di Federico Mastrogiovanni
Tre. Illusioni di classe.
Se i legami di amicizia o sentimentali non reggono alle prove della realtà, o se semplicemente sono troppo fiacchi per prendere un indirizzo deciso, non cercate spiegazioni, soprassedete. Altri interessi, altri progetti covano sotto la cenere. TEMPISTI.
«Amore, ti ricordi che stasera siamo alla festa di Vincenzo Carloni?»
«Cazzo mi ero dimenticato! Stavo scaldando l’acqua per i ravioli ai carciofi di Giovanni Rana. Sicura che non vuoi che mangiamo prima a casa?»
«Mmm no. Facciamo tardi. Però me li rifai domani?»
«Vavene.»
Qualche giorno fa ho litigato pesantemente con Paolo, il mio amico e collega. Non riesco più a fidarmi di lui. Questa storia della setta esoterica mi ha fatto cambiare atteggiamento. Comincia a inquietarmi più del normale. Mi ossessiona come un tarlo. Ho tirato fuori l’argomento e Paolo si è stranito. È stato evasivo. Tempo fa però era stato lui a parlarmi del lavoro. Quando ancora io non ero allarmato, né incuriosito. Era stata una sorpresa.
Stavamo aspettando Sevla a San Paolo. Era prima di Natale perché avevo regalato a Paolo un libro di Wu Ming. E lui si presenta con un pacchetto. Un libro. Grosso. I sette pilastri della saggezza di T.S. Lawrence.
«Questo libro è molto bello, Samuele. Per me è stato importante leggerlo.»
«Grazie Paolo. Sì in effetti me ne hanno parlato bene un sacco di persone.»
«Sai, anche Lawrence faceva il lavoro.»
«Il “mestiere” intendi? La mignotta? Che cazzo dici Paolo?»
«Idiota. Il lavoro.»
«Potresti essere meno vago? Stai cercando di parlarmi di qualcosa in particolare? Ha a che fare con quei riti misteriosi che fai tutti i giorni per venti minuti?»
«Sì. Quelli sono degli esercizi che faccio.»
«Tipo meditazione?»
«Non proprio, però per capirsi puoi chiamarli così.»
«E che c’entra Lawrence d’Arabia?»
«Anche lui faceva parte del lavoro.»
«Aridaje co ‘sto lavoro. Ma non sai dire le cose in modo più chiaro?»
«È difficile da spiegare. Non è una cosa che si spiega. È una cosa che si fa.»
«Paolo, ti giuro che non capisco che cazzo dici. Aiutami.»
«Io ho un Maestro. Si chiama A. Lui è quello che mi ha tirato fuori dalla strada dieci anni fa. Ero un mezzo barbone tossico. Ho incontrato lui e mi ha fatto partecipare ad alcune riunioni.»
«E poi?»
«Poi mi ha detto che dovevo smettere di calarmi e di farmi mille canne, dovevo smettere di bere e dovevo trovare un lavoro per pagare la retta mensile del gruppo.»
«Ah, perché c’è una retta mensile…»
«Sì. E tu fai tutto quello che è necessario per poterla pagare. È una grossa spinta a darti da fare. E io ho creato la nostra associazione. Quella dove lavori pure te.»
«Ok. ok. Ma si può sapere che cazzo fate quando vi vedete? Che vi dice questo A.? Che fa? In che consiste essere un Maestro?»
«L’importante è la sua presenza. Non è che FA qualcosa come intendi tu. È una persona molto speciale. Diciamo che quello che fa ha a che fare con quella che tu chiameresti energia…»
«Ossignore iddio…. Paolo ti prego…»
«Non sto scherzando. Sei prevenuto.»
«Ok, scusa. Hai ragione non volevo mancarti di rispetto…»
«Comunque non è che devo spiegarti questa cosa adesso. Ho solo pensato che ti sarebbe piaciuto il libro.»
