di Dziga Cacace

Amigo… la mierda, siempre mierda es!
Gian Maria Volonté,
Quién sabe?

ddv1601.jpg190 — Planet of the Apes del primate Tim Burton, USA 2001

Too much monkey business, caro Burton. Allora: una pizza in compagnia e poi al cine con Alessandra, per goderci il regista che garantisce sempre accurate messe in scena e divertimento, uno che crea mondi e sa ancora giocare con l’emozione del cinema. Dicono. Perché stavolta toppa forte (e a me aveva fatto cagare anche Beetljuice spirito porcello). Siccome il Cacace è il meglio sulla piazza, son reduce dalla lettura del romanzo di Pierre Boulle (del 1963) a cui si ispirò Il pianeta delle scimmie sessantottino e posso apparecchiarvi un paragone tra fonte letteraria, primo film e ultimo venuto, cosa che neanche al CERN saprebbero concepire ma questo criticonzo tutto fosforo, sì. Ora, credo che nessuno NON sappia come si svolge la vicenda (il manifesto del film di Schaffner era già un clamoroso spoiler visivo), però, ecco, se volete vedervi i film o leggervi il libro, non andate oltre e ringraziate dell’avvertimento, cosa che abitualmente non faccio.


Dunque: il libro gioca sul ribaltamento ma non sull’antagonismo tra specie: l’astronauta che cade sul pianeta delle scimmie riuscirà a convivere con loro per poi farsi rispedire sulla Terra dove, sorpresa, nel frattempo le scimmie hanno preso il potere (e ci sarà poi un’altra rivelazione finale che vi risparmio). La prima riduzione cinematografica è un capolavoro che vede l’astronauta entrare in conflitto col mondo rovesciato che gli si para davanti. Poi fugge ma non ritorna sul pianeta Terra, rimane su quello delle scimmie e scopre che si tratta della Terra stessa, nuclearizzata e civilizzata nuovamente dal nostro antenato evolutivo (secondo Darwin, non secondo Giovanardi) (Se non è chiaro: nel senso che Giovanardi è rimasto a quello stato d’evoluzione). In più il film, raccontandoci della società delle scimmie, strizzava l’occhio alla contestazione giovanile e censurava dogmatismi religiosi e proliferazione nucleare. Oggi, Burton, abbandona tutto ciò. Tiene il finale del libro e s’inventa una nuova situazione. Sia uomini che scimmie sono intelligenti, non c’è più ribaltamento, solo una lotta per la supremazia tra oppressori e oppressi e l’astronauta opera la rappacificazione tra le due specie. Ne risulta un film in costumi pelosi, dove ci si mena di brutto: una cosa che mi avrebbe annoiato a sette anni, figuriamoci adesso. Non c’è più satira o ironia sottotraccia, solo qualche svisata comica nel mostrarci come le scimmie vivano alcune situazioni per noi quotidiane, come una scena di seduzione o una distinta cena scimmiesca. L’unica invenzione — diciamo — è che le scimmie si muovano e agiscano da scimmie, non sono cioè antropomorfizzate: hanno quattro pollici opponibili, caracollano appoggiandosi alle mani, saltano di liana in liana, si annusano, scattano e urlano collericamente. Ecco, però poi: ma chi cazzo se ne frega, è mica un trattato di zoologia, dài. Tolta la cura nelle scenografie (leggibili come interni, però), nei costumi, negli effetti e tolte le citazioni (tanto 2001, soprattutto), rimane un film d’avventura banalotto, abbastanza prevedibile e vuoto, dove i personaggi non hanno alcuno spessore. Dimenticatevi Cornelius e Zira, qui c’è la Bonham Carter (che col trucco da scimpanzé ci guadagna in bellezza) che adora gli umani e non se ne sa il motivo. Così come c’è Tim Roth (in effetti bravo) che li odia. Punto e basta. Estella Warren — ex modella — è Nova, un bocconcino con i labbroni alla Bardot ma anche con la fissità visiva tipica del vuoto torricelliano cerebrale e per recitare la cosa non aiuta. Particina beffarda per il fascistone Charlton Heston, scimmia che prima di spirare pronuncia un vibrante atto d’accusa contro le armi. Il cinema Orfeo è enorme, l’intervallo dura un quarto d’ora e ha le poltroncine più scomode del creato. Non mi sono divertito, no. (Cinema Orfeo, Milano; 21/9/01)

