di Girolamo De Michele
Antonella Beccaria, Piccone di Stato. Francesco Cossiga e i segreti della Repubblica, Roma, Nutrimenti 2010, pp. 176, € 13.00
qui l’inizio del libro (dal blog di Antonella Beccaria)
Lasciati scadere i coccodrilli di rito, i necrologi interessati, i commenti pro domo, con questo libro di Antonella Beccaria abbiamo finalmente l’occasione di ritornare su Francesco Cossiga e sui cosiddetti “misteri d’Italia”. Va detto, con chiarezza, che per chi — e noi di Carmilla siamo tra questi, e ne andiamo fieri — Cossiga è sempre stato Kossiga-con-la-K, il responsabile politico degli omicidi di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, non ci sono giudizi da rivedere. In un certo senso, questo libro non aggiunge nulla di nuovo ai fatti noti e a quelli sui quali il giudizio sulla verità storica e giudiziaria dev’essere sospeso — fermo restando quello sulla verità politica.
Dov’è allora il punto di forza di questo lavoro, che è importante e che va letto?
La struttura del libro può darci una prima indicazione. Diviso in tre parti, il libro segue la carriera politica di Cossiga dal rapimento Moro sino alle ultime dichiarazioni su Ustica, con rapide ed efficaci incursioni nel passato del più noto esponente dei “giovani turchi” che scalarono l’organigramma del potere democristiano. I titolo delle tre parti sono emblematici: “Gli arcani della Repubblica”, “La guerra quando s’ha da fare si fa”, “Il generale Enigma e il suo esercito”. Attraverso questa suddivisione ci accorgiamo di come i diversi volti di Cossiga (torneremo su questa apparente mutevolezza e molteplicità percepite) siano in realtà collegati tra loro, e come sia possibile (è il primo dei meriti di Antonella Beccaria) ricondurre la mutevolezza a costanti, e la molteplicità ad unità. Cossiga è in primo luogo l’uomo dei misteri, della penetrazione della Loggia P2 negli apparati dello Stato, del “ritorno” (come qualche ingenuo commentatore afferma) non solo delle “barbe finte”, ma degli Arcana Imperi. In secondo luogo, l’uomo della tutela istituzionale delle lobby militari. Infine, l’uomo dell’ordine pubblico; o meglio, di una gestione dell’ordine pubblico (dalla repressione del movimento del ’77 alla gestione del rapimento Moro al “caso Donat Cattin”) che deriva dalla superiorità della politica rispetto a qualunque altro ordine di valori.
La ragione politica è, per Cossiga, la ragione tout court: in suo nome, e per la sua realizzazione, ogni decisione è legittima. Il fine che giustifica i mezzi, direbbe il machiavelliano di turno: ignorando che per Machiavelli il fine politico che giustifica i mezzi (poco importa se questa affermazione letterale nei testi del Segretario fiorentino non c’è) è il bene comune, mentre per Cossiga è lo Stato. Uno Stato nel quale ha ricoperto tutte le più alte cariche: prima ministro dell’Interno, poi Presidente del Consiglio, Presidente del Senato, infine Presidente della Repubblica. In nome della ragion di Stato, dunque, sono legittime e legittimate le infiltrazioni delle forze dell’ordine all’interno dei movimenti, l’uso delle armi da fuoco contro i manifestanti, il sacrificio di Aldo Moro, la copertura dei mandanti e degli esecutori delle stragi del 2 agosto e di Ustica, accordi segreti con potenze e forze interne e straniere: una lunga carriera politica all’ombra di questa ragion di Stato, perseguita con coerenza e cinismo, che il libro di Antonella Beccaria ci aiuta a ripercorrere [a sinistra: clicca sull’immagine per ingrandirla].
Ma — e questo è il secondo e principale merito di Piccone di Stato — il film di una vita da democristiano è ottenuto col montaggio non tanto dei documenti, ma delle parole dello stesso Cossiga. Un fiume di parole, pazientemente ordinato da intervista a intervista, da dichiarazione ufficiale a dichiarazione informale. Tutti quanti abbiamo, in trent’anni, ascoltato Cossiga dire questo o quello, parlare o sparlare, affermare, smentire, accennare, ammiccare, affermare l’indicibile tra le righe o negare l’evidente. E tutti, più o meno, abbiamo cercato di interpretare, comprendere, descrittare questo o quell’enunciato. Quello che accade leggendo questo libro è però qualcosa di diverso: la lettura continua, quasi senza soluzione di continuità, delle parole di Cossiga, in un montaggio che avrebbe potuto intitolarsi Cossiga secondo Cossiga. È in questo continuum che si mostra il valore performativo degli enunciati del Presidente Emerito: una nebbia costruita con sapienza, non negli anni della senescenza, come qualcuno ha potuto credere, non col progredire delle malattie, ma sin dall’arrivo di Cossiga nelle stanze del potere. Un uso della menzogna che ha per scopo non la negazione, ma il nascondimento della verità: la progressiva indistinzione tra vero e falso, tra ipotesi e verità documentata. In un contesto politico dominato dalla scomparsa dei fatti — meglio: dalla sovradetereminazione dei fatti dal regime simbolico della stronzata —, nel quale si perde poco a poco l’abitudine alla verifica non solo da parte del cittadino comune, ma anche di chi questa verifica sarebbe tenuta o farla per dovere deontologico, Cossiga può permettersi di mentire (un esempio: l’asserita assoluzione in primo grado di Mambro e Fioravanti, che invece per la strage del 2 agosto sono stati riconosciuti colpevoli in ogni grado di giudizio), sapendo che questa menzogna, ripetuta una seconda e una terza volta, finirà coll’essere creduta vera. Ed è questo uso delle parole a creare la falsa immagine di un Cossiga dai molti volti e dai molti aspetti: un Cossiga che finge di demistificare il potere mentre lo legittima, di denunciarlo laddove lo reitera. Il Picconatore delle istituzioni che in realtà ha consentito a quello Stato di sopravvivere agli scossoni della crisi degli anni Ottanta è lo stesso che ha attratto l’interesse dell’opinione pubblica, della stampa, dei cittadini ogni volta che, aprendo bocca, dava l’impressione di essere sul punto di rivelare i segreti nascosti fin dalla fondazione della Repubblica. Fino agli ultimi giorni, con la reiterazione di una inverosimile panzana (la strage di Bologna dovuta allo scoppio accidentale di un ordigno che veniva trasportato: come se quel tipo di esplosivo non fosse stabile, e l’innesco non richiedesse un’azione intenzionale) e l’affermazione di una finta verità (la presunta responsabilità francese per la strage di Ustica).
È l’insieme delle dichiarazioni, piuttosto che la lettura di questa o quella, che permette di cogliere l’ordito di questa tessitura; l’uso delle parole è stato, assieme alle armi e alle “barbe finte”, è stato lo strumento principale di un apparato di poteri che, in un’apparente metabasi, rimane saldamente al proprio posto (come nelle precedenti inchieste Beccaria ha documentato): e questo Piccone di Stato ce lo dimostra.