«Vabbè ho capito, me ne parli un’altra volta…»
Invece la seconda volta è stata l’ultima. Non so perché se la sia presa tanto. Forse non ha gradito il mio scetticismo e le domande polemiche. Forse ho esagerato. Comunque io ho dovuto vomitargli addosso la mia ansia. Ne è seguita una discussione e a ruota una lite.
L’ho mandato affanculo e gli ho detto che me ne andavo da quel posto di matti, che tanto con i soldi che mi danno non mi ci compro manco le sigarette.
Ho perso l’ennesimo lavoro.
Ma ‘sti cazzi, comunque non ci potevo campare.
In compenso io e Ginevra ci siamo visti di nuovo.
Ci siamo baciati.
Io e Ginevra abbiamo dormito insieme sul divano di casa sua e non abbiamo fatto sesso.
L’ho guardata dormire tutta la notte. Il suo viso di bambina.
Ginevra è una di quelle donne che appena sveglia è più bella della sera prima. I suoi occhi verdi tristi e giocosi insieme.
Ora facciamo l’amore.
Ed è meraviglioso.
***
Stasera io e Ginevra andiamo insieme a una festa.
Anzi. Siamo invitati a UNA FESTA. Di quelle vere.
La festa di compleanno di Vincenzo Carloni.
Un quarto piano in Prati, quartiere di studi notarili, avvocati e commercialisti di Roma. Quartiere della Roma bene di sinistra. La casa è grande, luminosa, con un caldo parquet e simpatiche poltroncine rosse. Ci accoglie Vincenzo. Me lo aspettavo più alto. E molto più vecchio. Per essere un potente ex dirigente Rai, ora trasmigrato nella Sambarao produzioni, sembra un bambino. Occhiali tondi, mani piccole, maglione Paul & Shark.
La stretta delle sua mano trasmette mollezza, calore. È morbida. È tiepida. Sicuramente profumata. Vorrei annusare le sue mani per sapere di che sanno. Forse di zagara?
«Piacere. Samuele.»
«Ciao Samuele, sono Vincenzo, accomodatevi, ciao Ginevra. Sono contento che siate venuti.»
«Tanti auguri Vincenzo.»
«Grazie.»
Sul tavolo: Champagne Veuve Cliquot. Jamón iberico. Una selezione di formaggi francesi e pane biologico di un forno della Maremma.
È il suo compleanno. Vincenzo compie gli anni e festeggia con la sua bella moglie, i suoi bambini, che vengono spupazzati dal suo amico d’infanzia, il noto leader del PD Gioacchino Sinibaldi.
Ci sono tutti gli amici della televisione. Presentatrici, produttori, attori, giornalisti, comici. Tutti sono sorridenti. Tutti si rimpinzano.
Io mi aggiro affamato nel salone. Come una fiera cerco di spazzolare più cibo possibile. Mi sento un avvoltoio sulla carcassa di una gazzella, circondato da altri avvoltoi con i quali mi azzuffo per assicurarmi il pezzo migliore.
Per esempio questo formaggio francese è una BOMBA. Ce ne sono due di capra e uno di mucca. I due di capra i migliori.
Mi ingozzo come facevo a sedici anni alle feste. Come continuo a fare anche ora.
Prima cosa quando si arriva a una festa: assicurarsi di arraffare abbastanza cibo da riempire lo stomaco.
Poi stasera tutto ha un sapore migliore: ad ogni boccone ingollo 10 euro di formaggi, 15 euro di prosciutto Pata Negra e 5 euro di champagne Veuve Cliquot.
Che prelibatezze! Nella casa dei ricchi a farla da padrone.
Con la bocca piena ormai quasi soddisfatto mi aggiro interessato per vedere i titoli sulla splendida libreria a muro di legno laccato bianco.
Spicca l’opera completa di Karl Marx.
Da sola.
Senza altri libri intorno.
Un monolito.
A destra tutto il cinema di Kurosawa.
Le maggiori opere della Scuola di Francoforte.
