Michel Houellebecq ha appena vinto il premio Goncourt con il suo ultimo romanzo, La carta e il territorio (Bompiani, 20 euro). Una vicenda, quella del premio, che si trascinava da anni. Le plurime candidature di suoi libri sono sempre state bocciate e avversate dalla giuria. Il Goncourt è molto più che il nostro Premio Strega ed è stranissimo che l’autore francese, molto lontano da qualunque mondanità letteraria, ci tenesse in maniera così maniacale. Eppure, incontrandolo, si torna a quote più normali: Michel Houellebecq è un uomo gracile, tremulo, apparentemente inoffensivo, uno dei massimi scrittori viventi che ostenta indifferenza a tutto, mentre in realtà assorbe ogni evento, ogni mutamento di atmosfera. Il suo sguardo è felino. La sua gentilezza sfiora l’inermità. Sembra non coincidere con il personaggio dipinto dai media, una sorta di narcisista isterico e nichilista che divide i lettori in nemici e adepti, o uno scribacchino che ottiene successo e denaro con provocazioni ben calibrate.
Come quella che lo condusse a processo per via del suo romanzo Piattaforma nel centro del mondo (del 2001, edito in Italia da Bompiani, come tutti le opere di Houellebecq), in cui l’io narrante si lasciava andare a gesti insultanti nei confronti dei talebani e degli islamici in genere. A seguito di un’intervista in cui aveva dichiarato che “l’Islam è la più stupida delle religioni”, associazioni mussulmane lo hanno portato a processo — lui ha vinto la causa e il libro è stato un successo. Le particelle elementari risalgono a tre anni prima e a tutt’oggi questo è il libro culto che ha imposto Houellebecq all’attenzione planetaria. Poiché c’è da dire che anzitutto Houellebecq non sembra uno scrittore francese, piuttosto apparendo come uno dei geni del capitalismo e del consumo, oggetti di un attacchi spietati e lucidissimi nei romanzi, nei saggi (folgorante quello su Lovecraft), nelle raccolte di poesia.
Questo cinquantaduenne che fuma intensivamente sigarette con posa femminea, i capelli radi ma arruffati, uno pseudonimo a coprire il nome anagrafico Michel Thomas (Houellebecq è il cognome della nonna paterna, a cui fu affidato perché indesiderato dai genitori), questo ex informatico che ha conosciuto la disoccupazione e la fame — è in Italia per un giro di conferenze e promozione de La carta e il territorio. Incontrandolo si teme il suo silenzio, lo sguardo che parrebbe psicofarmacologico, le rare battute sussurrate, la cautela nei confronti del mondo e le apodissi di cui è capace. La sua gentilezza non è affatto sofferta: è sofferente, piuttosto. Non uno dei temi cruciali dell’esistenza e della letteratura viene esentato dal conflitto con Houellebecq e questo sin dall’esordio, Estensione del dominio della lotta. Si tratta di un grande scrittore massimalista: il rapporto col padre, lo statuto dell’arte, l’amore, la morte, l’eutanasia, il mercato, il denaro, il divertimento spettacolare di massa — sono soltanto alcuni dei temi affrontati dall’autore francese. Tanto che si potrebbe leggere il libro come una guida Michelin (la carta) che illustra per astrazione il reale (il territorio).
La carta e il territorio è la storia di tre personaggi: l’artista concettuale e poi formale Jed Martin, lo scrittore Michel Houellebecq, il commissario di polizia Jacelin. Vivono un disincanto assoluto, ognuno declinandolo in direzioni differenti. Si è per caso esteso ancor più il dominio della lotta?
Anzitutto va detto che c’è un personaggio femminile, Olga, la responsabile della comunicazione di Michelin, russa, fatale per Jed che la ama. E’ molto importante per il mio percorso avere centrato parte dell’attenzione su un personaggio femminile forte. E’ sotto gli occhi di chiunque la situazione della vita reale: si è molto aggravata. Non sono in grado di essere un testimone diretto di una torsione così forte della società occidentale, visto che ho perso il contatto col mondo del lavoro, che è fondamentale per il ciclo di consumo e per le psicologie che subiscono mutazioni a fronte di nuovi scenari. Non so se la carta sia più importante del territorio. I temi di cui tratto, che non coincidono con la totalità del romanzo, derivano da uno sguardo letterario. Finché questo sguardo reggerà.
E’ un po’ difficile credere che il Goncourt 2010 sia stanco di scrivere. Le questioni à la Hoellebecq sono universali. In Piattaforma si prevedeva addirittura il terrorismo di nuova forma che avrebbe imposto Al Qaeda. Un tema topico, come la frustrazione sessuale, ha la forza di persistere.
