di Alberto Prunetti
Prende avvio su Argentinazo la segnalazione di opere argentine pubblicate in Italia negli ultimi mesi con tre titoli di scrittori che hanno attraversato gli anni bui della dittatura: Mempo Giardinelli, Raúl Argemí e Antonio Dal Masetto. Tre libri accomunati dalla sensibilità politica degli autori – appartenenti a quella generazione che ha superato con molte ferite la temperie degli anni Settanta – e da un’ambientazione che sfugge alla focalizzazione prospettica concentrata su Buenos Aires. Tre libri, tre scrittori argentini. Raúl Argemí, nato nel 1946, ha militato in una formazione guerrigliera e ha scontato 10 anni di carcere (detto per inciso, oggi, a ragione, è uno dei più apprezzati scrittori argentini, assieme a penne di valore come Miguel Bonasso o Horacio Verbitski: fosse vissuto in Italia, paese che non ha fatto i conti con la memoria e la repressione giudiziaria del radicalismo politico degli anni Settanta, lo chiamerebbero ancora “terrorista”). Mempo Giardinelli (1947) ha trascorso in esilio a Città del Messico gli anni della dittatura di Videla e complici (1976-1983), mentre Antonio Dal Masetto (1938) è uno scrittore italo-argentino emigrato in Sudamerica all’età di 13 anni che in Italia, suo paese d’origine, meriterebbe una conoscenza più approfondita.
“Gente strana” di Mempo Giardinelli
(Manni, 2010, traduzione di Arturo Zilli)
Cominciamo col libro di Giardinelli. Gente strana raccoglie una serie di racconti ambientati fuori dagli scenari “argentini” più noti ai lettori italiani, che spesso fanno coincidere il paese australe con Buenos Aires e la Patagonia. Lo scenario delle trame narrative di Giardinelli si sposta nella zona del Chaco, di Corrientes e nelle terre rosse di Misiones, dove lo spagnolo si mescola con il guaranì e talvolta col portoghese. Siamo in quella terra di frontiera tra Argentina, Paraguay e Brasile, nota forse per la vicinanza con le cascate di Iguazú, quest’ultima sì meta di viaggi organizzati dai tour operator europei, forse terra di traffici di contrabbando spicciolo (addirittura di improbabili intrighi di terrorismo internazionale, secondo fonti gringhe poco credibili). Ma la penna di Giadinelli, amara e anticonsolatoria, non ci manda certo cartoline subtropicali inflazionate. Tutt’altro. E se il racconto “Il libro perduto di Jorge Luis Borges”, peraltro bellissimo, sta ancora — ironicamente – dentro l’immaginario delle finzioni e dei labirinti libreschi borghesiani, il timbro diventa più realistico quando l’autore sposta lo scenario in una mensa popolare autogestita di Resistencia (nel Chaco) o negli orrori della repressione istituzionale con “Il castigo di Dio”.
Il racconto che ho apprezzato di più (e ci presenta un contesto che i turisti che viaggiano a Iguazú potrebbero trovare familiare) è “Natale a Iguazú”. Evito di parlarne perché è costruito attorno a una rivelazione/colpo di scena e non voglio anticiparne la trama. Mi limito a dire che dà un’immagine “geriatrica” della banalità del male e che da solo merita l’acquisto del libro. Ma i temi si sommano. La sessualità adolescenziale ne “La notte del treno”, poi la storia di un peón migrante che viene linciato, un racconto che trasuda realismo e violenza (uno di quelli che ho apprezzato di più nella raccolta),e poi ancora la storia di un guerrigliero infame raccontata con uno straniante cambio tra prima e terza persona (“L’altra forma della spada”). E ancora la storia di un bambino che per pietà decide di ammazzare il proprio cane, o quella di un medico che si ritrova nella guerra di bande clandestina della dittatura, con le inquietanti Ford Falcon che si muovono per strada, e ci riporta a Buenos Aires.
Un gran bel libro, di rapida lettura, che cerca di fare i conti con gli orrori della storia argentina. Un libro infine ben tradotto, ma solo per feticismo da bevitore appassionato di mate devo segnalare una imprecisione nella nota del traduttore a pagina 56: la “bombilla” non è il contenitore tradizionale per bere il mate, ma la cannuccia, metallica o talvolta in bambù, con cui si beve l’infuso di Ilex paraguayensis. Il mate nel lessico originale è solo la zucca scavata che fa da contenitore all’infuso, sorbito appunto attraverso la “bombilla”, mentre l’erba mate si chiama colloquialmente “yerba”. Un’inezia, comunque.