Sartre.
Cambiare il mondo senza prendere il potere.
Gramsci.
Mi ronza in testa una frase di una canzone dei C.S.I. Geniali dilettanti in selvaggia parata. Ragioni personali, è una questione privata.
C’è un gruppetto di autori televisivi, l’angolo dei registi e gli attori sciolti fanno capolino nei vari capannelli.
Atmosfera distesa. Risate genuine. A volte ostentate. Frangette, giacche di velluto a coste, scarpe di Rossella Carrara.
Torno da Ginevra, proprio mentre viene molestata da due sottopanza di Gioacchino Sinibaldi. Uno è alto, moro, coi capelli corti ben tagliati, impeccabile nel suo completo beige di velluto di sinistra ma costoso.
L’altro è tarchiato. Sembra calabrese. Barba lunga e occhiale, stile intellettuale organico anni ’70. Casual ricercato.
Sguardo rapace, sorriso marpione, sfrontato. Due giovani quasi trentenni inseriti nel mondo della politica italiana che lanciano occhiate languide al culo di Ginevra.
Mi va il sangue al cervello. Non è gelosia. Ho voglia di fare a botte con voi, brutti stronzi.
Non è un pezzo di carne. È una donna. La mia.
Ginevra si allontana per parlare con un’amica e partono i commenti dei due squaletti.
«Ammazza che culetto… non glie la daresti una botta alla Mischianti?»
«Cazzo, poi è pure famosa. Proprio una bella fichetta. Non sembra così carina in tivvù.»
Il quarto interlocutore, oltre ai due squaletti e a me, che evidentemente non sanno essere il fidanzato della “fichetta” in questione, è Filippo Rossi, volto televisivo, ironico osservatore della realtà politica italiana.
È diventato famoso per dei suoi pezzi molto divertenti e autoironici in cui riprende se stesso al telefono con Gioacchino Sinibaldi. La base del PD che prende la voce e le sembianze di un giovane quarantenne che si è fatto gli anni ’80, i ’90 e i duemila con il PCI nel cuore e si ritrova oggi a dover patteggiare ogni giorno i valori con gente come Sinibaldi appunto.
Le sue analisi politiche sono brillanti e ha una verve comica naturale. Ci capiamo al volo.
Filippo mi offre un assist: «E tu Samuele, che je faresti a una come Ginevra?»
Lui sa di me e Ginevra.
Vuole che spinga i due sottopanza a esporsi ancora di più per rendere la situazione parossistica e la loro figura di merda ancora più clamorosa.
Io provo a stare al gioco, anche se sento le vene del collo gonfiarsi e un formicolio in aumento nelle mani.
«Beh, non c’è che dire. Se ce l’avessi tra le mani mi divertirei un bel po’.»
Che basso profilo. Che commento moscio. So fare certamente di meglio. Come mai mi è uscita questa battutella loffia? Che mi succede?
Squaletto-alto: «Comunque quelle come Ginevra vanno castigate. No?»
Squaletto-tarchiato: «Eh sì. Ti togli belle soddisfazioni.»
Mi si annebbia la vista. Non ho mai pensato di odiare davvero i commenti machisti. Ne faccio in continuazione, sono un provocatore. Godo nel vedere le reazioni imbarazzate degli altri. Ma qui si tocca lo squallore dei giòvani del PD che manifestano con i commenti su Ginevra la summa della filosofia politica italiana: prepotenza, maschilismo, mancanza di rispetto. E di stile.
Devo menare. Devo menare. Devo menare.
«Pensa che stiamo insieme da otto mesi…» mi accorgo di dire. Ho uno stupido sorrisetto di sfida e il petto in fuori, come un galletto, senza che nemmeno me ne accorga sono diventato un coattello attaccabrighe.
Gelo. Per pochi secondi.
