) e la giustizia rimane ancorata al caso. La riduzione dal romanzo è intelligente (l’azione si sposta dalla Svizzera al Nevada), gli attori bravissimi (ci sono anche Vanessa Redgrave, Harry Dean Stanton, Mickey Rourke e Robin Wright Penn) e la regia sicura, capace di rendere perfettamente il travaglio interiore del protagonista, combattuto tra i nuovi sinceri affetti e l’ossessione per la giustizia, ossessione che rovinerà la sua vita. Bello e Riccardo deve pensarci su. Eh. (Cinema Brera, Milano; 7/12/01)
224 —Il patto dei lupi dell’inconcludente — peccato! — Christophe Gans, Francia 2001
Un’assoluta tavanata galattica o un’operina di gusto? Sono un po’ frastornato, perché siamo andati al cinema consci del pericolo: sulle riviste ne parlano così cosà, chi lo stronca (ma i critici sono dei vecchi rincoglioniti altezzosi) e chi ne esalta alcune qualità (ma gli altri critici sono dei nerd segaioli rimbambiti da troppe vhs). Questo Patto dei lupi poteva essere in effetti un gran film se solo le buone idee non fossero state bruciate tutte nei primi minuti, quando si dà il quadro generale: metà Settecento, nelle lande del Gévaudan imperversa una bestia assassina che fa gran strage di contadini. Un medico di corte libertino arriva col suo aiutante irochese per risolvere il caso. Amori, lotte, intrighi, incesti, una vaga coscienza ecologica e animalista, sapienza indiana, fiducia nei lumi (o no?) e bagliori rivoluzionari all’orizzonte. Ne Il patto dei lupi c’è tutto questo, orchestrato un po’ confusamente. Forse è uno dei pregi (l’irruenza della messa in scena, il non porsi limiti), ma il film dura due ore e venti, porca eva, e sinceramente non ti finisce più. Cazzo: Gans, ma la sintesi? Stringevi il plot e ci saremmo goduti il giallo e le scene d’azione supergiovani (rallenti e accelerazioni, montaggio subliminale, lotta coreografata à la Hong Kong). Invece, così, subiamo disastri quando la trama si fa riflessiva e imbastisce il feuilleton: i dialoghi risultano grotteschi e la recitazione è spesso amatoriale. Il personaggio principale sembra David Lee Roth dei Van Halen: finché volteggia e mena nessun problema, ma quando spiccica due parole, ahia. Fotografia ricca, montaggio nervoso, scene sontuose, Monica Bellucci bella come la Venere di Milo e plastica tale e quale, in più spesso nuda così non ti rendi conto che c’entra con la recitazione come i cavoli a merenda (che poi magari, son buoni… è una faccenda che andrebbe verificata, questa: se i cavoli li fai fini, li sbollenti con acqua e aceto e ci accompagni un grasso hot dog, lubrificando con senape a grani grossi… vabbeh). Alla fine, comunque, Il patto dei lupi è zeppo di roba ma paradossalmente un po’ misero come risultato finale. O forse è la delusione mia che volevo ardentemente un film popolare e bello. Mentre è solo popolare, ecco: in Francia ha fatto sfracelli e qui da noi non va male. Però, peccato. (Cinema Orfeo, Milano; 8/12/01)
225 — Ogni maledetta domenica scolpito da Oliver Stone, USA 1999
Lo sapevo fin troppo bene, perché con Stone non si sbaglia. Questo Ogni maledetta domenica doveva essere stereotipato, prevedibile e d’altro canto messo in scena da dio. E così è. Solo che chi accusa il film perde di vista una cosa: Ogni maledetta domenica è estremamente divertente. Si parla di football americano e di una squadra in crisi, in bilico tra un passato di successi e un presente mediocre. Tutti i personaggi sono sbozzati nel marmo, con le caratteristiche comportamentali dipinte in faccia: c’è la padrona cinica e disposta a tutto, c’è il vecchio allenatore onesto e serio, c’è l’anziano giocatore disposto al sacrificio per la squadra, c’è la matricola vogliosa di riscatto. E poi il medico corrotto e quello buono, il vice allenatore che lavora solo sul computer e così via (non dimenticando l’odioso cronista televisivo). C’è tutto quello che sarebbe lecito aspettarsi anche in termini narrativi, le dinamiche interpersonali, i conflitti. E va bene, però è tutto messo in scena con partecipazione superomistica ed entusiasmo. E’ il cinema capitalistico e Oliver, vecchio compagno stradrogato, ci gioca. Stone ha tanti difetti e avercelo ospite a cena deve essere imbarazzante, ma sa fare spettacolo e coinvolgerti e anche stavolta non delude, infatti il film dura due ore e mezza e non le senti per niente: preso come sei dalla vicenda, te la bevi come un gutturnio novello e bicchiere dopo bicchiere te ne ubriachi felicemente. Gli attori sono tutti di gran classe (Wood, Pacino, perfino la Diaz) e ben diretti, notevoli la musica e il montaggio. Insomma: bella confezione senza grandi contenuti, ma mi andava un film così e me lo sono goduto. Super impegnati astenersi. (Vhs da Tele+; 9/12/01)
226 — Le nozze di, sia detto, uno stracciacoglioni, Francia/Russia 2000