“L’ultima carovana della Patagonia” di Raul Argemí
(La nuova frontiera, 2010, traduzione di Raul Schenardi)
L’autore di “Patagonia ciuf ciuf” torna alla carica con la sua ironia sur-reale (categoria critico-patafisica che uso per alludere al realismo del sud del mondo), ironia che non fa rimpiangere certe pagine di Soriano. Latitudini, vento, solitudine e progetti sconclusionati. La Patagonia. E la crisi economica. E la giostra: l’ultima pensata del neoliberismo sfrenato per continuare a far girare il paese. Trasferire continuamente i dipendenti pubblici che non si possono ancora licenziare. Svuotare buche per riempirle. Vendere le banche che così cambiano nome ogni settimana, con insegne sempre più esotiche. Parificare il peso al dollaro facendo finta di essere tutti ricchi. Fare le vacanze a Miami per poi tornare a casa e scoprire che il bancomat non ti dà più soldi. Surrealismo argentino, realismo del sud del mondo. In uno scenario da fine del capitalismo un gruppo di dipendenti pubblici, ognuno con tratti ben tipicizzati (il vecchio rocker, l’ex-desaparecido, il filmaker mezzo-cecato reduce dalle Malvinas e ribattezzato “Fellini”, per citarne alcuni) decidono di formare un partito politico per vincere la noia di essere stati trasferiti in un remoto paese della Patagonia argentina in cui non succede nulla. Cominciano a inventare scritte murarie (“Basta Argentina diet, il Nostro Partito è polenta”) e a fare video di propaganda per l’indottrinamento dei vecchietti dell’ospizio. E saranno questi ultimi i primi militanti del Partito, assieme alle prostitute che occupano un convento di suore, le oblate, prostitute che come in una storia di Arlt finanzieranno le casse della rivoluzione con i bordelli. La disciplina è ferrea ma i progetti sono farneticanti. Intanto mentre i rivoluzionari delirano il paese scende davvero in strada: dopo il “corralito”, il blocco dei bancomat, arrivano i “cacerolazos”, le proteste di strada con i pentoloni battuti dalle casalinghe. E il loro progetto — rapinare una banca per finanziare il movimento — si concretizza finalmente ma proprio nel momento sbagliato, quando di soldi in banca non ce ne sono più (e qui mi fermo perché ho già dato troppi spoilers). Da leggere, divertentissimo.
“Il sacrificio di Giuseppe” di Antonio Dal Masetto
(La nuova frontiera, 2010, traduzione di Elisa Tramontin)
Infine il romanzo di Antonio Dal Masetto. L’ho trovato semplice e stupendo. Vediamo lo scenario. Un piccolo paese, provincia remota. Tagliato in due, la famosa classe media argentina e i poveracci. Ma non è tanto una storia di classe. Un paese di provincia, un po’ bigotto, un po’ sporco, con le suore che si preoccupano della morale delle teenager che sognano come perderanno la verginità, col prete che paga i ragazzetti per farsi sodomizzare. Col commissario che gestisce bordelli e il sindaco intrallazzone che non si vuole sputtanare troppo. Ma non c’entra solo il sesso. Un paese di provincia. Con una storiella adolescenziale d’iniziazione e ribellione contro la famiglia. Cogli intrighi delle liceali e i castighi delle madri. Ma non è solo una cosa generazionale. Un paese con una vecchiaccia che si mobilita solo per cause del cazzo e che ricatta in un modo o nell’altro tutti i leader d’opinione. Con la notaia che ama parlare in pubblico per fare pressione sugli astanti e vendicarsi di non essere diventata la ballerina classica che sognava di diventare. E un negoziante elegante con un passato da nascondere. E gli ultras, los barrabravas, che urlano slogan senza neanche sapere perché. E un fotografo smilzo di origine inglese che tanto basta per essere antipatici in Argentina. Un paese dove l’unico che si fa i fatti suoi è un falegname che di tanto in tanto si congiunge carnalmente con una pecora. Anzi: siccome la pecora è un maschio, neanche con un montone, con un “pecoro”. Ecco, da qui comincia tutto. E tutto sembrerebbe finire con un golpe preciso del solito poliziotto dalle maniere dure. Ma la storia prende una tinta inaspettata nel finale, qualcosa a metà tra la “Grande abbuffata” di Ferreri e una pagina veterotestamentaria. Imperdibile.