Filippo è palesemente divertito, anche se sperava che io resistessi di più e riuscissi a portare la situazione a un punto di non ritorno, con un effetto comico e di imbarazzo decisamente maggiore. Purtroppo non riesco ad essere all’altezza della mia spalla.
I due squaletti, dopo un primo momento di smarrimento e qualcosa di simile alla vergogna, si riprendono in uno slancio di goliardia, quella che cerca di coinvolgere i maschi presenti.
«Grande. Sei proprio forte che te la scopi! Certo potevi dirlo prima.»
Mantengo il punto.
«Non me la scopo. Stiamo insieme. Credo che se continui così ti devo prendere a capocciate.»
Mi sa che la mia minaccia assolutamente seria viene letta come la simpatica battuta di uno che sta sportivamente al gioco. Si fanno tutti una sonora risata liberatoria.
Io devo menare.
Dalla sala giunge un urlo sguaiato. «…Un attimo di attenzione!! Abbiamo preparato una sorpresa per Vincenzo. Spostatevi tutti in salotto che c’è un dvd da vedere.»
Brusio. La presentatrice della tivvù di sinistra presenta alla festa e tutti sciamano in salotto.
Io resto coi pugni serrati e il sorriso finto scolpito sul viso.
Mi viene in mente Giancarlo.
Tre anni fa ho conosciuto Giancarlo mentre lavoravo ai Ponti della Laurentina.
I Ponti della Laurentina sono famosi a Roma per la cattiva fama che hanno.
I ponti sono inseriti in un ambizioso progetto urbanistico degli anni ’80 di edilizia pubblica. Il Laurentino 38, dell’architetto Pietro Barucci.
I ponti sono passaggi pedonali che attraversano nove volte la strada sottostante che a sua volta attraversa tutto il quartiere della periferia est di Roma.
Queste splendide strutture di cemento hanno al loro interno spazi per negozi e uffici pubblici e privati, “per raggiungere quella qualità e integrazione urbana che è alla base del pensiero urbanistico moderno.”
Giancarlo l’ho conosciuto al settimo ponte. Faceva la guardia giurata nel presidio della ASL in cui lavoravo anche io.
Il mio compito nel presidio era “sistemare l’archivio”.
Per sette ore al giorno la mia attività consisteva nello spostare da uno scaffale all’altro dei faldoni impolverati appartenenti a tre settori diversi del presidio: infortunistico, medicina legale e protesi.
Il mio primo giorno fu un rito di passaggio. Incontrai Tiziana.
«Ciao Samuele, io sono Tiziana, la tua tiutor. Per qualsiasi cosa dovrai fare riferimento a me.»
Tiziana è una donna con cerbiatteschi occhi azzurri. Sui quarantacinque portati bene, o trentotto portati male. Comunque una bella donna. Capelli castani. Addosso collane con pietre dure e vestiti colorati sui toni del turchese e del viola tipo etnico elegante. Decisamente mantenuta.
«Ciao Tiziana. Cosa devo fare esattamente?»
«Guarda, qui noi non siamo dipendenti della ASL. Noi dipendiamo dalla cooperativa Santa Maria. Il tuo lavoro si svolge nell’archivio. Devi sistemare i documenti che ti arrivano via via durante il giorno dai vari presidi. E metterli in ordine nei faldoni. Siccome l’archivio è comune tutti più o meno entrano e escono da qui e ci mettono le mani. Quindi devi stare attento.»
«Ho capito. Attento a cosa?»
«A non farti mischiare tutto dagli altri.»
Il lavoro è un po’ come costruire un castello di sabbia in riva al mare. Ogni onda te lo squaglia e devi ricominciare da capo.
Dopo la prima mezz’ora ho chiaro che quello che sto facendo non è di alcuna utilità.
A fine giornata sto già sul cazzo a tutti i dipendenti perché invece di limitarmi come loro a non fare un cazzo, passo le mie sette ore nell’archivio.
Tiziana l’indomani, dopo la prima ora di lavoro entra nel mio bugigattolo.
«Senti Samuele, l’hai preso il caffè?»