191 — Medley — Brandelli di scuola dell’acerbo Gionata Zarantonello, Italia 1998

Evidentemente il regista odia il suo liceo, i professori e i compagni fetenti che non passano i compiti o che fingono di essere malati per non essere interrogati. Zarantonello è un giovanissimo filmmaker che mette in scena tutti i pensieri turpi del liceale medio e lo fa con fiammeggianti aspirazioni autoriali, raccontandoci una giornata di scuola in cui un ispettore ministeriale non si rende conto di zombie, macelli, droga, armi e vendette. Girato in Hi8, ridoppiate le voci e aggiunta tanta musica a riempire i vuoti narrativi e lo squallore della presa diretta, cosa ne viene fuori? Questo Medley, che ha vinto alcuni premi festivalieri ed è stato acquistato dalla Troma. L’idea è in effetti carina. La realizzazione è dilettantesca, ma va pure bene, immaginando gli scarsi mezzi a disposizione; quello che manca è lo scatto per reagire a queste difficoltà. I brandelli di scuola non sono per niente fusi in un medley: manca totalmente la scrittura e la cognizione del ritmo. Il giovane Gionata sa girare (o mostra di avere chiaro cosa significhi costruire una scena), non sa invece ragionare sulla distanza superiore ai 3 minuti e si perde in gag per niente riuscite. Non lo aiutano gli attori ultracanissimi e il doppiaggio che respinge: probabilmente la giovane età e l’entusiasmo non lasciano spazio a ripensamenti autocritici. Contento per lui che gli abbiano prodotto e distribuito questo filmino delle vacanze (lontanissimo dagli esiti geniali di un Puglielli, per dire). Ancora più contento che alla Troma abbiano sganciato del denaro (sono soldi rubati, ma rubare alla Troma è giusto). Aspettiamo che cresca, però, nel frattempo, lo Zarantonello dovrebbe guardarsi qualche film, leggersi qualche libro e soprattutto non citare con ostinazione solo i Doors, limitante referente culturale se non si possiedono (almeno) anche le discografie complete di Love, Spirit, Janis Joplin, Steppenwolf, Jefferson Airplane, Grateful Dead e Quicksilver Messenger Service. E mi fermo alla West Coast. (Vhs originale; 22/9/01)

ddv1602.jpg192 — Fusi di testa della sociologica Penelope Spheeris, USA 1992

Il mondo di Wayne parte sfregiato sin dal titolo pensato dai nostri geniali distributori. E se si comincia a tradurre male il titolo figuriamoci il resto. Infatti, dopo averlo visto, mi chiedo quanto si sia perso in una traduzione che sembra spingere l’acceleratore della demenzialità. Perché Wayne’s World aspira a molto di più che a una commediola giovanile per risolvere il sabato con coca e pop-corn. Wayne e Garth sono due giovanotti che non vogliono crescere e vivono in un mondo di chitarre heavy metal e amori sospirati (o fuggiti). Producono nel garage di casa uno show televisivo amatoriale via cavo che non fa altro che mettere in scena i loro desideri. L’executive di un network li individua e decide di fare il gran colpo mandandoli in onda su scala nazionale, in versione ripulita, corretta e sponsorizzata. I nostri eroi sapranno rispondere. Wayne’s World dice cose intelligenti e, almeno per un po’, le dice anche in maniera intelligente. Nella prima parte Wayne, il personaggio principale, guarda diretto in camera e ci spiega dove siamo e a cosa stiamo assistendo. Espone la filosofia sua e dei suoi amici, un po’ come faceva David Byrne in True Stories. Linguaggio elegante e fotografia iperrealistica per raccontarci la provincia americana, il paese reale, attraverso i sogni dei ragazzi, i personaggi tipici e l’architettura folle. Gente semplice, cui non importano fama o soldi, semmai le piccole gioie del vivere quotidiano. Mike Myers e Penelope Spheeris (già regista di documentari musicali che non ho visto, ma di ottima fama) costruiscono, sotto la falsa veste di una commedia, un saggio antropologico sulla sottocultura del giovane americano medio: gli sport, la musica dura, il cibo, il sesso, l’idolatria per i personaggi dello spettacolo, il gergo. Okay, ma poi si ride? Poco, ma non mi sembra che sia così importante, anche se alcune scene sono decisamente godibili. A me è passato perché mi fa sempre piacere quando si parla di cose che amo (come i Queen, le chitarre Fender, il rock cafone) e anch’io ho l’insana tendenza a urlare Scaramouche scaramouche will you do the fandangooooo!!! Film strano, ma decisamente con un suo perché. (Vhs da Tele+; 30/9/01)

