di Girolamo De Michele
Testo integrale dell’intervento letto alla serata “Un panino con Dante”, Ferrara, 15 dicembre 2010
Ieri tutti quelli che credono che l’opposizione sia questione di palle sul pallottoliere hanno dato tutti i numeri di cui erano capaci. Mi permetto di dare anch’io qualche numero.
Dalla Sintesi Dati Scuola Statale 2009-2010, pubblicata dal ministero dell’istruzione, possiamo farci un’idea della reale entità dei taglio dello scorso anno: quando, per capirci, il riordino dei cicli scolastici della scuola superiore non era ancora entrato in vigore. La dotazione organica del personale docente è diminuita, dal settembre 2008 al settembre 2009, di 36.806 unità. Più in concreto, il numero dei docenti di ruolo è diminuito di 26.522 unità; i contratti a tempo determinato, cioè i posti per supplenti, sono diminuiti di 13.862 unità; in totale sono scomparsi dalla scuola pubblica 40.384 insegnanti (dei quali circa un migliaio di personale di sostegno, e 500 dirigenti); a questi lavoratori scomparsi vanno aggiunti 14.157 collaboratori, quasi tutti precari.
I numeri sono ben peggiori di quanto annunciato, soprattutto a fronte degli oltre 36.600 alunni in più. Aggiungo: il numero di scuole è diminuito di 92 unità, ma quello delle classi è aumentato di oltre 4200: ovvero, 4200 tramezzi tirati su per dividere un’aula e ricavarne due, in barba alle norme di sicurezza e alla buona didattica. E l’unica cifra certa di cui disponiamo per il settembre 2010 — i 41.477 disoccupati che hanno chiesto di accedere alle misure del cosiddetto “decreto salva-precari” — ci lascia intendere che il saldo, al prossimo settembre, non potrà che essere altrettanto negativo. A fronte dei promessi 87.000 posti di lavoro in meno in un triennio nel solo segmento dei docenti, è lecito attendersene 100-120.000.
Un altro genere di numeri ha per qualche giorno attratto l’interesse della stampa: i risultati dei test OCSE-PISA 2009. Tralasciando il ridicolo di cui si sono coperte Gelmini e Aprea, col rivendicare al loro governo della scuola questi risultati (i test, ricordiamolo, erano stati svolti nella primavera del 2009: è come se Benitez si attribuisse il merito di aver partecipato al mondiale per club), e Giorgio Israel (su Il Giornale dell’11 dicembre scorso), per il quale «l’unica spiegazione possibile del piccolo miglioramento che i sondaggi attestano» è nella «iniezione di rigore» degli ultimi anni, ossia del famoso 5 in condotta, questi test non dicono nulla che già non fosse noto (e qui mi permetto di rimandare a quanto avevo osservato nel mio libro): i licei hanno conseguito risultati migliori della media OCSE in tutti i campi; le scuole private italiane risultano essere le peggiori del mondo (con un significativo peggioramento); le percentuali di bullismo o fenomeni delinquenziali rilevati nelle scuole italiane sono inferiori alla media dei paesi OCSE. Ma qui è necessario un chiarimento: questi dati sono attendibili solo nella misura in cui, per altre vie, confermano dati già acquisiti. Restano infatti validi tutte le ragioni per prendere con le molle questi test, frutto di una somministrazione uniforme che non considera gli specifici programmi scolastici dei diversi paesi, e che testa in base a un determinato modello culturale, che viene quindi surrettiziamente imposto in base ai risultati ottenuti. A fronte dei test sulle capacità di lettura somministrati ai quindicenni, usati per esprimere improprie valutazioni sullo stato della lingua italiana, dicono molto di più le rilevazioni sulle ricorrenze della lingua italiana di seri studiosi come Serianni e Antonelli [qui], che attestano come, ad esempio, la presunta scomparsa del congiuntivo sia solo un effetto percepito, che non corrisponde ai reali usi linguistici. Nondimeno, ci sono alcuni campanelli di allarme che suonano anche all’interno di questi dati OCSE, che sono un po’ come il libro che vince il Premio Strega e il Piani di Offerta Formativo delle scuole: tutti li hanno in mano e tutti ne parlano, ma nessuno li legge. Dati che confermano — o sembrano confermare — ciò che per altre vie sapevamo: che la scuola italiana è ancora una scuola di classe. Che il divario tra scuola italiana e area OCSE diminuirebbe se lo status economico-sociale dell’Italia non