«… Sì, prima di uscire di casa, alle sei e mezza. Perché?»
«Beh, perché non è che proprio ti devi ammazzare di lavoro… magari prima di iniziare vatti a prendere qualcosa al bar, no? Insomma, prenditi delle pause.»
«Ti ringrazio, ma non c’è problema. Non è così massacrante. Poi il caffè normalmente io lo prendo fuori dall’orario di lavoro.»
«Allora… diciamo così. Diciamo che è meglio per tutti se non fai troppo… anche per i colleghi… non è sempre bene fare vedere che si lavora tanto. Magari ecco, non farti vedere dal primario che stai nel corridoio, però insomma, fai con calma.»
«…»
«Comunque io ora sto uscendo. Sai, scrivo tesi di laurea, come secondo lavoro. In teoria dovrei essere reperibile qui, ma tanto non controlla mai nessuno. Gli altri ragazzi comunque sanno sempre dove trovarmi se serve. Ci vediamo più tardi.»
«Ciao Tiziana.»
Gli altri ragazzi sono trenta persone. La metà sono “soci lavoratori” della cooperativa Santa Maria. Quindi hanno, come me, condizioni contrattuali ridicole rispetto ai dipendenti, che per definizione, non fanno un cazzo.
Questa struttura non solo non ha bisogno di trenta persone, che nel migliore dei casi trasporta fogli bianchi da una stanza all’altra, ma funzionerebbe meglio con la metà dei dipendenti.
Giancarlo è fuori e fa la guardia. E fuma. Due pacchetti di MS al giorno.
«Piacere. Sono Samuele.»
«Ciao. Giancarlo. Sei nuovo?»
«Sì. Sono arrivato ieri. Lavoro per la cooperativa Santa Maria.»
«E che fai qua dentro?»
«Metto a posto l’archivio.»
«Ah, allora sei un intellettuale…»
«Beh, non esattamente. Te invece? Da quanto stai qua?»
«Oramai so du anni.»
«E com’è?»
«Che te devo dì. Io qua ai ponti ce so nato. È un posto così. La gente va in giro col pezzo. Almeno qua sto tranquillo. Io ce abito dentro, a uno dei ponti. Occupo una casa da dodici anni. Ma non c’ho l’acqua calda e il cesso è fuori.»
«Figli?»
«Due. E na moje cacacazzi.»
«Cazzo.»
«Guadagno ottocento euri al mese. Ma almeno so sicuri.»
Con Giancarlo mi prendo i sette caffè al giorno e mi fumo le sette sigarette che ogni ora mi concedo per fare contenta Tiziana e i colleghi.
Mi spiega come è stata la sua vita in questo quartiere che avrebbe dovuto essere un’opportunità della periferia per entrare nella modernità e invece è stato l’ennesimo fallimento della politica. Parliamo della Roma. Della fica. E di Berlusconi.
Lavoro lì cinque mesi. Poi me ne vado a gambe levate.
L’ultimo giorno di lavoro con lui mi prende da una parte.
Mi guarda dall’alto del suo metro e sessantacinque. Da dietro gli occhiali da sole. MS in bocca ciancicando una gomma che mastica da ore.
«A’ secco. Me dispiace che te ne vai. Qua non c’è tanta gente con cui parlare. So’ tutti categorie protette…
Comunque te volevo dì che se vede che nun sei cresciuto pe’ strada. Ma me stai simpatico lo stesso. E te vojo regalà un consiglio.»
Attendo la perla.
«Qua per strada te impari subito che certe cose le poi raddrizzà solo usando le mani. O ‘na lama. E lo capisci subito. Nun ce poi parlà co’ certa gente.» Che gente? Ma a chi ti riferisci?
«Nun le poi spiegà certe cose. Non è che devi menà sempre. Te impari pure quando non devi menà. Ma quando devi menà lo sai. E lo devi fa.»