193 — Moulin Rouge! del caleidoscopico Baz Luhrman, USA 2001

E dopo cena, altro giro, altro film. Andiamo con Paolo e Francesca al cinema Brera. Gran coda e gran folla: chi l’avrebbe detto? Moulin Rouge! parte da una bella idea: realizzare un musical postmoderno. La scommessa viene vinta, anche se a una prima parte ottima come velocità, intuizioni, invenzioni, ne segue una seconda meno ritmata e schiacciata dal senso di morte che si stende sulla narrazione. A inizio secolo la compagnia del… Moulin Rouge (pensa!) mette in scena un nuovo spettacolo. C’è un finanziatore che vuole la primadonna solo per sé, c’è un autore innamorato (ricambiato) della stessa e c’è una strampalata compagnia di artisti che collabora (tra questi Toulouse Lautrec e Satie, per dire). Ma l’eroina è Traviata ben bene e ha la tisi. Il racconto è accompagnato da canzoni immortali, rimontate in medley e piegate alla storia narrata. Ne esce un clamoroso pastiche dove si trovano fianco a fianco Bowie, Kiss, U2 ed Elton John, mentre Roxanne diventa un tango trascinante. Ma i pregi non si fermano qui: c’è compenetrazione tra arte alta e bassa, tra intrattenimento colto e popolare, spaziando dalla pop music e dall’avanspettacolo alle avanguardie artistiche di inizio secolo, recuperando lo spirito spensierato della Belle Epoque, così come i trucchi illusionistici di Mélies, vecchi cent’anni e ancora attuali. In un film che deve essere costato comunque una paccata di miliardi, s’intravede la sincera voglia di ribellarsi alle regole degli studios hollywoodiani: Luhrman ha ottenuto il controllo assoluto sull’opera e non ci sono concessioni (la seconda parte è filologicamente corretta, ma più fiacca dal punto di vista spettacolare: a Riccardo, uomo ottocentesco, è chiaramente piaciuta di più). La Kidman è bellissima e brava, intensamente fragile e caparbia. Meno entusiasmante il McGregor che dà brividi a tutte le donne del creato, maledetto lui, ma adatto al ruolo. In sala ci sono lame ghiacciate d’aria condizionata e durante la proiezioni squillano 4 telefonini 4. Andare al cinema di domenica è un supplizio, ma Baz vola alto, rischia e tutto sommato riesce a tenere fede all’impegnativo motto bohémien di verità, bellezza, libertà e amore. Ecco, non amasse Elton John, saremmo proprio a cavallo. (Cinema Brera, Milano; 30/9/01)

ddv1603.jpg194 — The Others di, buh!, Alejandro Amenabar, Spagna 2001

Sempre costretti a scegliere tra l’insulso spettacolo delle 20 (per cui devi cenare alle 19 con una gallina sotto braccio oppure restare digiuno e rantolare per la fame durante la visione) o quello delle 22 e 30 (quando hai già mangiato, probabilmente troppo per far passare il tempo, e poi, dopo il film vai a dormire praticamente alle 2), stavolta approfittiamo di una proiezione in orario intermedio all’Odeon, causa compresenza di due spettacoli nella multisala (in realtà il film partirà in forte ritardo e ci sarà il consueto quarto d’ora eterno d’intervallo per vendere gelati e pop-corn puzzolentissimi). Comunque, basta con questa denuncia veramente coraggiosa e passiamo al film: siamo con Nuria, che sponsorizza da tempo il regista conterraneo, già autore di Apri gli occhi e Tesis, film che prima che ce ne rendessimo conto erano già scomparsi dalle sale. The Others è una storia di fantasmi ambientata nell’isola di Jersey, al termine della seconda guerra mondiale. Nicole Kidman è Grace, in attesa del ritorno di un marito partito soldato e madre di due bimbi fotosensibili e brutti come la fame perché pallidi e con delle occhiaie da panda. Nella casa in cui vivono accadono fatti inquietanti, da casa infestata da fantasmi, appunto. Primo tempo ben costruito, secondo tempo un po’ buttato via. Nel senso che accadono due fatti (arrivo del marito e rivelazione finale del mistero) che sono raccontati senza la crudele grazia che aveva caratterizzato il primo tempo. Ciò che prima era suggerito, viene spiattellato in faccia allo spettatore in modo esplicito, senza alcuna finezza, abbandonando il modello hitchcockiano fin lì adottato (ed esplicitato anche dal nome e dall’acconciatura della protagonista). Che poi la virata brusca abbia un valore in sé è stato esemplificato da Nuria che, nel momento clou, ha cacciato un urlo primordiale: un barrito violentissimo tra Tarzan e la Callas che ha trasformato il nostro terrore in un’ilarità sfrenata e ha spezzato la tensione in tutta la sala. Film godibile, visto con luci dei corridoi accese e rumore del proiettore durante il secondo tempo. Uno schifo, in quella che dovrebbe essere uno dei migliori cinema della città. (Cinema Odeon, Milano; 2/10/01)

