di Walter Catalano
Difficile spiegare l’innegabile sfortuna nel nostro paese del più grande narratore fantastico europeo non anglofono: il belga Raymond Jean Marie De Kremer, nato a Gand nel 1887 e morto nella stessa città delle Fiandre nel 1964 dopo un’intensa attività letteraria bilingue- francese e fiammingo – vergata sotto vari pseudonimi i più noti dei quali sono Jean Ray e John Flanders. La sua prima apparizione in Italia è del 1963, quando Baldini&Castoldi traduce sotto il titolo di 25 racconti neri e fantastici, l’antologia Les 25 meilleures histoires noires et fantastiques che nel 1961 aveva rivelato la sua opera al pubblico francese il quale aveva accolto entusiasticamente questo outsider di provincia, riservandogli un onorevole scranno a fianco di Lovecraft nel pantheon dei grandi del macabro e del weird. Benchè questa antologia di racconti contenesse tutto il meglio allora noto delle sue storie, selezionate in prima persona dall’autore stesso, da noi invece nessuno ci fece caso: mentre H.P. Lovecraft, introdotto più o meno in quegli anni da Fruttero e Lucentini nelle antologie Storie di fantasmi e I mostri all’angolo della strada, spiccava il suo primo balzo verso la gloria, Jean Ray restava un nome del tutto sconosciuto.
Nel 1966 ci riproverà Sugar, nella collana Week-end dedicata alla narrativa popolare, con il suo romanzo più famoso, Malpertuis, uscito in originale nel 1943: la sorte sarà la stessa. Nei decenni successivi il visionario belga cade da noi nel più completo oblio; a eccezione di qualche episodico racconto disperso in riviste o raccolte minori di più autori, la sua ragguardevole opera viene regolarmente ignorata, proprio mentre Oltralpe il suo nome si consolida invece sempre di più nel numero dei grandi; numerosi nuovi racconti o romanzi della sua sterminata produzione vengono scoperti o tradotti dal fiammingo in francese; registi di grido come Alain Resnais o Harry Kumel realizzano o tentano di realizzare trasposizioni cinematografiche, in verità non sempre riuscite, dei suoi testi e un’ampia saggistica su di lui si diffonde anche oltre l’ambito della narrativa di genere. Dopo un ennesimo, sfortunato, tentativo di Mondadori di affiancare a Urania una collana di romanzi horror che ripropone nel 1990 Malpertuis, il nome di Jean Ray viene nuovamente archiviato e al lettore italiano non resterà che imparare il francese o rassegnarsi ad aspettare un indefinito futuro per apprezzare questo autore.
Solo nel 2007, infatti, la raccolta La casa stregata di Fulham Road e altri orrori, edita da Profondo Rosso, presenta finalmente, oltre ad alcuni racconti orrorifici, una breve scelta delle storie poliziesche di Harry Dickson – lo Sherlock Holmes americano — che Ray avrebbe dovuto tradurre dall’inglese e che invece usava riscrivere di sana pianta; e nel settembre di quest’anno la piccola ma agguerrita casa editrice milanese Edizioni Hypnos – specializzata nella riscoperta dei grandi del macabro (la recente ristampa de Il Re in Giallo di Robert W. Chambers; l’annunciato volume dei racconti di Fitz James O’Brien; l’interessante rivista “Hypnos Magazine” di cui è appena uscito il n. 7 – pubblica Il Gran Notturno, primo di due progettati volumi che raccolgano il meglio della produzione dello scrittore, selezionata con l’ausilio della Amicale Jean Ray, l’associazione belga che si prefigge di salvaguardare e diffondere l’opera del maestro di Gand.
Iniziative assai lodevoli entrambe, perché finalmente permettono di inquadrare questo autore importante e ingiustamente trascurato con un accurato profilo bio-bibliografico, una selezione filologica dei testi e un inquadramento critico di tutto rispetto. Speriamo che questa volta il vecchio pirata delle Fiandre possa farcela a conquistare un largo pubblico anche da noi, e che romanzi affascinanti come Malpertuis o La cité de l’indicible peur, possano avere finalmente una degna traduzione e ottenere il riconoscimento che meritano anche presso i lettori italiani.
Jean Ray è stato uno scrittore davvero importante per la narrativa di genere europea e, nel campo del fantastico, ha una statura non inferiore a quella di indiscussi maestri del weird anglosassone come Algernon Blackwood, William Hope Hodgson (al quale lo accumunano le numerose e raccapriccianti ghost stories di ambientazione marinaresca), Arthur Machen o M. R. James. Il paragone con Lovecraft è, a mio avviso, meno pertinente, sia come stile che come tematiche: è però vero che, come lo scrittore di Providence, anche il Fiammingo ebbe una capacità affabulatoria ossessiva in cui sogno e realtà erano assolutamente intercambiabili e le possibilità allucinatorie legate alla trasfigurazione fantastica dei dati minutamente reali dell’ambiente virtualmente infinite. Ray non ebbe interessi cosmici, extraterrestri, non si interessò di fantascienza: la sua concezione del gotico era più tradizionale di quella lovecraftiana, ma, nello stesso tempo, anch’egli fu profondamente innovativo nell’attenzione minuziosa per i paesaggi, gli ambienti, le psicologie dei personaggi.
