Darò fuoco a ciò che mi costringe alla Scrittura
di Giuseppe Catozzella
[dal “Corriere nazionale”]
Il nemico (Isbn Edizioni, 102 pagine), romanzo d’esordio di Emanuele Tonon, è prima di tutto un atto di scrittura contro la Sacra Scrittura, contro la disattesa radicale della Promessa del Dio, quella — dopo l’incarnazione — di ritornare sulla terra, e di salvare l’uomo.
Un testamento, quindi, un ennesimo atto mancato, destinato a distruggere se stesso, come viene scritto alla fine del libro quando, insieme alla autocessazione dei due personaggi che non riescono a generare il figlio che vorrebbero, sterili come tutto il mondo, si dichiara l’incendio di ciò che si va scrivendo, la sua distruzione: la distruzione di ogni promessa, di ogni cosa lasciata scritta, dunque, che — in quanto tale — non può che essere destinata alla menzogna poiché “solo la morte è vera”.
Ma la scrittura non può dire la morte se non con un atto di vita, con un eccesso di vitalità, con uno sfoggio di luce: cedendo, quindi, alle lusinghe di Lucifero, il portatore di luce, il portatore dei piccoli “gesti, delle minuzie” che ci attaccano alla vita. E quindi fallisce, la scrittura, non può non farlo.
È, questo, un libro che in primo luogo distrugge se stesso, è la macerazione dell’atto stesso dello scrivere. “Il nemico” è infatti, in primo luogo, proprio il Libro, la Scrittura, sacra e non (che poi è coincidente), e il suo stesso autore, portatore di una vita che non può che essere mortale ed effimera a sua volta, e dunque non degna, specie se passata a lavorare da operaio — da schiavo, dieci, dodici, quattordici, a volte sedici ore al giorno — dentro una fabbrica che ti mangia i polmoni.
In quanto composto di due racconti lunghi, prime due parti di una trilogia cristiana, la prima (il padre) racconta della vita da operaio e della morte da operaio di un padre, la seconda (il figlio) narra la storia di un figlio voluto e mai generato. A comporre i primi due quadri della trinità il vero protagonista è il linguaggio stesso che, mentre dice la menzogna di quando va dicendo, è l’unica cosa che per stacco rimane in mano a chi legge, una mistura oscena di sacro e profano, di registro letterario e pornografico, di scempio e di divino: di nuovo, solo il tono di una voce. Di nuovo, il niente. Di nuovo, tutto ciò che solo c’è: la vita, incarnata in una sola voce, altissima e oscena.