195 — Alta tensione del pagliaccesco Mel Brooks, USA 1977

Questo l’ho visto addirittura negli anni Settanta, quando andavo al cinema parrocchiale di piazza Leopardi, a Genova. Panchine di legno nelle prime file, poltroncine da tortura (sempre in legno) nel resto della sala. Un prete girava con una pila per illuminare i bambini più casinisti e nell’intervallo ci s’ingozzava di liquirizia e caramelle. Il cartellone era folle: tra classici e terze visioni, ho visto lo storico I gladiatori con Victor Mature, Collo d’acciaio, Altrimenti ci arrabbiamo, La carica dei 101, Qua la mano, Un genio due compari un pollo e pure Excalibur in versione censurata (mancava la scena in cui veniva concepito Artù, in plastico amplesso con puntuta armatura metallica). Allora il film — Alta tensione, ma anche Excalibur e tutti gli altri – mi piacque e sicuramente non potevo capire nulla dell’esibito citazionismo. Oggi, anche se tutto il gioco parodistico ha altro sapore, il film m’è piaciuto poco e ho riso solo due volte. Semmai mi ha commosso ricordare nitidamente alcune scene e ritrovare la tremenda Fratella Diesel, la stessa Frau Blücher di Frankenstein junior, qui infermiera nazistoide con propensione al sado maso e al bondage. Alta tensione racconta di uno psicologo (Brooks) coinvolto in uno sconclusionato giallo dove, come da copione del maestro del thrilling, spunta un doppio assassino, ci sono minacciosi uccelli caganti, case sulla scogliera, altezze che danno la vertigine e altri omaggi sparsi. Ma Mel Brooks confeziona parodiando anche l’allora recente Christine (dell’epigono De Palma) e Blow Up, angoscioso thriller metafisico sull’identità del reale (con la scena della gigantografia scrutinata con la lente d’ingrandimento). A tratti intelligente, più spesso infantile e non riuscito, Alta tensione mostra, a mio parere, il vero volto di Brooks che, senza Wilder alla sceneggiatura, annaspa in numeri comici paratelevisivi. Frankenstein junior non aveva un minuto sprecato, ogni gag andava a segno, i tempi comici erano perfetti. Qui sembra tutto fuori tempo. Però è stato un gradevole salto nel passato. (Vhs da Tele+; 3/10/01)

ddv1604.jpg196 — Quién sabe? dello sguaiato Damiano Damiani, Italia 1967

Considerato film emblematico del genere, dimostrazione che un altro cinema era possibile — coniugando intrattenimento popolare e politica -, portato tuttora in palmo di mano da schiere di critici, Quien sabe? mi è sembrato un’autentica discreta vaccata. Io credo che i film bisognerebbe rivederseli, ogni tanto, perché a trent’anni dal concepimento il film di Damiani m’è parso maldestro e, al limite, furbetto. Il solito sporco yankee, il Niño (il Lou Castel coi pugni in tasca), fa il doppio gioco e si aggrega alla banda del Chuncho, un pistolero dai sentimenti primari come un animale, interessato solo al denaro che gli consenta di gavazzare allegramente. L’americano deve far secco un generale rivoluzionario e riuscirà nel suo intento, ma è a quel punto che El Chuncho (Volonté) fa la sua scelta di campo. Messaggio politico ammiccante, atmosfere da Sergio Leone deprezzato, musica di Bacalov con supervisione di Morricone che si fa plagiare senza problemi, narrazione pesantissima infarcita di combattimenti e pistolettate. Risultato: una cianciata noiosa, con coscienza politica zero credibile. Mi sono sfasciato le balle e ho maledetto la critica che ancora esalta questa roba: ma come si può dare retta, trovare simpatico, seguire, il personaggio debordante di Volonté, bestia che non parla, ma urla (unico tra tutti) in uno spagnolo maccheronico e sottolinea ogni cosa con ferine risate e ci manca che cacci anche qualche scoreggia… boh, vai a saperlo. Bello il personaggio secondario del Santo (Kinski) nei cui occhi — al solito — brilla la pazzia, qui rivoluzionaria e cristiana; ma è un po’ poco per farmi salvare il film. Però poi, che abbia ragione io e torto l’universo mondo critico mi sembra curioso… ma chi lo sa? Non ritratto: brutto brutto. (Vhs da RaiTre; 5/10/01)

