di Mattia del CPO Gramigna di Padova
[Sembra incredibile. Due anni di prigione a un giovane operaio e ad altri suoi compagni solo per avere – forse – gridato uno slogan durante un corteo. Questa è l’Italia 2010. Qualcosa di cui vergognarsi.] (V.E.)
Ciao a tutti, ieri mattina ho appreso di essere stato condannato, in primo grado, a due anni per apologia di terrorismo. La mia unica colpa, condivisa con altri sei compagni del CPO Gramigna e un’altra dozzina di anarchici di varie città, è quella di aver partecipato alla manifestazione contro il carcere duro (41 bis) svoltasi a L’Aquila il 3 Giugno 2007. Il corteo di quel giorno, dopo aver attraversato il centro cittadino, terminò con l’invasione dell’area, protetta da limite invalicabile, prossima al carcere speciale del capoluogo abruzzese. In quel carcere, in condizioni di isolamento totale, oltre a numerosi mafiosi è rinchiusa Nadia Lioce.
L’accusa che ci viene rivolta è quella di aver scandito lo slogan: “La fabbrica ci uccide / lo stato ci imprigiona / che cazzo ce ne frega / di Biagi e di D’Antona”.
Ora, a prescindere dal fatto che lo slogan sia stato o meno scandito e da chi effettivamente l’abbia scandito, a prescindere dal giudizio di ognuno sulla Lioce e la sua organizzazione, trovo incredibile il fatto che la magistratura sia arrivata al punto di fabbricare un’inchiesta su uno slogan. Uno slogan che anche analizzato nella sua essenza non è apologia di alcunché, esprime semmai il rifiuto di osservare la realtà dal solo punto di vista che ci è concesso, quello dei media, espressione della presunta democrazia in cui viviamo.
La famosa libertà di espressione, sancita costituzionalmente, impallidisce di fronte a una condanna a due anni, il PM ne aveva chiesti cinque, per uno slogan, e sono costretto a pensare che questa debba servire da monito a tutti quelli che hanno deciso di non chinare la testa.
Tutta l’attività politica che svolgiamo a Padova, attraverso il centro popolare, che abbiamo recentemente rioccupato, i comitati di quartiere e i collettivi studenteschi è incentrata sul continuo confronto con la gente comune, quindi ci rendiamo perfettamente conto di quanto sia difficilmente comunicabile e capibile il senso di una tale operazione repressiva.
Al restare in silenzio, nella vana speranza che la sentenza d’appello possa ribaltare questa situazione, abbiamo preferito comunicare pubblicamente la gravità di questa condanna e il precedente che rappresenta.
Mi domando come mai il Tribunale de L’Aquila, tanto celere nel vagliare fotogramma per fotogramma la manifestazione degli “apologeti” del terrorismo e nell’emettere condanne esemplari, non sia altrettanto solerte nel condannare gli imprenditori che all’indomani del terremoto si fregavano le mani pregustando grandi affari.
Forse vi farà piacere sapere – la nostra avvocatessa dell’Aquila (impegnata anche a difendere i terremotati) ce ne ha dato notizia – che i palazzinari imputati per il crollo della Casa dello Studente hanno chiesto e ottenuto di spostare il loro processo, da L’Aquila a Roma, per incompatibilità ambientale…
Scusate lo sfogo, ma non trovo parole per definire questa magistratura che, mentre si prepara ad assolvere i pescecani dell’edilizia, ha già assolto gli stragisti di Piazza della Loggia…