fosse inferiore a quello medio dell’area OCSE; che migliori risultati sono ottenuti da studenti che abitano nelle zone “nobili” delle città, a fronte dei loro colleghi delle periferie, e delle città nei confronti degli abitanti dei piccoli paesi e delle aree rurali; che il divario con l’area OCSE si allarga se prendiamo in considerazione gli alunni migranti. Le possibili spiegazioni di questi dati (in attesa delle analisi complete, che ancora non sono disponibili) chiamano in causa l’assenza di librerie e biblioteche nei piccoli paesi (per un totale di circa 13 milioni di italiani che sono di fatto privi di questi servizi); e il confinamento dei migranti nella scuola o nella formazione professionale, dove gli esiti sono più bassi, a dimostrazione di una reale crisi educativa sulla quale centrodestra e centrosinistra hanno concordemente gettato la spugna, favorendo la trasformazione del settore professionale nell’anticamera del mondo del lavoro, in coerenza con le leggi sul precariato che, da Treu a Biagi fino al recente “Collegato lavoro” di Sacconi, hanno nei fatti esteso l’area della precarizzazione del lavoro ed espropriato dei diritti costituzionali i lavoratori precari, con il consenso delle organizzazioni sindacali storicamente contigue al ministro Sacconi e il placet a volte fattivo, a volte ipocritamente distratto dell’attuale Partito Democratico.
Il richiamo alle politiche sul lavoro dell’attuale governo non è strumentale: si capisce davvero poco della politica scolastica e universitaria di questo governo se non la si colloca in stretta relazione con le politiche lavorative. Dentro come fuori dalla scuola è in atto un tentativo di dividere i lavoratori dipendenti e contrattualizzati dai precari, per poterli giocare gli uni contro gli altri e, alla fine, sconfiggerli entrambi. In entrambi i casi è evidente l’introduzione di norme che rafforzano il controllo sociale sul lavoro, riducono le aree di espressione critica, e minano i fondamenti costituzionali sanciti dallo Statuto dei lavoratori. Basta confrontare il Decreto Brunetta 150/2009, dopo la pubblicazione della circolare applicativa 88/2010, con gli articoli 31 e 32 sull’arbitrato e sull’impugnazione del licenziamento del Collegato Sacconi [un’analisi dettagliata qui]. Per il dipendente della scuola, a fronte del potere di irrorare sanzioni attribuito al Dirigente scolastico, con la scomparsa dei gradi intermedi di contestazione al provvedimento non resta altra possibilità che il ricorso al giudice del lavoro. Per il precario, l’obbligo di versare in anticipo il compenso arbitrale e l’estensione della decadenza, ossia del limite temporale previsto per il licenziamento ai rapporti di lavoro instabili diminuisce le fattive possibilità di ricorrere contro un ingiusto provvedimento. In ambedue i casi il controllo sulle attività lavorative si coniuga con una preventiva dissuasione dal ricorso alle procedure di contestazione, e con la conseguente attività di autocensura e autolimitazione dei diritti da parte del lavoratore.
O ancora: leggiamo in parallelo l’art. 50 del Collegato Sacconi, che nel suo piccolo costituisce un vero e proprio provvedimento ad aziendam (nello specifico in favore dell’Atesia, azienda che gestiva a salari da fame, con ignobili cottimi e senza contributi pensionistici migliaia di lavoratori dei call center), e le circolari Limina (in Emilia-Romagna) e Palumbo (in Veneto) [analizzate qui e qui]. Nel primo caso la quantificazione del danno subito dal lavoratore che dovesse vincere un ricorso non può superare l’ammontare degli ultimi sei mesi di stipendio, ovviamente a tariffe da call center: una cifra talmente poco vantaggiosa da scoraggiare il lavoratore che volesse alzare la testa e reclamare i propri diritti. Lo stesso effetto si rileva per il lavoratore della scuola che volesse alzare la testa, e che invece è spinto ad accettare il bavaglio che quelle circolari interpretative impongono, addirittura prevalendo su leggi dello Stato. Ed è di nuovo significativo che nel caso Atesia-Collegato come nel caso delle circolari-bavaglio sulla scuola sia verificabile e dimostrabile un consenso bypartisan tra le diverse fazioni politiche che ieri si dividevano sul conteggio delle palle colorate nei rispettivi pallottolieri.