197 — Il mistero della casa sulla collina dello stiloso William Malone, USA 1999

A cena dall’Alessandra con Barbara e Riccardo. A desinare concluso (Vuoi PRENDERE peso? Chiedimi come!), sdivanata selvaggia e film fornito dal sottoscritto: Il mistero della casa sulla collina, remake di uno storico La casa dei fantasmi con Vincent Price che mai avrò occasione di vedere. Questo in compenso è un bel B-movie dalla confezione notevole (fotografia, scenografia, qualche intuizione registica): un produttore di eventi spettacolari organizza la festa di compleanno della (odiata) moglie in un ex manicomio criminale che venne chiuso dopo la rivolta sanguinosa dei reclusi, sui quali il classico scienziato matto operava assurdi esperimenti. Alla festa convengono cinque persone lontanamente parenti dei superstiti alla strage e cominciano gli ammazzamenti. Dal punto di vista logico è tutto un gran casino e anche se non torna nulla — o perlomeno così sembra al mio cervellino delicato — vabbeh: siamo qui per far degli zompi sulla poltrona e il divano viene sollecitato ben bene. La partenza promette grandi cose, il prosieguo mantiene relativamente, il finale è di una bruttezza assurda e l’ho bellamente rimosso (mentre scrivo non ricordo assolutamente una mazza ma mi devo pur fidare di qualcuno, no?). Ma se lo script va a rotoli, il giovane regista Malone, della Dreamworks, sa mettere bene in scena. Magari non si preoccupa di dare ritmo omogeneo alla vicenda, però ci fa divertire e altro non aspettavamo. (Vhs da Tele+; 6/10/01)

ddv1605.jpg198 — Capricorn One del moviolato Peter Hyams, USA 1978

Capricorn One racconta di una falsa missione su Marte. Uno fa due più due e ci vuole poco a leggere anche una velata metafora di tutta l’operazione Apollo 11. (Tra l’altro: ma non è sembrato anche a voi che Tito Stagno — durante il supposto allunaggio del ’69 — si toccasse in maniera sospetta la cravatta?). Qui succede che la missione verso Marte si prospetti come un clamoroso fallimento. Allora, per non fare una figuraccia e soprattutto per non perdere i grassi finanziamenti statali, si mette in scena una bella finzione. Set televisivo e vai di immagini preregistrate. Ma un giornalista fiuta l’imbroglio, tanto più che gli astronauti debbono essere eliminati. Caccia all’uomo e rivelazione finale davanti alla stampa. Seeeee. L’ipotesi è suggestiva e anche il tema della falsificazione a opera dei media è una bella opportunità, ma Hyams mette in piedi un film col passo della tartaruga sgozzata, specialmente nella prima parte. Capricorn One dura due ore, esiziali per chi si è abituato ai tempi del thriller odierno. Intendiamoci, non è male: è il buon vecchio cinema, solido, costruito con pazienza, ma qui siamo a livelli che ti metti sulla sponda del fiume ad aspettare di veder passare il tuo cadavere… Si arriva al nocciolo della vicenda in un’eternità e inoltre, per quanto nel finale si proceda spediti e ci siano alcune scene decisamente godibili, la trama diventa irritante per come lega in maniera improbabile gli eventi (tipo incontrarsi casualmente nel deserto del Nevada, figuratevi). Fantascienza cospirativa old style, col grandissimo Elliott Gould idolo delle massaie, Telly Savalas in gustoso cammeo, O.J. Simpson zio Tom belloccio e Karen Black, leggendaria e orrenda attrice tipicamente anni Settanta. Come una con gli occhi palesemente storti e in pratica tangenti (come Bush padre e figlio) potesse passare per sex symbol è cosa che mi sfugge. Come tante altre, del resto: spento il videoregistratore apprendiamo che è iniziato l’attacco all’Afghanistan. Hanno la barba lunga: son stati sicuramente loro. (Vhs da RaiUno; 7/10/01)