Io invece credo sinceramente di avere esaurito gli argomenti. Prendiamo proprio la sessualità. Ormai l’ho descritta in ogni modo, non penso sia più il caso di entrare in una questione artisticamente già chiarita. Sarebbe pura ripetizione, manierismo. Poiché per me il punto è proprio questo: io scrivo se descrivo. La descrizione è per me la forma più potente di intensificazione letteraria. Basta pensare alle descrizioni precise e refertuali di H.P. Lovecraft: nitidamente viene messo sotto il nostro sguardo mentale un cosmo inesistente. La descrizione è una delle modalità del fantastico. Lo sguardo diventa vitreo. Si potenzia l’attenzione sull’oggetto. Poi, certo, è questione di stile o di piacere: a me descrivere piace moltissimo. Descrivo lasciando buchi: le opere artistiche di Jed Martin sono descritte parzialmente, non in modo esaustivo. La letteratura non è l’algebra. Non in quanto prodotto di massa veniva buttato nella spazzatura un libro di Grisham, in Piattaforma — veniva scartato in quanto non è letteratura perché è calcolo, è algebra. Quanto a me, ora si tratta di vedere se ancora esistono questioni e fenomeni da descrivere.
Questo sguardo consapevole, lucido, che è disposto a percepire il mondo nella sua cruda nudità, ricorda in parte metafisiche come quella buddhista. Sia nel precedente La possibilità di un’isola sia in questo nuovo romanzo, si accenna al buddhismo.
Non si tratta di buddhismo, bensì di metodo buddhista. La capacità di svuotare lo sguardo da pregiudizi che inquinano la percezione non è in sé una metafisica. Ne La possibilità di un’isola, a un certo punto, il protagonista entra in una installazione artistica di specie particolare. Quest’opera consiste in una camera di compressione. Le pareti sono bianche, tutto è bianco. Dopo un periodo di esposizione a questa luminosità candida, ecco che si vede il bianco stesso tremolare, lattescente, opaco. Vibra, è incerto, non ha una forma, ma non è il vuoto: è il bianco, non il vuoto. E’ un possibile generatore di forme. La questione del vuoto è centrale anche ne La carta e il territorio. Basta osservare l’installazione finale di Jed Martin: un’opera di segmenti video sovrapposti, vegetali in assenza del fenomeno umano, materiali trattati con Photoshop e altri software. L’incertezza della forma e la vaga liquidità delle linee dicono che non siamo di fronte al vuoto o nel vuoto.
Da questo si comprende che la lettura sociologica, spesso effettuata dai critici e soprattutto dai detrattori, è una lettura parziale. Viene spesso avanzata l’accusa di nichilismo. E’ una tesi infondata, non c’è nichilismo.
Il nichilismo ha una storia assai nota e certificata. A fronte di un movimento di volontaria distruzione del reale, si può affermare che si tratta di nichilismo. Se invece ci si trova davanti a un tentativo di salvare ciò che sta andando male, allora la pulsione non è nichilista. Il tentativo letterario non è nichilista. I miei personaggi sono liberi, per questo la loro psicologia è semplice e decisiva soltanto nel campo magnetico delle leggi sociali. In questa libertà risiede il carattere politico del romanzo, e non solo di quest’ultimo mio.
Il protagonista de La carta e il territorio, Jed Martin, artista le cui opere ottengono uno strepitoso successo, vive un disincanto totale, non gli interessa niente né del denaro né dell’esperienza elitaria e spettacolare.
I tre personaggi maschili hanno in comune un certo successo nella vita professionale. La differente importanza che viene conferita a questo successo li rende diversi. Il più disinteressato è Houellebecq. Non parla mai dei suoi romanzi. E’ vero che si scorge la sua “officina” — la scrivania strapiena di appunti e connessioni tra fogli e schede. Tuttavia ha appena stappato e bevuto una bottiglia di vino pregiatissimo. Preso quasi da un senso di colpa fa accedere Jed al suo laboratorio creativo. Non parla, Houellebecq, di come procede effettivamente alla scrittura di un romanzo. E’ talmente disinteressato che nemmeno bada al ritratto che gli regala Jed — un quadro che ha una quotazione elevatissima. Prende il ritratto, lo mette sul camino e nient’altro.