I suoi racconti sono profondamente radicati nella terra di Bruegel e di Bosch. Come nelle visioni dei due grandi pittori l’incubo si intreccia strettamente alla vita ordinaria, il mostruoso e il demoniaco sono solo una deformazione prospettica del banale e del familiare. Così sonnacchiose cittadine del nord Europa, vicoli e taverne prospicienti a canali nebbiosi, bottegucce dalle insegne liberty, paesaggi sfumati cari a certa letteratura decadente e suoi derivati — da Bruges la morta di Rodenbach, fino ai noir di Georges Simenon — si animano di presenze fantomatiche e terrorizzanti. Le grottesche delle cattedrali gotiche scendono a camminare in mezzo agli uomini e si confondono con essi; impiegatucci, bibliotecarie avvizzite, droghieri appesantiti dalle troppe birre scolate, marinai appesi alla loro pipa di radica; in mezzo a questi personaggi quotidiani possono nascondersi perfino gli esiliati dei dell’Olimpo (per esempio in Malpertuis).
Sebbene sprofondato in un immaginario assolutamente europeo (e assolutamente fiammingo, con qualche episodica escursione londinese), Jean Ray ebbe l’onore di essere pubblicato in inglese, sotto lo pseudonimo di John Flanders, sui pulp americani: “Weird Tales” nel 1934 e 1935 (i racconti Nude with a dagger; The Graveyard Duchess; The Aztec Ring; The mistery of the last guest); “Terror Tales” nel 1935 (If thy right hand offend thee) e nel 1941 ancora su un’antologia di racconti ripresi da “Weird Tales”: 25 Modern Stories of Mistery and Imagination). La sua produzione, in fiammingo e in francese, è stata sconfinata: libri per ragazzi, cronache giornalistiche, poesie, testi per canzoni, sceneggiature per fumetti, scrive perfino un’agiografia di San Nicola (perché ovviamente è la figura fantomatica di Babbo Natale che lo interessa…); e la sua capacità affabulatoria è tale che trasforma se stesso con la fantasia in un personaggio dei suoi racconti. Nipote di un’indiana sioux; pirata e contrabbandiere durante il Proibizionismo; marinaio che ha fatto sette volte il giro del mondo; domatore di leoni e addomesticatore di tarantole; perseguitato da un suo fantasma personale, “l’omino col fazzoletto rosso”, che gli appare in certi momenti particolari come uno spirito guida.
In realtà la sua vita è stata piuttosto banale dedita interamente alla scrittura. L’unica avventura, o meglio, disavventura che pare autentica è il suo tentativo di organizzare nel 1924 — quando interrompe temporaneamente tutte le collaborazioni letterarie — un affare di contrabbando d’alcool negli Stati Uniti. L’appropriazione indebita del denaro da investire nell’affare gli costerà la condanna a quattro anni di prigione nel 1926: per qualche tempo non si firmerà più Jean Ray.
Molte sono le opere di quest’uomo dalla fantasia dirompente che varrebbe la pena leggere. Primo fra tutti il capolavoro Malpertuis, in cui il classico tema della casa infestata viene sovvertito e rinnovato: la dimora maledetta non è tanto abitacolo di fantasmi quanto ospizio di dei in rottamazione (credo che il pur grande Neil Gaiman debba molto a questa intuizione). Poi Il Gran Notturno, racconto straordinario in cui tutti i suoi temi caratteristici sono sintetizzati: la prossimità e l’intercambiabilità, del quotidiano e dell’altrove, l’ineluttabilità del fato, un cattolicissimo senso di colpa, la cognizione profonda dell’arbitrarietà e relatività dei limiti del tempo e dello spazio, l’ironia e la pietà per mostri e vittime; il romanzo La cité de l’indicible peur, a metà strada fra romanzo poliziesco e horror sovrannaturale (come molte avventure del detective Harry Dickson); Les contes du whisky, testimonianza della fittizia o reale esperienza di contrabbandiere dello scrittore e ricca di memorabili gotici marinareschi sulla falsariga di Hodgson; Les derniers contes de Canterbury, ripresa delle atmosfere di Chaucer, in cui oltre le barriere del tempo e dello spazio, viventi e larve si incontrano per narrarsi le loro storie; Les contes noirs du golf, dove, quasi per vendetta, lo scrittore ordisce una serie di perfide favole nere sul gioco del golf , “le plus détestable que le monde ait porté”.
Mi fermo qui: l’elenco risulterebbe troppo lungo. Degno conterraneo dei torbidi simbolisti belgi, come Fernand Khnopff, Jean Delville, Félicien Rops, o dei loro altrettanto tortuosi successori surrealisti, come Paul Delvaux e René Magritte, depositario in letteratura di una tradizione soprattutto figurativa, Jean Ray si erge come un gigante sul lato oscuro dell’immaginazione europea. ascio le parole conclusive a un altro interessante scrittore fiammingo, anche lui purtroppo del tutto misconosciuto da noi, Thomas Owen, considerato continuatore e discepolo dell’”Edgar Poe belga”: “Jean Ray pratica un fantastico dall’emozione forte. Con lui, il mostro fracassa la porta. Con me invece, il mostro soffia un po’ di fumo attraverso il buco della serratura. Lui fa irruzione nel quotidiano; io mi ci insinuo in modo sornione… In Jean Ray ci sono davvero pochi terrori interiori; il suo terrore è sempre legato ad avvenimenti straordinari, inesplicabili, che coinvolgono l’uomo ma che vengono da fuori. Io penso invece che la paura nasca molto più nell’interno del personaggio, perché è lo stesso personaggio che conferisce ad avvenimenti infimi e quotidiani un’importanza che non è rivelata che a lui e che io rivelo al lettore… In Jean Ray non c’è mai solo il fantastico, ma anche l’avventura, come già l’avevo trovata in Blaise Cendrars. Fra Blaise Cendrars e Jean Ray, ci sono per me delle affinità: un certo gusto dell’affabulazione — e della menzogna d’altronde — un grande calore nel gusto dell’avventura e del rischio”.