199 — Febbre a 90° del facilone David Evans, Gran Bretagna 1996

Febbre a 90° me l’ero perso senza grandi rimpianti al Lumière. La base del film è un divertente liberculo di Nick Hornby, scrittore simpatico, furbo con lampi di intelligenza. Fabrizio mi impone di vedere il film e noto che se sulla carta i ricordi s’inseguivano senza troppa attenzione alla trama, qui s’impone un motore narrativo: una storia sentimentale. In realtà la vera storia d’amore è quella del protagonista con l’Arsenal. Ci si mette di mezzo una donna e nascono i problemi: un figlio, una casa nuova, un matrimonio e tante responsabilità. Per fortuna l’Arsenal vince lo scudetto all’ultimo minuto e la moglie si fa comprensiva (?). Violenta cazzata in cui i 90° del titolo non sono né temperatura né minuti del match, bensì i gradi a cui viene messo lo spettatore. Innanzitutto la storia d’amore tra i due tizi è non solo prevedibile in maniera allucinante, ma è pure gestita con tirchieria. Come a dirci che tanto sappiamo come vanno ‘ste cose, no? Due si conoscono, non si piacciono, ma è ovvio che dovranno finire a letto assieme. E succede così, in due scene: s’incontrano e si detestano, la volta dopo lei invita lui a casa sua e ovviamente i due trombano immantinente come due conigli ergastolani. Complimenti. Poi lei non sopporta che lui pensi solo alla sua squadra e via discutendo. Però questo è il classico film di merda con alcune piccole perle. Del libro rimane l’orgoglio maschile e infantile della rivendicazione calcistica (il rito domenicale tribale e identitario, la gioia e la rabbia… il Subbuteo!) e c’è una scena (la prima volta allo stadio, sbucando e vedendosi aprire davanti il campo) che sanno trasmettere un’emozione credibile, non razionale ma autentica. Siccome il Genoa è finito così male che devo aspettare i risultati al lunedì su Televideo, ormai divento una belva illogica solo con la nazionale e solo durante le competizioni ufficiali (aggiungendo rivendicazioni politiche e sessuali alla già imbarbarita loquela che mi contraddistingue), però capisco e comprendo la febbre del tifo. Qui, confusamente, a tratti, del calcio c’è l’idea della passione collettiva e anche la cognizione che tutto ciò abbia poco senso ma che ne valga comunque la pena. Vabbeh, qualcosina, dài. (Vhs originale; 8/10/01)

ddv1606.jpg200 — Jesus’ Son dell’artista (…) Alison MacLean, USA/Canada 1999

Premi della critica, ovazioni ai festival, recensioni favorevoli. E il film, com’è? Una stronzata presuntuosa, vacua, inconcludente come solo certo cinema americano, che pretende di essere d’autore, riesce ad essere. Primi anni Settanta: i vagabondaggi di Fuckhead, il suo amore per Michelle e soprattutto per la droga. Scandito da brevi episodi e da fulminanti visioni indotte dagli stupefacenti assunti a man bassa, Jesus’ Son non ha le motivazioni interne (cosa intendo? Boh!) di un Drugstore Cowboy né sa dirci nulla della mistica dello sballo. Ci sono solo scenette, bozzetti, neanche divertenti, forse emblematici per l’autore letterario (non ho letto il suo libro di racconti e non lo farei neanche con una pistola alla tempia) ma messi sullo schermo senza alcun guizzo. Perché accade tutto ciò? Perché ci viene raccontato? Dov’è il dolore, qui? Mi sembra tutto griffato, compiaciuto, insincero: il Sundance per le masse di bocca buona. Ovviamente ai borghesucci piace vedere lo sporco sotto le unghie del drogato incorreggibile e diverte sentire i discorsi sconclusionati degli sballati alla Easy Rider. Poi, guai a dargli mille lire in metropolitana, ma sullo schermo, figata, eh? Evidentemente la pensano così, dal calduccio della loro redazione, anche i critici bolsi che riprovano il brivido di quando avevano i capelli (lunghi), dormivano in un sacco a pelo e vedere film non era un lavoro. Mah! Jesus’ Son irrita dopo pochi minuti, quando è chiaro che non andrà a parare da nessuna parte. Il protagonista ha una faccia simpatica, lei così cosà, ma è azzeccata per il ruolo. Le musiche sono splendide (il titolo viene da Heroin di Lou Reed) e anche la fotografia regala qualche buon momento, ma per fare un bel film serve altro. Gli ho dato retta per la prima mezz’ora, poi ho ceduto anch’io all’irritazione (Barbara ha cominciato a sbuffare come una locomotiva a vapore dopo 5 minuti soltanto). (Vhs da Tele+; 10/10/01)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 16)