La precarizzazione del lavoro, con le sue conseguenze sociali — frantumazione giuridica ed esistenziale del lavoro; confusione del tempo di lavoro col tempo della vita; controllo sul sapere sociale; incapacità di una narrazione comune tra le diverse figure del lavoro, e tra le diverse forme di resistenza e di lotta — attraversa oggi il mondo del lavoro in tutti i suoi aspetti; nello specifico settore dell’educazione e della formazione, questo attraversamento agisce secondo specifiche modalità, che preludono ad una crescente privatizzazione della formazione, e preparano al tempo stesso la cultura della precarietà e dell’assoggettamento del sapere al comando aziendale. Esemplare è il Protocollo d’Intesa “Tecnici Superiori per Finmeccanica” [qui] stipulato da Gelmini con Finmmeccanica. Questo protocollo prevede la partecipazione di Finmeccanica, attraverso le proprie aziende , alla costituzione di Fondazioni che sorgeranno in Piemonte, Toscana, Campania e Puglia. Le aziende della holding italiana si muoveranno su tre livelli: «Governance, individuando propri rappresentanti nel consiglio direttivo e nel comitato scientifico delle Fondazioni; Asset, con personale interno che fornirà attività di docenza (per la metà delle ore curriculari previste) e la disponibilità ad utilizzare le proprie strutture interne (ad esempio laboratori e macchinari); Placement, selezionando i giovani partecipanti più meritevoli per l’inserimento in azienda». Due sono i punti di rilievo di questo accordo: Finmeccanica è una holding costituita dal meglio dell’industria bellica italiana, da Agusta Westland ad Alenia Aermacchi. Ma soprattutto, questo accordo si rivolge non agli istituti professionali, ma a quelli tecnici. Con questo protocollo, secondo le dichiarazioni di Gelmini, «si da concretezza ad un obiettivo che il Ministero sta perseguendo con determinazione: rafforzare le competenze di base del sistema scolastico, per preparare in maniera adeguata i giovani alle sfide del mondo del lavoro»; in altri termini, si forniscono, a spese della pubblica istruzione, tecnici specializzati per le industrie Finmeccanica; dunque lo scopo dell’istruzione tecnica diventa non la formazione di quadri intermedi dell’industria, ma la formazione di figure professionali specifiche; non l’attuazione di un percorso formativo che prelude a quello universitario, ma di un percorso che vincola il futuro lavoratore ai destini del gruppo industriale, agganciando il suo destino alle sorti di una specifica azienda. Mentre si distrugge la formazione professionale, si professionalizza l’istruzione tecnica.
Concludo con una battuta. C’è un modo di dire, nella mia città natale, piuttosto volgare, che tradotto e addolcito potrebbe suonare: è facile fare l’omosessuale con culo altrui. In questo momento molta parte del cosiddetto centrosinistra fa ciò: si atteggia ad opposizione, sulla pelle e col culo dei lavoratori e dei precari, senza opporre alcunché di fattivo alle politiche del governo. Ed anzi, avallando in silenzio, o anche in modo palese le politiche dell’asse Tremonti-Sacconi-Brunetta: vedi i due disegni di legge 1872 e 1873 del 2009, che mirano alla riforma dell’art. 41 della Costituzione e al superamento dello Statuto dei Lavoratori, firmati tra gli altri da Bonino, Ichino, Carofiglio, Marino e sostenuti dal movimento politico di Rutelli e Lanzillotta. Le lotte operaie e studentesche di questi giorni, le grandi manifestazioni autoconvocate che riempiono da giorni le piazze, gli operai e i precari sui tetti come i libri colorati in strada dicono che c’è bisogno di un’altra opposizione, di un’altra narrazione non rassegnata e non conciliante delle lotte. Di una classe politica che non si limiti ai pallottolieri e alle passeggiate nel centro di Roma il sabato pomeriggio. Che riscopra il gusto del conflitto, dell’intransigenza, della solidarietà nelle lotte.
Per gli altri, una sola frase: Que se vayan todos!