La presenza di Michel Houellebecq personaggio ha molto attratto la pubblicistica. Si è di fronte a tre Michel Hoellebecq: lo scrittore che è autore de La carta e il territorio, lo scrittore che è un personaggio de La carta e il territorio, l’uomo ritratto che con uno sguardo feroce osserva dal quadro di Jed e finisce per innescare una spirale narrativa inaspettata. Si pone il quesito su dove o cosa sia l’“io”.
A scandalizzare non è tanto l’apparire di personaggi reali, come gli scrittori Philippe Sollers o Frédéric Beigbeder. A perturbare superficialmente è il destino del personaggio Houellebecq. Non è un personaggio vuoto, poiché è caratterizzato anch’egli da un determinato rapporto con il successo professionale. Quanto all’individualità va detto che, per come avverto io la questione, è sufficiente constatare lo stato degli organi, che fanno l’individuo singolo. Poi evidentemente c’è anche un dato psicologico, anche nell’eventuale sviluppo del personaggio. E’ ciò che preoccupa, la psicologia. Un evento mentale nella vita di ognuno può scatenare modifiche in altre parti della vita. La psicologia è legata a un meccanismo causale ed effettivo dell’esistenza.
Un’evoluzione, uno sviluppo, comunque, esistono in Jed Martin. Dapprima è l’artista che fotografa manufatti inorganici, poi le mappe Michelin, poi passa a dipingere persone singole che rappresentano mestieri, infine crea dipinti di situazione, come il geniale “Bill Gates e Steve Jobs discutono del futuro dell’informatica”, che altrettanto genialmente è noto come “La conversazione di Palo Alto”. Mi sembra un percorso che dall’inumano conduce all’umano.
No, bisogna tenere presente l’opera finale di Jed: la vegetazione che erode tutto, occupa il mondo, il che effettivamente accadrebbe nel giro di pochi anni ovunque sul pianeta, se l’umanità si estinguesse. Non c’è evoluzione, c’è uno slittamento dal reale al simbolico. L’idea delle carte Michelin proviene dal fatto di non averne mai vista una. Il passaggio alla rappresentazione di esseri umani accade in ragione della tristezza per Olga. La fase dei dipinti come quello su Damien Hirst e Jeff Koons, invece, è proprio un allargamento logico. Perché si dia un’evoluzione, deve esserci una fine di una situazione pregressa e l’inizio di una nuova situazione, e non è così per Jed. Tra fine e inizio non succede quasi nulla e comunque ci si trova di fronte a una sostanza che il linguaggio non può descrivere. Soltanto l’evento è descrivibile.
Recentemente Philip Roth ha dichiarato che la fine del libro è già avvenuta, poiché manca ormai l’attenzione e la devozione necessarie alla lettura. Non serve chiamare in causa Kindle o gli e-book.
Il problema è un altro. E’ ovvio che, se va a incrementarsi il livello di produzione, non c’è più tempo e si avverte il crollo culturale. D’altro canto non si può essere ottimisti circa la digitalizzazione, che comporta un serio problema, cioè l’evoluzione verticale dei formati, per cui i documenti digitali di oggi possono risultare illeggibili tra un secolo, un po’ come è oggi quasi impossibile leggere un dischetto del pc. La dichiarazione di Roth, comunque, mi sembra toccare un altro punto interessante, che è lo stile. I personaggi cloni de La possibilità di un’isola guardavano, come modello stilistico, a un manuale per l’utilizzo di un videoregistratore. Credo che Roth non accetterebbe mai questo tipo di approccio, che invece per me è fondante.
Tahar Ben Jelloun ha comminato a La carta e il territorio una molto inelegante stroncatura. Tra i vari elementi che non digerisce del romanzo, ce n’è uno abbastanza cruciale: è l’onnipesenza dei brand, dei marchi. Un amnio in cui si muovono i liberi personaggi del libro, disincantati e marchiati. E’ l’etere del XXI secolo occidentale.
I marchi sono leggende moderne. Acquistando un marchio, si compra una leggenda. La Mercedes è una bella storia, ha determinati attributi, c’è il lusso, il potere, la distanza sociale. La Kia è il Sol Levante. L’Audi significa edonismo e certo rigore tedesco. Vale per tutti i marchi, non soltanto quelli automobilistici. Non sono affatto ironico quando scrivo “Qualche volta aveva l’ipermercato tutto per sé — e gli pareva fosse un’approssimazione abbastanza buona della felicità”. In senso letterale deve essere intesa questa frase. Il luogo del consumo è ambiguo come ogni residuo mitologico. E’ la favola che l’umano continua a desiderare: quella che fa paura, dove c’è il lupo.
[Questa intervista, sottoposta ad alcune modifiche, è stata pubblicata da il manifesto il 19.11.2010]