Dopo tre anni so cosa devo fare a questa festa. So cosa sarebbe giusto. Antisociale, illegale, ma giusto.
Invece continuo a bere champagne Veuve Cliquot.
***
La vita insieme a Ginevra scorre lenta. Abitiamo in affitto in un bell’appartamento luminoso vicino Piazza Vescovio, nel quartiere Africano, una zona infestata dai gruppi neofascisti.
All’inizio la convivenza non è stata decisa. Si è presentata così. Io stavo sempre meno a casa mia, vicino al Verano, con la mia coinquilina Antonella.
Con Ginevra mi sentivo in simbiosi.
Io adoravo passare il mio tempo insieme a lei e Ginevra in quel periodo non stava lavorando, il suo cavallo era rotto e lei aveva bisogno di qualcuno che le riempisse le giornate. Io.
Questa “non decisione” ho scoperto in seguito essere uno dei motivi della sua disistima nei miei confronti. Avrebbe voluto che le dicessi: «Amore, ti amo. Andiamo a vivere insieme», invece che fosse un dato di fatto soltanto da notificare.
Non è che Ginevra abbia torto. È che nella mia valutazione questa cosa non giustifica una furia cieca come quella che ha colpito il nostro rapporto mesi dopo. O forse è la conferma del fatto che non sono un uomo. Ancora non ho deciso.
Comunque con lei ho passato dei mesi in cui sono stato sicuro di essere felice. Lo so.
La mia gastrite aveva smesso di abitare con me. Mi aveva abbandonato. Forse era rimasta nella vecchia casa vicino al Verano.
Mi entusiasma una vita borghese di famiglia in cui la mia famiglia è la mia donna e in cui la mia donna è Ginevra. E per lei cucino. Per lei e per i suoi amici che spesso sono a cena a casa nostra.
Ginevra ama molto come faccio saltare le verdure in padella. Credo che senta una sorta di eccitazione sessuale. Non ho mai capito veramente perché, però credo che faccia riferimento alla figura di uomo che ha in mente.
Adoro andare a fare la spesa insieme alla GS. Lo adoro perché Ginevra la prima volta che siamo andati a fare la spesa insieme è rimasta sorpresa dalla cura con cui scelgo le verdure. E la frutta. È andata in estasi. Adora anche il fatto che mi piace scegliere con lei le scarpe di Rossella Carrara. E scelgo sempre le più belle. E le più costose.
Che poi la GS mi fa schifo perché non c’è mai quello che voglio, ma quelle due ore passate a scarrellare insieme a Ginevra nella GS di via dei Prati Fiscali me le riprenderei subito.
Per mesi nel fondo della mia coscienza sapevo che stavo vivendo una vita non mia. Non che non mi piacesse, in parte. È che non era la mia.
È come quando una volta in palestra ho indossato la giacca di pelle nera lunga fino alle caviglie di un amico metallaro. Non è che non mi stesse bene addosso. Me la sentivo comoda. Ero un figo, solo che non è il mio genere. Io sono più da giacca di velluto a coste… anzi più da pantaloni e maglietta con un disegno sopra. Ecco.
Credo che questo lo abbia capito anche Ginevra. Anzi, credo che per lei sia stato una discriminante importante per il futuro della nostra relazione.
***
Oggi è un giorno speciale. Ho telefonato al mio amico Massimiliano. Lui è un cantautore. È una forza della natura. Un poeta. E oggi esce il suo primo disco.
È il NOSTRO cantante di riferimento. Le sue canzoni hanno segnato un anno di rapporto con Ginevra. Massimiliano è un collante per noi. La sua musica è uno degli ultimi fili che ci unisce.
Ho organizzato il gruppo di amici su facebook per andarci tutti insieme. Le cose con Ginevra non vanno tanto bene. Vanno male. Da stamattina ho capito che non ci sarà il lieto fine agli allontanamenti e riavvicinamenti.