Questo Le nozze di Pavel Lounguine è una gran rottura di coglioni. Avrà pure vinto a Cannes un premio, ma non fatevi pigliare per il naso. Dunque: Russia nel caos politico ed economico, mafia, nostalgie, affetti contrastati. Tania torna al villaggio da Mosca, dove presumibilmente ha fatto cose turche, e lui, Mishka, il buon minatore puro di cuore, la accoglie e se la sposa, il ciula. E se poi viene fuori che c’è già un bimbo? Allegria! Tanto meglio! A sfrecciare per la steppa sulla moto, liberi! …mah! E io dovrei credere a questa cosa? Alle fiabe? Ma andate a cagare! Lo voglio vedere, io, uno che passa la giornata sottoterra a respirare carbone, come reagisce quando gli torna dalla grande città la fidanzata gravida. Ma le cambia i connotati col martello pneumatico, ecco cosa fa, il minatore, dài! Ma siamo scemi? Cosa mi significa, cosa mi vuol dire questo ritrattino della periferia del collassato impero, dove ci si arrangia e si convive con la prepotenza della polizia o della mafia? Mi fa ridere, mi coinvolge, m’intenerisce, mi fa pensare? No, mi fa incazzare! Le nozze non lascia nulla: come Luna Papa, è l’ennesimo calco mal cagato di Kusturica, senza le sue invenzioni o la sua musicalità. Tutto sopra le righe, ma con un’attinenza al reale che sfocia nel grottesco. Kusturica costruisce personaggi folli e visionari, ma coerenti; qui, Lounguine firma il prodotto da esportazione, coi bravi attori (premiati), che per i motivi succitati dovrebbe piacerci e darci un po’ di sapori esotici, ma che non ha né fantasia né cuore. Maledizione ai produttori, agli sceneggiatori e al regista, che hanno visto Gatto nero, gatto bianco e hanno pensato: basta fare un po’ di casino a Est ed è fatta. No! (Vhs da Tele+; 15/12/01)
227 — Alta fedeltà dell’insopportabile Stephen Frears, USA 2000
Pier Paolo ha registrato Alta fedeltà e non lo vuole guardare. Se lo tiene lì, per vederlo un giorno che è già incazzato di suo, per poter rovesciare sul film la rabbia accumulata. E ha maledettamente ragione, perché Alta fedeltà prende ispirazione da un libro fortunato, furbetto ma con una sua dignità, e ne fa strame. Una riduzione cinematografica umiliante: il protagonista è stato abbandonato dalla ragazza e ci rende edotti del suo dolore che attutisce con occasionali avventure sentimentali e al suono della musica che ama. Nel libro il nostro eroe viveva a Londra, era appassionato di rhythm and blues e tributava il giusto riconoscimento all’intelligenza chitarristica e compositiva di Richard Thompson (penso di essere l’unico italiano a possedere tutti i dischi di Thompson: ma non è grave, è grave che voi non ne abbiate neanche uno!). Qui il protagonista vive invece a Chicago (la capitale del blues elettrico) e… cita solo musicaccia new wave degli anni Ottanta! Ma siamo matti?!? O quel cialtrone di Stephen Frears è stato consigliato dagli addetti del marketing che gli hanno ricordato che va compiaciuto il pubblico trentenne cresciuto durante la Me Decade? In più il protagonista ha la faccia da cazzo odiosa e saccente di John Cusack, che s’è pure scritto la sceneggiatura e ha prodotto il film. Cioè: me la suono e me la canto. Male però, me la canto, da schifo proprio. Infatti il personaggio ci trascina nel suo ipocrita piagnisteo e tu ti fai subito l’idea che sia uno stronzo immaturo, egoista e infantile. Nel libro non c’era questa autocommiserazione, anzi l’ironia equilibrava il punto di vista dell’io narrante. Qui, invece, ci han messo pure il lieto fine. Tutto questo Alta fedeltà è percorso dall’insistente domanda: perché mi lasciano tutte? Ma perché sei un rompicoglioni raro. Hai lo sguardo bollito, il capello unto, l’atteggiamento scoliotico, nessun appeal e in più ti credi interessante. E poi: perché la storia diventa americana? Perché diventa così misogina? Perché perde la caratteristica principale del libro, la musicalità, pur potendo usare la musica? Le uniche cose decenti del film sono l’apparizione folgorante di Lisa Bonet (ah!) e la descrizione del clima del negozio di dischi. Chi vende dischi è un musicista fallito o aspirante tale, idiosincratico nei gusti e che critica le scelte dei clienti in modo sgarbato e, quanto peggio tratta l’acquirente, tanto più acquisisce credito. L’ho verificato di persona a Genova con Pink Moon e Disco Club e, qui a Milano, con Buscemi. Siccome ho anch’io il mio carattere merdoso è sempre finita che con ‘sta gente ci andavo pure d’accordo, ma questa è un’altra storia. C’è anche un altro momento veritiero (ma il merito è di Hornby): fare una cassetta musicale è un atto d’amore. Concordo. Per il resto si salva poco e quanto alla musica colpiscono solo l’irruzione in colonna sonora di Katrina and the Waves (I’m Walking On Sunshine, che mi piaceva perché sono un babbeo anch’io) e quella visiva di Bruce Springsteen, che dispensa consigli da macho su una base blues. Sarà che amo il Boss, ma mi sembra l’unico momento pervaso d’ironia. In ogni caso Alta fedeltà è un brutto film, ma brutto brutto, e smettiamola di dire che Stephen Frears sia un autore in virtù di menate allucinanti come Le relazioni pericolose. Eh. (Vhs da Tele+; 19/12/01)
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(Continua — 18)