Ma io sono come i latinoamericani. Come i messicani. Gli eroi messicani non sono dei vincenti. Sono dei grandi perdenti. Sanno perdere con uno stile inarrivabile. E la sconfitta è quasi più piacevole della vittoria.
E io voglio un canto del cigno degno di un eroe latinoamericano! Degno di Emiliano Zapata!
Chiamo Massimiliano.
«Massi, ciao.»
«Ciao Secco, come va?»
«Bene. Te? Sei agitato?»
«Un po’, ma sto bevendo. Voglio essere ubriaco stasera.»
«Daje! Senti. Ti devo chiedere una cosa. Ti dico subito che mi puoi pure dire di no.»
«Spara.»
«Stasera. Al concerto. Le cose con Ginevra stanno andando male. Volevo fare un’uscita di scena un po’ teatrale… non è che dedicheresti una canzone a lei? Non serve che dici a Ginevra. Basta che dici ‘a Quella signora’ e lei capisce.»
«Guarda devi sta tranquillo. Su che canzone la vòi?»
«Dove ti pare. Pure in un bis. Sono patetico vero?»
«Sei un innamorato. Stai sereno. Ce penso io.»
Teatro pieno. Quartiere Garbatella di Roma. Il concerto di Massimiliano è una festa. Cori da stadio tra il pubblico. È bravissimo e il suo primo disco prende il cuore di tutti quelli che lo ascoltano. È un grande. Ha la stoffa per sfondare.
Io ho la gastrite. Ginevra è seduta poche file dietro a me. Io sui gradini per godermi meglio il concerto.
Massimiliano è il “nostro” musicista. La mia storia con Ginevra è stata scandita dai concerti di Massimiliano in tutti i locali di Roma, fino in televisione.
Le sue canzoni sono le “nostre” canzoni. Le cantiamo sempre insieme. Ed è l’unico momento di vera unione.
Il concerto finisce. Massimiliano esce di scena. Applausi. Rientra. Bis. Prende in mano la chitarra. Si siede. Parla al microfono.
«Grazie a tutti. (Applausi). Mi chiedo il perché di tanto affetto. Mi hanno chiesto di dedicare una canzone a una persona… che… insomma lei lo sa. È Quella Signora…»
La gastrite si espande, come l’universo. So che non è servito a niente. Ma è stata una delle cose più belle e coatte che ho mai fatto per una donna. Sono un grande! Sono un poraccio. Sono un tamarro. Questa pietra miliare rimarrà per sempre. O giù di lì…
Grazie Massi.
Le conseguenze delle proprie azioni. II.
Svegliarsi da solo in una stanza vuota. Legato.
Svegliarsi con i postumi di una sbornia senza aver bevuto un goccio.
Svegliarsi col sapore di sangue e succhi gastrici in bocca.
Svegliarsi di sete.
Svegliarsi dopo aver bevuto un bicchiere di sabbia.
Mi avete menato. bastardi.
Mi avete gonfiato di botte. Merde.
Mi avete fatto svenire. Rotti in culo.
Bravi. Tre contro uno so’ capaci tutti.
La stanza è vuota. Mi hanno lasciato da solo. Finalmente.
Mi sono pisciato addosso prima di addormentarmi. Prima di svenire. Ho le braghe bagnate.
Mi avete fatto pisciare addosso.
Mi viene da piangere brutti stronzi fascisti.
Fascisti. Che cazzo vuol dire qui?
Mi avete fatto morire di paura, pezzi di merda mangiatacos del cazzo!
Mi avete lasciato qua. Senza dire un cazzo. Senza parlare. Dopo avermi pestato.
La finestra dà su una strada deserta. Che cazzo di ore sono?
Voglio un po’ d’acqua. Non come prima però. Da bere. Ho sete.
Basta co ‘ste cazzate da dittatura latinoamericana! Perché sentite la necessità di confermare ogni cazzo di cliché possibile? Non è squallido?
Ho sete.
Continua…
http://radicalshock.wordpress.com/